La Corte Costituzionale, con sentenza n. 97 del 22 maggio 2020, ha sancito che è legittimo lo scambio di beni di modico valore tra detenuti in regime ex art 41 bis O.P. appartenenti allo stesso gruppo di socialità.
Indice
- 1. Premessa
- 2. Questione originariamente posta al vaglio della Magistratura di sorveglianza
- 3. Incipit della questione e rimessione alla Corte Costituzionale
- 4. Motivazioni del giudice rimettente: la Corte di Cassazione
- 5. Motivazioni della Corte Costituzionale
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- Note
1. Premessa
L’art. 15 del P.R. n. 230 del 2000, Regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario, vieta la cessione di somme in peculio [1] tra detenuti ed o internati, salvo che si tratti di componenti dello stesso nucleo familiare. E’, pertanto, rigorosamente vietato che un ristretto ceda (nel senso che ne chieda all’Amministrazione il trasferimento) a qualsiasi titolo, una somma di peculio ad altro, se non allo stesso legato da vincolo di parentela. La ratio generale della norma è ben comprensibile ed è anche volta ad evitare le influenze nocive; vi è divieto funzionale, in primo luogo, affinché le cessioni non siano strumentalizzate come forme di assoggettamento e leadership e, cioè,come donazione materiale da parte del ristretto succube rispetto a quello autore della sopraffazione ed estorsione, sia, in modo contraria, la cessione può atteggiarsi contropartita di mantenimento, pretium devotionis da parte del leader a favore del succube. La medesima norma, di contro, consente la “cessione tra detenuti ed internati di oggetti di modico valore”, rectius a tutti i detenuti. Si intendono, quindi, con il termine di cessioni di modico valore quelle dazioni di mutuo sostegno ed esile valore economico tra ristretti, come, ad esempio, prodotti alimentari in piccole quantità (tabacco, caffè, pasta, zucchero, etc.) o per l’igiene personale.
Ebbene tale norma generale non trova applicazione per i ristretti destinatari del regime ex art. 41 bis O.P. [2]. Per tali ristretti, l’ultima circolare n. 3676/6126 del 2 ottobre 2017 del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, all’art. 4, comma l, dispone il divieto tombale di scambio di oggetti tra tutti i detenuti/internati anche appartenenti allo stesso gruppo di socialità (gruppo con il quale i detenuti destinatari di tale possono fruire di attività ordinamentali e trattamentali in numero massimo di quattro persone); tale divieto era stato ribadito dalla Corte di Cassazione, sezione penale, 13.7.2016 – 8.2.2017 n° 5977, proprio per la pregnanza e la finalità securitaria massima di tale regime.
2. Questione originariamente posta al vaglio della Magistratura di sorveglianza
Un detenuto interessato dal regime ex art. 41 bis O.P. operava reclamo contro ordine di servizio di una direzione che, congruamente rispetto a quanto previsto dalla circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, n. 3676/616 del 2 ottobre 2017, volto ad evitare lo scambio e cessione di beni di modico valore, tra tutti i detenuti interessati da tale regime.
L’art. 3 della circolare de qua statuisce che “dovrà essere assicurata l’impossibilità di comunicare e di scambiare oggetti tra tutti i detenuti/internati anche appartenenti allo stesso gruppo di socialità (con epigrafe in notaSentenza della Suprema Corte di Cassazione n.5977 del 08.02.2017).
Con ordinanza del 27 marzo 2018, il Magistrato di sorveglianza di Spoleto accoglieva il reclamo, ordinando alla direzione dell’istituto penitenziario di adottare un ordine di servizio diverso dall’esistente oggetto del reclamo, al fine di circoscrivere il divieto originario ai soli detenuti che non facessero parte del medesimo gruppo di socialità, consentendolo, invece, tra questi ultimi.
Contro tale provvedimento, proponeva reclamo il Ministero della Giustizia, adendo il Tribunale di sorveglianza di Perugia per l’annullamento dell’ordinanza impugnata; tanto sulla scorta della valutazione che il divieto di scambio di generi alimentari “infragruppo” potrebbe assurgere a strumento ostativo sia alla negazione di posizioni di predominio tra i detenuti ma, anche, alla finalità di evitare occultamento di beni, oggetti o messaggi utili a mantenere i contatti con il sodalizio criminoso.
