1. L’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto e l’esercizio dell’attività d’impresa
Nell’attuale sistema giuridico gli enti ecclesiastici agiscono nel mercato dei beni e servizi al pari degli altri operatori economici. Essi possono esercitare un’attività d’impresa al fine di reperire forme finanziamento necessarie per il perseguimento delle finalità religiose ed assistenziali ([1]). Le risorse economiche di cui godono le confessioni religiose non sono più sufficienti a garantire la loro corretta operatività nella società contemporanea. Tale condizione induce gli enti esponenziali ad autofinanziare le proprie attività istituzionali attraverso lo svolgimento attività lucrative ([2]).
La legislazione pattizia non esclude la possibilità che gli enti ecclesiastici svolgano anche attività diverse da quelle di religione o di culto, purché consentite dall’ordinamento italiano. La legge di esecuzione e ratifica dell’Accordo di Villa Madama del 1984 (L.n. 121/1985) ([3]), all’art. 7, n. 3, prevede la possibilità per gli enti ecclesiastici cattolici di realizzare altre attività, le quali devono essere sottoposte alla disciplina statale. La L.n. 222 del 1985, individua all’art. 16 le attività di religione o di culto (lett. a) e le attività c.d. diverse (lett. b) degli enti ecclesiastici cattolici. Le prime sono attività “dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all’educazione cristiana”; le seconde sono attività “di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura, e, in ogni caso, le attività commerciali o a scopo di lucro” ([4]). Tale criterio distintivo si applica anche alle confessioni religiose diverse dalla cattolica, con le quali lo Stato italiano ha concluso un’intesa. Le attività diverse che possono essere svolte da tali enti, sono quelle di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura, commerciali o a scopo di lucro; le attività di religione o di culto, invece, sono differenti a seconda della confessione religiosa cui afferisce l’ente ecclesiastico, per la cui individuazione si rinvia alle singole intese di riferimento.
Le attività di religione o di culto sono sottoposte ad una disciplina speciale, in ragione del principio di autonomia dell’ente ecclesiastico e del principio di non ingerenza dello Stato. Lo Stato, infatti, non può interferire nelle attività di religione o di culto, né può assumere iniziative di controllo nei confronti dell’ente ecclesiastico. Gli atti di ordinaria o straordinaria amministrazione preordinati al perseguimento delle finalità religiose sono disciplinati dalle norme contenute all’interno degli statuti e dagli ordinamenti confessionali, inoltre, sono sottoposti ai controlli delle autorità confessionali ([5]). La speciale condizione giuridica in cui versa l’ente ecclesiastico è stata chiarita, per quanto riguarda la Chiesa cattolica, dalla Commissione Paritetica nella “Relazione sui Principi” (Roma, 6 luglio 1984). La Commissione ha cercato di delineare una condizione giuridica per gli enti ecclesiastici cattolici che non fosse discriminatoria ma, in ogni caso, privilegiata, in conformità agli artt. 20 e 7 del dettato costituzionale. Essa ha precisato che l’ente ecclesiastico “è regolato da una disciplina speciale che ne salvaguardia le caratteristiche originarie ed il collegamento con la struttura e l’ordinamento della Chiesa […]” ([6]).
Lo svolgimento delle attività c.d. diverse è invece assoggettato alla disciplina comune. Gli enti ecclesiastici, in tal caso, sono essere equiparati alle persone giuridiche private che, all’interno dell’ordinamento giuridico, svolgono la medesima attività. L’individuazione della disciplina giuridica applicabile agli ecclesiastici avverrebbe in base, dunque, ad un criterio oggettivo, ovvero analizzando l’attività effettivamente svolta ([7]).
Non sempre, però, tale criterio, è stato correttamente applicato dalla giurisprudenza. In un caso, il Tribunale di Udine (7 luglio 1989) ha omologato la delibera assembleare di una società a responsabilità limitata, che modificava lo statuto societario e la validità degli atti di straordinaria amministrazione, alle decisioni dell’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero (unico socio della società interessata), al fine di applicare la disciplina speciale in luogo della disciplina societaria. La sentenza in oggetto merita alcune osservazioni. La corte non ha applicato il criterio oggettivo per l’individuazione della disciplina applicabile al caso di specie, in quanto è in re ipsa che la società a responsabilità limitata svolga un’attività commerciale. D’altra parte, non può neanche ritenersi che i giudici abbiano seguito il criterio soggettivo, poiché l’ente direttamente interessato è una società lucrativa e non un ente ecclesiastico ([8]).
