Al datore di lavoro, esclusa a priori la possibilità di effettuare accertamenti sanitari diretti sul lavoratore in malattia, non è affatto preclusa la facoltà di riscontrare l’idoneità al lavoro e, pertanto, a ritenere ingiustificata l’assenza per malattia del dipendente, servendosi di una agenzia investigativa, né può ritenersi violata la normativa sulla privacy nell’utilizzo delle riproduzioni meccaniche di cui all’art. 2712 c.c. (vale a dire quelle: fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose), quando queste attengono a condotte del lavoratore manifestate al di fuori dell’ambito domestico e, pertanto, che non invadono i profili di personalità del lavoratore ovvero il suo domicilio.
Tanto ha di recente stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18507, pubblicata in data 21.09.2016.
Diversi spunti di interesse si annotano nella sentenza in commento che prende origine dal licenziamento intimato al lavoratore per giusta causa e, in particolare, per “simulazione fraudolenta dello stato di malattia”.
Il lavoratore, infatti, nonostante risultasse in malattia e, pertanto, assente dal posto di lavoro per sopravvenuta inidoneità temporanea a prestare la propria attività lavorativa a cagione della patologia (“gonalgia e lombalgia acuta”) accertata dal medico dell’INPS, veniva sorpreso – da un investigatore privato incaricato all’uopo dal datore di lavoro – ad eseguire dalle ore 13.30 alle ore 14.20 lavori sul tetto e nel cortile della propria abitazione.
Detta “attività” del lavoratore veniva riprodotta per mezzo di fotografie e filmati, approntati dal dipendente dell’agenzia investigativa incaricata che, pertanto, davano origine alla giusta causa per il licenziamento del lavoratore infedele.
Questi adiva il Tribunale competente territorialmente e impugnava il licenziamento, ritenuto dallo stesso inammissibile in virtù dell’adombrata illeceità dell’attività investigativa disposta in suo danno dal datore di lavoro.
Il Tribunale sposava la tesi del lavoratore e, conseguentemente, dichiarava l’illegittimità del licenziamento.
Sul reclamo proposto dal datore di lavoro la Corte di Appello di Caltanissetta ribaltava la decisione di primo grado ritenendo legittimo il ricorso, da parte del datare di lavoro, ad una agenzia investigativa per verificare l’attendibilità della certificazione medica nonché utilizzabili il video e le fotografie poste a corredo del gravame.
Il giudizio, come detto, giungeva quindi dinnanzi alla Corte di Cassazione – Sezione Lavoro, alla quale il lavoratore ricorreva evidenziando una serie di violazioni di legge, il mancato rispetto della privacy nonché l’esistenza di documentazione medica proveniente dall’INPS che, appunto, attestava indubitabilmente lo stato di malattia del lavoratore.
Di contrario avviso, tuttavia, la Suprema Corte che respinge il ricorso e condanna il lavoratore a pagare le spese di giudizio, oltre al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
La stessa dà atto del normativa vigente in materia e, in particolare, dell’art. 5 L. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) per cui vige il divieto di accertamenti sanitari sul proprio dipendente da parte del datore di lavoro e sulla facoltà dello stesso di effettuare il controllo delle assenze per infermità esclusivamente attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali, tuttavia, tale divieto non preclude “al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato d’incapacità lavorativa e, quindi, a giustificare l’assenza (Cass. 25162/2014; Cass. 6236/2001)”.
Tanto, sostiene la Corte perché siffatto accertamento non attiene direttamente alla verifica dello stato di malattia (precluso al datore di lavoro), bensì ha ad oggetto comportamenti extra lavorativi che concernono il corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal contratto di lavoro.
Al pari infondata è la questione relativa alla violazione della privacy del lavoratore, in considerazione del fatto che la sentenza ha accertato come la condotta oggetto di addebito è stata posta in essere sul tetto dell’abitazione, non all’interno di essa, di talché non vi era alcun domicilio del lavoratore da tutelare.
In merito all’utilizzabilità in giudizio delle riprese fotografiche e video, disconosciute dal lavoratore alla prima udienza, la Corte di Cassazione ricorda come: “il disconoscimento delle riproduzioni meccaniche di cui all’art. 2712 c.c., che fa perdere alle stesse la loro qualità di prova, pur non essendo soggetto ai limiti e alle modalità di cui all’art. 214 c.p.c., deve, tuttavia, essere chiaro, circostanziato ed esplicito (dovendo concretizzarsi nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta) e – al fine di non alterare l’iter procedimentale in base al quale il legislatore ha inteso cadenzare il processo in riferimento al contraddittorio – deve essere tempestivo e cioè avvenire nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla rituale acquisizione delle suddette riproduzioni, dovendo per ciò intendersi la prima udienza o la prima risposta successiva al momento in cui la parte onerata del disconoscimento sia stata posta in condizione, avuto riguardo alla particolare natura dell’oggetto prodotto, di rendersi immediatamente conto del contenuto della riproduzione. Ne consegue che potrà reputarsi tardivo il disconoscimento di una riproduzione visiva soltanto dopo la visione relativa e quello di una riproduzione sonora soltanto dopo la sua audizione o, se congruente, la rituale acquisizione della sua trascrizione (Cass. 9526/2010; Cass. 2117/2011)”.
Ciò posto, il semplice disconoscimento della data e dell’ora del video, non appare sufficiente a dimostrare una diversa realtà rispetto a quella riprodotta meccanicamente, peraltro, l’anzidetta prova video è corroborata anche dalla testimonianza rilasciata in aula dall’investigatore che ha realizzato il filmato e le fotografie, testimonianza da ritenersi ammissibile, in considerazione dell’estraneità del teste ai fatti di causa.
Infine, per quanto concerne l’ultimo motivo di ricorso, vale a dire l’omessa valutazione della certificazione medica INPS attestante lo stato di malattia del dipendente, affetto, come detto, da gonalgia e lombalgia acuta e, conseguentemente, la prova legale della malattia del lavoratore, la Suprema Corte evidenzia come: “il certificato redatto da un medico convenzionato con l’INPS per il controllo della sussistenza delle malattie del lavoratore, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 300 del 1970, è atto pubblico che fa fede, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che l’ha formato nonché dei fatti che il pubblico ufficiale medesimo attesta aver compiuto o essere avvenuti in sua presenza” (Cass. 5000/1999; Cass. 10569/2001). E’ stato peraltro precisato che “tale fede privilegiata non si estende anche ai giudizi valutativi che il sanitario ha” in occasione del controllo “espresso in ordine allo stato di malattia e all’impossibilità temporanea della prestazione lavorativa” (Cass. 6045/2000)”.
Ecco che allora giustificato si ritiene il licenziamento comminato al dipendente surrettiziamente assente per malattia, per il quale viene accertata la fraudolenta simulazione della stessa, in virtù della violazione dei generali doveri di correttezza e buona fede oltre che degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nei confronti del datore di lavoro.
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