Il Tribunale di sorveglianza di Perugia rigettava il reclamo, per motivi analoghi a quelli illustrati al precedente punto 2. In aggiunta, osservava che gli scambi in esame, quand’anche autorizzati, non hanno mai previsto la traditio diretta del bene tra un detenuto ed un altro, essendo inibito ai reclusi di portare con sé degli oggetti all’uscita della stanza detentiva (bottiglietta d’acqua, pacchetto di fazzoletti di carta, e simili), con le modeste deroghe previste dall’art. 11.2 della più volte citata circolare DAP del 2 ottobre 2017 quindi sussistendo, in ogni caso, “il filtro del controllo visivo quale ulteriore meccanismo a presidio di eventuali comunicazioni fraudolente”.
Avverso l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Perugia proponeva ricorso per Cassazione il Ministero della Giustizia, articolando le medesime considerazioni già illustrate nel precedente giudizio.
In entrambi i giudizi interveniva il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la non fondatezza delle questioni sollevate.
Tanto poiché ”se la funzione del regime speciale è quella di impedire determinate comunicazioni, risulta «evidente» che anche la socialità, nei particolari termini in cui è consentita, non è altro che un momento di dialogo che, necessario perché il detenuto conservi la possibilità di mantenere i rapporti sociali, può comunque trasformarsi in uno strumento per la trasmissione di messaggi all’esterno, che possono transitare ai familiari di taluno degli interlocutori”.
Proprio a tal fine, il Legislatore, non solo ha circoscritto gli incontri intramurari dei detenuti sottoposti al 41 bis O.P. al solo gruppo di socialità di appartenenza, ma avrebbe anche disposto che, all’interno di tale gruppo di massimo quattro persone, le comunicazioni non assumano modalità diverse da quelle forme, gestuali o verbali, sostanza delle relazioni umane.
Secondo l’Avvocatura, altresì, vista la particolare pericolosità e la teleologia delle norme contenute nel regime, per qualunque oggetto sarebbe possibile attribuire convenzionalmente un determinato significato comunicativo diverso e precipuo, anche quando il bene in sé sia privo di una valore economico o valenza simbolica apparente, e che lo scambio di oggetti fra detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità, potrebbe rappresentare un eventuale passaggio di informazioni criptate fra detenuti sottoposti al regime speciale nello stesso gruppo e, per il tramite dei colloqui di costoro, con i familiari, all’esterno. Tanto senza valutare le logiche di sopraffazione e o di assoggettamento, oltre alle possibili nocive influenze, tipiche dell’humus detentivo, da evitare massimamente per tutti i detenuti ex 41 bis O.P. particolarmente pericolosi sotto un profilo criminale.
3. Incipit della questione e rimessione alla Corte Costituzionale
Secondo il reclamante, invece, lo scambio di beni ed oggetti di modico valore, spesso generi alimentari provenienti da pacco o da acquisti attraverso il servizio ditta interna, “non poteva mettere a rischio il perseguimento delle finalità cui è preordinato il regime carcerario previsto dall’art. 41-bis ordin. penit., considerato che i detenuti interessati allo scambio erano già stati ammessi «a fruire in comune la cd. Socialità”.
Il Magistrato di Sorveglianza di Spoleto aveva dichiarato inammissibile il reclamo presentato ai sensi dell’art. 35-bis O.P., conformemente a quanto previsto dall’art. 4, comma l, della circolare del 2 ottobre 2017, n. 3676/6126, del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (d’ora innanzi: DAP), non potendosi riconoscere la sussistenza di alcun diritto soggettivo avente ad oggetto «il passaggio di generi alimentari ad altri ristretti».
Tale provvedimento di inammissibilità era stato oggetto di reclamo innanzi al Tribunale di sorveglianza di Perugia che lo aveva, invece, accolto.