La sottoposizione delle attività diverse degli enti ecclesiastici alle norme di diritto comune trova fondamento nel dettato costituzionale e, in particolare, nel principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Carta. Ove, infatti, si ammettesse la sottoposizione alla disciplina speciale anche delle attività diverse, si realizzerebbe un’area di ingiustificato privilegio per gli enti ecclesiastici che penalizzerebbe le altre persone giuridiche. Pur svolgendo la medesima attività, gli enti ecclesiastici e le persone giuridiche private, nell’ipotesi in questione, sarebbero sottoposti a differenti regimi giuridici, dei quali uno sicuramente più favorevole ([9]). La giurisprudenza amministrativa ha escluso la possibilità che per le attività diverse, svolte dall’ente ecclesiastico, sia applicata la normativa speciale ([10]).
La giurisprudenza e la dottrina concordano nell’evitare una disparità di trattamento tra le persone giuridiche private e gli enti ecclesiastici nell’esercizio delle medesime attività. D’altra parte, occorre evidenziare che la sottoposizione degli enti ecclesiastici, per le attività extra-religiose, alla disciplina comune non può condizionare ed interferire con la loro natura confessionale ([11]).
Il limite riguardante l’applicabilità della disciplina comune per le attività c.d. diverse svolte da parte degli enti ecclesiastici cattolici è previsto dall’art. 7, n. 3, della L.n. 121/1985. La clausola pattizia dispone che: «Le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime».
La disposizione pattizia appena esposta non è di agevole interpretazione. Non v’è dubbio che scopo ultimo di tale clausola sia di evitare un’alterazione della struttura e delle finalità istituzionali dell’ente ecclesiastico. Grandi difficoltà emergono, invece, per l’individuazione dell’ambito di applicazione della norma. Secondo alcuni autori, il limite apposto dalla disposizione pattizia riguarderebbe la tipologia di attività svolta, non rilevando la disciplina giuridica cui essa è sottoposta ([12]). Un ente ecclesiastico, dunque, che istituzionalmente persegue un fine essenzialmente religioso, non potrebbe svolgere attività economiche spropositate o di natura profana. Non potrebbe gestire, ad esempio, una società finanziaria o una catena di hotel di lusso.
Ad una più attenta anamnesi della norma pattizia, l’inciso «nel rispetto della natura e della finalità di tali enti» sembra riferirsi non alla tipologia di attività svolta, ma alla disciplina di diritto comune che, in ragione di tali attività diverse, si applicherebbe agli enti ecclesiastici. L’ente ecclesiastico può svolgere qualsiasi tipo di attività ([13]) e, pertanto, sarà sottoposto alle norme previste dall’ordinamento nazionale. La verifica di compatibilità rispetto alla struttura e le finalità dell’ente ecclesiastico deve riguardare l’applicazione delle leggi civili concernenti le attività diverse da esso svolte. La disciplina pattizia tende a salvaguardare i profili soggettivi degli enti ecclesiastici rispetto alla disciplina delle attività diverse, la cui competenza è rimessa al legislatore unilaterale ([14]). La soggezione al diritto comune per l’esercizio delle attività diverse incontra dunque il limite della struttura e della finalità dell’ente ecclesiastico ([15]).
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2. Il dibattito dottrinale e le posizioni della giurisprudenza di merito
L’ente ecclesiastico può legittimamente svolgere attività c.d. diverse ed in particolare un’attività lucrativa, al fine di reperire le risorse economiche necessarie per il perseguimento delle finalità di religione e di culto. In tal caso, potrà assumere la qualifica di imprenditore ([16]) e, ad esso, dovrà essere applicata la relativa disciplina giuridica. Lo statuto dell’imprenditore, tuttavia, potrebbe avere alcuni profili di incompatibilità con la speciale struttura e finalità degli enti ecclesiastici, in particolare nella parte in cui prevede l’assoggettabilità dell’impresa alle procedure concorsuali. Ciò ha indotto la dottrina a riflettere sulla possibilità di assoggettare un ente ecclesiastico che eserciti attività d’impresa alle procedure concorsuali ([17]).
L’esigenza di tutela della par conditio creditorum delle procedure concorsuali, dovrebbe, secondo un orientamento dottrinale, cedere di fronte all’esigenza di tutela, avente rilievo costituzionale, dell’autonomia degli enti ecclesiastici da qualsiasi ingerenza da parte dello Stato. Un intervento autoritativo dello Stato, come quello degli organi delle procedure concorsuali, nel patrimonio dell’ente, sarebbe, dunque, del tutto precluso. La disciplina pattizia, com’è noto, ha introdotto una clausola di salvaguardia della struttura e della finalità degli enti ecclesiastici. Da ciò deriverebbe una netta prevalenza del profilo soggettivo (natura confessionale degli enti) rispetto al profilo oggettivo e funzionale (svolgimento delle attività diverse). L’assoggettamento dell’ente ecclesiastico alle procedure concorsuali potrebbe infatti determinare un’alterazione irreversibile della struttura e della finalità dell’ente ([18]).
Il legislatore pattizio ha consentito lo svolgimento da parte degli enti ecclesiastici delle c.d. attività diverse, con conseguente loro sottoposizione alle leggi dello Stato, a condizione, però, che tale profilo non sia in contrasto con le finalità e la struttura dell’ente, risolvendo l’eventuale contrasto tra il profilo oggettivo e il profilo soggettivo a favore di quest’ultimo ([19]). Tale orientamento giunge alla conclusione secondo la quale l’ente ecclesiastico può svolgere attività imprenditoriali e, in relazione a queste, essere qualificato come imprenditore ai sensi dell’art. 2082 c.c.. La qualifica d’imprenditore dell’ente ecclesiastico, inoltre, può comportare l’applicazione della disciplina civilistica prevista per l’impresa, ma, limitatamente alle disposizioni che non siano in contrasto con la struttura e la finalità dell’ente e fra queste, come specificato, non rientra la disciplina delle procedure concorsuali ([20]). L’ente ecclesiastico imprenditore sarebbe dunque sottratto all’applicazione delle procedure concorsuali, essendo queste ultime in grado di alterarne il profilo soggettivo ([21]). Il principio di non ingerenza dei poteri dello Stato nella gestione del patrimonio e nell’organizzazione dell’ente ecclesiastico prevarrebbe rispetto all’esigenza della tutela della par conditio creditorum ([22]).
Secondo alcuni autori, tuttavia, ciò non comporterebbe un’assoluta impossibilità di applicare la disciplina delle procedure concorsuali agli enti ecclesiastici, potendosi ammettere delle ipotesi in cui sarebbe legittimo un intervento degli organi giudiziari delle procedure. Nel caso in cui le attività commerciali dell’ente ecclesiastico infatti non siano strumentali e/o collegate alle finalità di religione e di culto e possano essere considerate un autonomo centro d’imputazione (avente un proprio patrimonio e un’organizzazione distinta), pur non essendo dotate di personalità giuridica, possono essere assoggettate alla procedura concorsuale come enti di fatto. In tal senso non si avrebbe alcuna possibilità d’ingerenza dei poteri statali nelle attività di religione e di culto ([23]). A contrario, quando le attività commerciali sono in rapporto di strumentalità con le finalità di religione e di culto, la natura e le finalità proprie degli enti ecclesiastici osterebbero all’intervento dell’autorità giudiziaria. Gli organi fallimentari, in tal caso, dovrebbero valutare tutta l’attività patrimoniale dell’ente, interferendo anche nella gestione di attività tipicamente confessionali, con effetti irreversibili per la struttura e l’organizzazione, non potendo in nessun modo distinguere nettamente l’attività commerciale e religiosa ([24]). Le procedure concorsuali sarebbero dunque applicabili agli enti ecclesiastici nel solo caso in cui “l’attività commerciale esercitata dall’ente ecclesiastico sia riferibile ad un autonomo centro d’imputazione che, pur non acquisendo la personalità giuridica, operi di fatto come imprenditore” ([25]).