Contro questa ordinanza del Tribunale di Perugia proponeva ricorso per Cassazione il Ministero della giustizia, sostenendo che la decisione e l’interpretazione assunte e sostenute dal Tribunale di sorveglianza di Perugia si ponessero come contrarie “all’inequivoco tenore letterale” della disposizione censurata che, come anche confermato dalla giurisprudenza di legittimità, non ammette il superamento del divieto di scambio di oggetti anche tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità; si specifica che la formulazione letterale della disposizione statuisce solo che solo il divieto di comunicazione ammette deroga all’interno del medesimo gruppo di socialità», aggiungendo che lo scambio di oggetti non sarebbe “così essenziale alla socializzazione come il comunicare”.
4. Motivazioni del giudice rimettente: la Corte di Cassazione
Secondo il collegio di Cassazione rimettente rispetto alla questione di costituzionalità, il divieto di scambio tra soggetti del medesimo gruppo di socialità non sarebbe giustificato per motivi di sicurezza, né proporzionato e congruo rispetto al divieto ed al fine perseguito dall’art. 41 bis O.P., regime che ha come target genetico quello di impedire i collegamenti criminali tra il detenuto e l’associazione criminale di appartenenza o altre associazioni delinquenziali. Evidenzia che i detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità (nel numero massimo di quattro) possono trascorrere tempo libero autorizzato tra loro con conseguente facoltà anche di comunicazione tra loro; come pandant ne deriva che il perseguimento tale “assoluta impossibilità”, secondo il Collegio, vada riferito alle comunicazioni fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, e non alle comunicazioni tra i detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità e, prosegue, la necessità di assicurare la radicale cessione di beni ed oggetti non va declinata rispetto agli appartenenti il medesimo gruppo, reputandola, se così fosse, qualificata, incompatibile con il dettato costituzionale.
A parere degli Ermellini, il divieto di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità si atteggia a effettivamente organico a garantire gli obiettivi di prevenzione regime, soprattutto dopo la novella del legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica); di contro, il divieto di cessione di oggetti, di modico valore, orizzontalmente ed indifferentemente applicato, non è funzionale a fronteggiare alcun pericolo per la sicurezza pubblica, ed avrebbe “una portata meramente afflittiva”, con disparità di trattamento rispetto ai detenuti in regime ordinario. Secondo la giurisprudenza costituzionale, la sospensione delle regole del regime penitenziario ordinario prevista dall’art. 41-bis O.p. è quella di “rescindere i collegamenti ancora attuali sia tra i detenuti che appartengano a determinate organizzazioni criminali, sia tra gli stessi e gli altri componenti del sodalizio che si trovano in libertà”, con richiamo dellepronunce n. 122 del 2017, n. 143 del 2013, n. 417 del 2004, n. 192 del 1998 e n. 376 del 1997.
Chiarito il contenuto normativo della disposizione, il collegio della Corte di Cassazione rimettente ritiene la norma censurata possa essere in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione.
5. Motivazioni della Corte Costituzionale
La Corte Costituzionale, presieduta dal Giudice Marta CARTABIA, riuniti i giudizi, con sentenza depositata in Cancelleria il 22 maggio 2020, ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui prevede l’adozione delle necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata «la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti» anziché «la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità.” La medesima giurisprudenza costituzionale avrebbe imposto due limiti al regime differenziato ex art. 41 bis O.P., nel solco delle pregresse pronunce. Il primo limite a tale regime sarebbe direttamente discendente dall’art. 3 della Costituzione, circa la congruità e proporzionalità delle misure applicate rispetto allo scopo che essa persegue, con discendente illegittimità di misure non riconducibili alla concreta esigenza di tutelare l’ordine e la sicurezza ed apodittiche ed aventi una sostanza puramente afflittiva. Il secondo limite discenderebbe dai principi fissati nell’articolo 27 della Costituzione, in virtù del quale le restrizioni disposte ai sensi dell’art. 41-bis, comma 2, O.P. non possono inficiare completamente la necessaria finalità rieducativa della pena ed essere contrari al il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità previsto dalla Carta costituzione (le sentenze n. 149 del 2018, n. 351 del 1996 e n. 349 del 1993). La sostanza del finalismo rieducativo della pena, di cui all’art. 27 della Costituzione, è comprovata, secondo la Corte, anche dalla stessa creazione di gruppi limitati gruppo di detenuti per le attività in comune, organizzato dalla Amministrazione penitenziaria che, da un lato, devono avere ossequio per la necessità di impedire il mantenimento dei legami con il contesto criminale di provenienza, ma, parimenti, garantire forme minime di socialità che, secondo i dettami della Corte Costituzionale, “si estrinsecano anche nello scambio di oggetti di scarso valore e di immediata utilità o di generi alimentari tra persone che si frequentano “senza filtri” ogni giorno e in una prospettiva di normalità di rapporti interpersonali», finirebbe per realizzare una non consentita limitazione dei principi presidiati dall’art. 27 Cost.”
La novella al 41 bis O.P., apportata dalla legge n. 94 del 15 luglio 2009, ha apportato numerosi interventi a tale regime. Sul tema in argomento, il comma 2-quater dell’art. 41-bis è stato modificato, con elisione di discrezionalità nella applicazione delle condizioni detentive speciali “atteso il tenore letterale della disposizione, secondo cui il provvedimento ministeriale di sospensione delle regole di trattamento carcerario «prevede», e non più «può prevedere» (cit.)”, con una serie di misure specifiche, che costituiscono il contenuto tipico e necessario del regime speciale [3] che vanno obbligatoriamente applicate a tutti i sottoposti al predetto, come quelle disposte alla lettera f) dell’art. 41-bis, comma 2-quater, O.p.., oggetto del presente giudizio di legittimità costituzionale. Le stesse, pur assicurando anche ai detenuti de quibus momenti e forme di socialità intramuraria, circoscrivono queste relazioni all’interno di gruppi ristretti, costituiti da non più di quattro persone, limitandone altresì la durata massima; e con modalità prescelta dal legislatore per conciliare, da una lato, la finalità essenziale del regime differenziato (evitare che i detenuti più pericolosi possano mantenere vivi i propri collegamenti con le organizzazioni criminali di riferimento) e, dall’altra, l’esigenza di garantire le accennate forme indispensabili di socialità; pertanto, chiaro è il contenuto della citata lettera f) con la “assoluta impossibilità di comunicare fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità”, quindi al medesimo gruppo di socialità di assegnazione.
Tuttavia, continua la Corte, distinto rilievo va posto rispetto ad un ulteriore divieto relativo allo scambio di oggetti, sintatticamente separato dal primo, che si reputa abbia significato distinto dal divieto di cessione di beni, non già servente e connesso al divieto di comunicazioni tra detenuti assegnati a gruppi diversi.
A tal fine, statuisce la Corte costituzionale, le sollevate questioni risultano fondate, per violazione degli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione. Il divieto di scambiare oggetti, nella parte in cui si applica anche ai detenuti inseriti nel medesimo gruppo di socialità, non appare né teleologico rispetto alla finalità tipica ed essenziale del provvedimento di sottoposizione del singolo detenuto al 41 bis O.p., consistente nell’impedire le sue comunicazioni con l’esterno; né appare motivata la deroga alla regola ordinariamente valida per i detenuti, che possono scambiare tra loro “oggetti di modico valore” (art. 15, d.P.R. n. 230/2000). La proibizione assumerebbe una pregnanza meramente afflittiva, in violazione tanto dell’art. 3 che dell’art. 27, terzo comma della Costituzione, secondo la Corte costituioni.
Le attività in gruppo, ordinamenti e trattamentali, lo ricordiamo, hanno la loro declinazione, sia nelle ore di fruizione dei cosiddetti “cortili passeggio” che, anche nella fruizione delle salette – adibite a biblioteca, palestra e sale hobby – per le attività ricreative, nei tempi ed attraverso gli strumenti messi a disposizione dall’Amministrazione.
Rispetto al possibile utilizzo dello scambio di beni come forma di supremazia e sopraffazione nel giudizio in questione, l’Avvocatura generale dello Stato dichiara che lo scambio di oggetti può essere ordinato ed imposto all’interno del medesimo gruppo di socialità dal membro di maggiore potere e caratura criminale, allo scopo di dimostrare, attraverso l’esercizio della capacità di costringere gli altri componenti a privarsi di beni essenziali, seppur posseduti in quantità limitata, Anche rispetto alla possibile costruzione di supremazia con la cessione di beni, pur di modico valore, la Corte costituzionale, citando la sentenza n. 186 del 2018, reputa, invece, che questo rischio sia neutralizzato ed impedito “attraverso la definizione e l’applicazione rigorosa e imparziale delle regole del trattamento carcerario» e “ non potrebbe, per converso, considerarsi legittimo, a questo scopo, l’impiego di misure più restrittive nei confronti di singoli detenuti in funzione di semplice discriminazione negativa, non altrimenti giustificata, rispetto alle regole e ai diritti valevoli per tutti”.