Tali orientamenti dottrinali escludono o limitano l’applicabilità della disciplina delle procedure concorsuali in ragione della tutela costituzionale prevista a favore degli enti ecclesiastici per la loro natura confessionale, ossia per le finalità di religione o di culto perseguite. Le ipotesi di esclusioni, se da un lato tutelano il carattere confessionale degli enti ecclesiastici, dall’altro, ledono profondamente le esigenze pubblicistiche di buon funzionamento del mercato e il benessere della collettività ([26]).
Alcuni Autori hanno evidenziato che “la dichiarazione di fallimento non incide sulla struttura e sull’esistenza dell’ente, non ne comporta l’estinzione, in quanto impedisce il solo perseguimento dell’attività economica” ([27]). L’ente ecclesiastico, pur essendo sottoposto alla liquidazione giudiziale (già fallimento), non perderebbe la propria identità confessionale e l’autonomia organizzativa che subirebbero solo una lieve compressione, limitatamente al periodo di operatività degli organi giudiziari ([28]). In tal senso è orientata anche la giurisprudenza di merito, nella sentenza n. 423 del 19 maggio 2013, il tribunale di Roma ha precisato che “l’accertamento dello stato di insolvenza dell’ente e il suo assoggettamento alle procedure concorsuali non incidono sulla struttura e sull’esistenza dell’ente, ma refluiscono solo sul segmento propriamente economico – imprenditoriale dell’attività dall’ente stesso esercitata; senza quindi comprimere la sua identità giuridica e in alcun modo impedirgli lo svolgimento delle attività di natura confessionale”.
Qualora, dunque, l’ente ecclesiastico eserciti un’attività d’impresa può essere qualificato come imprenditore e dunque essere assoggettato alle procedure concorsuali, a condizione che, ovviamente, sussistano i requisiti richiesti dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza ([29]).
La giurisprudenza, in alcune recenti sentenze di merito, ha ammesso l’assoggettabilità dell’ente ecclesiastico alle procedure concorsuali. La sentenza del 3 dicembre 2009 del Tribunale di Paola, dopo aver ripercorso le tappe della giurisprudenza di legittimità nell’attribuzione della qualità di imprenditore all’ente ecclesiastico (se pur in ambito lavorativo e fiscale), effettua un ulteriore passaggio logico e chiarisce che “ove l’ente ecclesiastico si faccia imprenditore dovrà, dunque, applicarsi la relativa disciplina ivi compresa quella fallimentare”, non essendo stata prevista dal legislatore alcuna eccezione per tali enti.
La sentenza del tribunale di Paola, tuttavia, si sviluppa in modo peculiare: non essendovi, in astratto, motivi ostativi per la fallibilità dell’ente ecclesiastico imprenditore, ciò che deve essere indagato, secondo i giudici, è l’effettiva sussistenza dei presupposti per lo svolgimento dell’attività d’impresa da parte dell’ente, non risolvendo, quindi, i possibili contrasti tra la disciplina delle procedure concorsuali e la natura confessionale della persona giuridica.
La sentenza del Tribunale di Roma, n. 432, del 29 maggio 2013, conformemente alla precedente pronuncia, condivide la tesi della assoggettabilità dell’ente ecclesiastico alle procedure concorsuali e, inoltre, risolve alcune problematiche derivanti dal contemperamento tra tale disciplina e il regime di favor degli enti ecclesiastici. Ammettendo alla procedura di amministrazione straordinaria un ente ecclesiastico, la sentenza fornisce importanti linee guida relative alla liquidazione del patrimonio dell’ente. Pur essendo sottoposto alla procedura concorsuale l’ente ecclesiastico e non la sola attività d’impresa, la procedura liquidatoria dovrà riguardare solo quelle parti del patrimonio dell’ente specificamente destinate a tale attività (d’impresa), ovvero non riferibili, neppure indirettamente a quelle religiose, di culto, assistenziali, costituenti finalità primaria dell’ente ecclesiastico ([30]).