La compressione della possibilità di scambiare oggetti con gli altri detenuti del medesimo gruppo, continua la Corte Costituzionale, appare rientrante in una minimale facoltà di socializzazione, con la conseguente deroga all’applicazione delle regole ordinarie, che potrebbe giustificarsi ed essere motivata, non in via generale e astratta, ma solo nel caso di necessità e condizioni concrete di garantire la sicurezza dei cittadini, al fine di prevenire i contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, come recita l’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera a) O.P.. Diversamente, una applicazione necessaria e generalizzata di tale divieto di scambiare oggetti, anche ai detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità, avrebbe il limite di essere rappresentare un bilanciamento ex ante apodittico e scevro da motivazioni di sicurezza, concrete e calibrate sui singoli casi in contrasto con i citati articoli della Carta costituzionale.
Pertanto, la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 97 del 5 maggio 2020 (depositata in data 22 maggio 2020), Presidente Marta Cartabia, qualifica “…la previsione ex lege del divieto assoluto a costituire misura sproporzionata, anche sotto questo profilo in contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Costituzione”.
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Note
- [1]
Art. 25 della Legge n. 354 del 26 luglio 1975, n. 354 Peculio. “Il peculio dei detenuti e degli internati è costituito dalla parte della remunerazione ad essi riservata ai sensi del precedente articolo, dal danaro posseduto all’atto dell’ingresso in istituto, da quello ricavato dalla vendita degli oggetti di loro proprietà o inviato dalla famiglia e da altri o ricevuto a titolo di premio o di sussidio. Le somme costituite in peculio producono a favore dei titolari interessi legali. Il peculio è tenuto in deposito dalla direzione dell’istituto. Il regolamento deve prevedere le modalità del deposito e stabilire la parte di peculio disponibile dai detenuti e dagli internati per acquisti autorizzati di oggetti personali o invii ai familiari o conviventi, e la parte da consegnare agli stessi all’atto della dimissione dagli istituti.
- [2]
Art. 41 bis (situazioni di emergenza) della legge n. 354 del 1975: “…1 In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il Ministro della giustizia ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto. 2 Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del Ministro dell’interno, il Ministro della giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’articolo 4-bis o comunque per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. La sospensione comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti con l’associazione di cui al periodo precedente. In caso di unificazione di pene concorrenti o di concorrenza di più titoli di custodia cautelare, la sospensione può essere disposta anche quando sia stata espiata la parte di pena o di misura cautelare relativa ai delitti indicati nell’articolo 4-bis. 2-bis. Il provvedimento emesso ai sensi del comma 2 è adottato con decreto motivato del Ministro della giustizia, anche su richiesta del Ministro dell’interno, sentito l’ufficio del pubblico ministero che procede alle indagini preliminari ovvero quello presso il giudice procedente e acquisita ogni altra necessaria informazione presso la Direzione nazionale antimafia, gli organi di polizia centrali e quelli specializzati nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata, terroristica o eversiva, nell’ambito delle rispettive competenze. Il provvedimento medesimo ha durata pari a quattro anni ed è prorogabile nelle stesse forme per successivi periodi, ciascuno pari a due anni. La proroga è disposta quando risulta che la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva non è venuta meno, tenuto conto anche del profilo criminale e della posizione rivestita dal soggetto in seno all’associazione, della perdurante operatività del sodalizio criminale, della sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, degli esiti del trattamento penitenziario e del tenore di vita dei familiari del sottoposto. Il mero decorso del tempo non costituisce, di per sé, elemento sufficiente per escludere la capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione o dimostrare il venir meno dell’operatività della stessa….”
- [3]
Sentenze n. 186 del 2018 e n. 122 del 2017 della Corte Costituzionale.
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