3. L’ente ecclesiastico imprenditore e il Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza
L’ente ecclesiastico imprenditore, ove sussistano i requisiti previsti dalla disciplina codicistica e dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, sarà assoggettato alle procedure concorsuali. Tali procedure hanno, quale scopo prioritario, evitare che un’attività d’impresa possa essere dannosa per la collettività e compromettere la certezza e la stabilità dei traffici commerciali. I principi di par condicio creditorum (art. 2741, comma 1 c.c.) e di universalità della responsabilità patrimoniale (art. 2740, comma 1, c.c.), su cui si fondano le procedure concorsuali, impediscono al debitore di articolare autonomamente il proprio patrimonio e, dunque, dividere in classi diverse i creditori. Tali principi costituiscono punti fermi dell’ordinamento giuridico, i quali possono essere derogati solo a seguito di un eccezionale trattamento precostituito di alcune posizioni creditorie.
Precludere l’applicabilità delle procedure concorsuali, lederebbe l’attività imprenditoriale degli enti ecclesiastici, ponendo, questi ultimi, in una posizione di svantaggio nel mercato dei beni e servizi rispetto agli altri operatori economici. I rapporti giuridici ed economici connessi all’attività imprenditoriale dell’ente sarebbero indubbiamente compromessi. Ne deriva una lesione del principio di libera iniziativa economica dell’ente stesso, costituzionalmente tutelato ex art. 41, comma 1 della Carta costituzionale ([31]).
L’esclusione, indubbiamente, pregiudicherebbe l’ente ecclesiastico nell’esercizio dell’attività imprenditoriale, ma anche, indirettamente, nel perseguimento delle finalità di religione e di culto. Lo svolgimento di attività commerciali, infatti, non può essere un generico reperimento di mezzi economici, ma deve essere riconducibile al finanziamento dell’attività di religione o di culto ([32]). Minore sarà il lucro oggettivo ottenuto, minori saranno le risorse economiche che l’ente potrà destinare al finanziamento delle attività di religione e di culto.
Tali considerazioni non implicano il totale sacrificio della speciale struttura e finalità degli enti ecclesiastici a favore della tutela delle pretese creditorie. Così come non è possibile escludere totalmente l’assoggettabilità dell’ente ecclesiastico alle procedure concorsuali. Occorre, infatti, realizzare, ove possibile, una delicata operazione di bilanciamento tra principi, entrambi meritevoli di protezione da parte dell’ordinamento.
Il nuovo Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14) ([33]), d’ora in poi C.C.I., sembrerebbe ridurre i potenziali elementi di incompatibilità tra il profilo soggettivo degli enti ecclesiastici e la normativa concorsuale. La nuova disciplina, infatti, riduce sensibilmente gli spazi della liquidazione concorsuale e l’ingerenza delle autorità, prevedendo l’introduzione delle procedure che tendono a salvaguardare la continuità dell’impresa ed evitano la dispersione di valore del patrimonio. Le procedure di allerta (artt. 12 e ss. del C.C.I.) e di composizione assistita della crisi (artt. 19 e ss. C.C.I.) hanno infatti lo scopo di anticipare l’emersione delle crisi d’impresa evitando la progressiva dispersione del patrimonio aziendale in modo da soddisfare al meglio anche i creditori e garantire la prosecuzione dell’attività d’impresa. I destinatari di tali procedure, ai sensi dell’art. 12, comma 5, i debitori che svolgono attività imprenditoriale, escluse le grandi imprese, i gruppi di imprese di rilevante dimensione, le società con azioni quotate in mercati regolamentati, o diffuse fra il pubblico in misura rilevante. Il presupposto oggettivo è «lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le impresi manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate» (art. 2 del C.I.I.).
I procedimenti di allerta e di composizione assistita della crisi hanno natura non giudiziale e confidenziale. Il debitore, all’esito dell’allerta o anche prima della sua attivazione, può accedere al procedimento di composizione assistita della crisi, che si svolge in modo riservato e confidenziale dinanzi ad un organismo di composizione della crisi di impresa (OCRI) istituito presso ciascuna Camera di Commercio.
Le misure di allerta devono essere adottare dalle imprese con l’aiuto degli organi di controllo, in maniera autonoma, e prima di ricorrere ad una qualsiasi delle procedure concorsuali previste, e soprattutto, senza coinvolgere i creditori. Nel caso in cui la soluzione della crisi non appaia attuabile con misure di ristrutturazione interna, è possibile ricorrere all’istituto della composizione assistita della crisi. L’organismo di composizione della crisi, mediante una trattativa con i creditori, nel termine di tre mesi, prorogabili per ulteriori tre, dovrà individuare una soluzione concordata stragiudiziale.
L’attivazione della procedura di allerta da parte degli organi preposti o la presentazione della istanza di composizione assistita della crisi da parte del debitore non comportano alcuna alterazione amministrativa o patrimoniale dell’impresa che vi è sottoposta. La conclusione dell’accordo con i creditori nell’ambito della composizione assistita incide, indubbiamente, sul patrimonio dell’imprenditore, ma non ha alcuna finalità di liquidazione dello stesso. In caso di mancata conclusione dell’accordo e di permanenza di una situazione di crisi, il collegio invita il debitore a presentare domanda di accesso ad una delle procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza nel termine di trenta giorni.
Tali procedimenti non sembrerebbero avere profili di incompatibilità con la speciale struttura o le finalità istituzionali dell’ente ecclesiastico che esercita attività d’impresa. Alcuni interessanti elementi di riflessione sorgono in relazione all’individuazione di organi di controllo demandati all’avvio delle procedure di allerta nell’ambito della peculiare struttura organizzativa degli enti ecclesiastici. L’art. 12, comma 7 del C.C.I., dispone, che «gli strumenti di allerta si applicano anche alle imprese agricole e alle imprese minori, compatibilmente con la loro struttura organizzativa». Ne deriva, dunque, ove la forma giuridica adottata per l’esercizio dell’attività d’impresa non preveda l’organo di controllo interno, non sarà necessaria la sua nomina, ben potendo l’imprenditore in ogni caso accedere alla procedura di composizione della crisi. L’ente ecclesiastico che esercita attività d’impresa non è obbligato, dunque, ad istituire un organo di controllo interno.
La previsione degli strumenti di allerta deve essere distinta dagli obblighi organizzativi previsti per l’imprenditore individuale o collettivo di cui all’art. 3 del C.C.I.. L’imprenditore deve, dunque, adottare strumenti organizzativi idonei alla tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell’assunzione di idonee iniziative. Tale obbligo investe anche l’ente ecclesiastico che nell’esercizio della sua attività imprenditoriale dovrà prevedere misure interne adeguate volte a garantire il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale ed evitare l’assoggettamento ad una procedura concorsuale invasiva. L’eventuale esclusione dell’applicazione della norma agli enti ecclesiastici precluderebbe l’accesso ad un importante strumento di prevenzione delle crisi d’impresa, profilando così un contrasto con gli artt. 7, 8 e 20 della Costituzione.
Un ente ecclesiastico imprenditore, in persona del suo legale rappresentante, potrebbe altresì presentare istanza di accesso alla procedura di composizione della crisi e concludere un accordo con i creditori. Ciò dovrà avvenire nel rispetto delle regole di funzionamento dell’ente e, pertanto, dovranno essere rilasciate le autorizzazioni ove previste dallo statuto o dall’ordinamento confessionale di appartenenza ([34]).
In caso di mancato stipula dell’accordo con i creditori e di permanenza della situazione di crisi dell’impresa, non v’è dubbio che sarà necessario procedere con una delle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza. I punti di maggiore criticità della normativa concorsuale sono la congestione o alterazione del potere amministrativo e gestionale dell’ente ecclesiastico e la liquidazione del suo patrimonio. Alcune delle procedure possono infatti determinare un’ingerenza nella struttura e negli organi di governo dell’ente, ovvero, concludersi con una liquidazione patrimoniale che potrebbe alterare il perseguimento delle finalità religiose.
La disciplina del concordato preventivo (artt. 84 e ss.) non presenta profili di incompatibilità con la struttura e le funzioni dell’ente ecclesiastico ([35]), in quanto gli organi amministrativi dell’impresa assoggettata alla procedura permangono nelle loro funzioni, pur essendo sottoposti alla vigilanza del commissario giudiziale. Tale strumento può avere lo scopo di favorire la continuazione dell’attività d’impresa e di salvaguardia del complesso aziendale ([36]).
Gli enti ecclesiastici non possono essere sottoposti alla liquidazione coatta amministrativa, in ragione sia dalle peculiari caratteristiche di tale procedura concorsuale sia dall’assenza di una espressa previsione legislativa in tal senso ([37]). La liquidazione coatta amministrativa, oltre ad avere finalità esecutiva e di definizione dei rapporti d’impresa, ha anche una finalità estintiva degli enti che vi sono sottoposti. Tale ultima finalità sarebbe in contrasto con la disciplina pattizia degli enti ecclesiastici, la quale prevede che solo l’autorità ecclesiastica può disporre l’estinzione dell’ente ([38]).
Le perplessità permangono in relazione alla liquidazione giudiziale (già fallimento) e l’amministrazione straordinaria. Tali procedure, infatti, determinano un’interferenza giudiziaria nell’ambito dell’autonomia amministrativa e patrimoniale dell’ente ecclesiastico ([39]). Le procedure di allerta e di composizione assistita della crisi proteggono l’ente ecclesiastico, consentendogli di salvaguardare l’impresa ed evitare l’assoggettamento a procedimenti giudiziari invasivi della propria sfera patrimoniale. Per tali ragioni è opportuno che l’ente ecclesiastico adotti quelle misure organizzative richieste dall’art. 3 del C.C.I., al fine di poter disporre di un efficace strumento di preallerta della crisi d’azienda.
Sul punto:”Le norme di immediata applicazione del nuovo Codice della Crisi e dell’Insolvenza”
4. La liquidazione giudiziale dell’ente ecclesiastico imprenditore: un problema irrisolto
Alla luce delle novità introdotte dal Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza, è possibile dunque che l’ente ecclesiastico non sia assoggettato ad alcuna procedura concorsuale, ove i procedimenti stragiudiziali vadano a buon fine. D’altra parte, è opportuno rilevare che, ove ciò non accada, l’ente ecclesiastico imprenditore potrebbe comunque essere assoggettato alla liquidazione giudiziale o all’amministrazione straordinaria.
I difetti di coordinamento tra la struttura e le finalità istituzionali degli enti ecclesiastici e la normativa di alcune procedure concorsuali sono difficilmente risolvibili. Né si può propendere per una “immunità” dell’ente ecclesiastico imprenditore alla liquidazione giudiziale. Ove infatti il legislatore avesse voluto escludere gli enti ecclesiastici da tali procedure, avrebbe espressamente previsto in tal senso. Quando la disciplina di una procedura concorsuale è in contrasto con la natura confessionale dell’ente ecclesiastico, come nel caso della liquidazione coatta amministrativa, il legislatore ne ha espressamente escluso l’applicabilità. L’art. 14, comma 6 del D.Lgs. n. 112/2017 espressamente esclude l’ente ecclesiastico che assume la qualifica di impresa sociale dalla assoggettabilità alla liquidazione coatta amministrativa. Tali considerazioni non precludono che sia possibile individuare strumenti giuridici idonei a salvaguardare i diversi interessi sottesi.
La fase della liquidazione del patrimonio dell’ente ecclesiastico rappresenta, indubbiamente, uno dei momenti critici delle procedure concorsuali. Tale operazione sarebbe facilitata nel caso in cui fosse possibile creare masse patrimoniali separate per l’esercizio delle c.d. attività diverse. In tal senso, si sono orientati i recenti interventi legislativi in materia di Terzo settore (D.Lgs. n. 117/2017) e di impresa sociale (D. Lgs. n. 112/2017) ([40]). In entrambi i casi, è richiesto all’ente religioso civilmente riconosciuto che voglia assumere la qualifica di «ente del terzo settore» o di «impresa sociale» la costituzione di un patrimonio separato per l’esercizio delle attività in oggetto. Ciò è possibile attraverso l’adozione di un regolamento nel quale siano espressamente indicati i beni che costituiscono il patrimonio segregato. La scomposizione del patrimonio favorisce l’ente ecclesiastico nell’esercizio delle attività diverse. La previsione di più nuclei patrimoniali consente, infatti, di limitare la responsabilità per le obbligazioni assunte in relazione alle diverse attività svolte. I beni interessati permangono nel patrimonio dell’ente ecclesiastico ma sono destinati esclusivamente ad una determinata attività.
Gli artt. 2740 e 2741 c.c., come in supra precisato, impediscono, in assenza di espressa previsione di legge, l’articolazione da parte del debitore del proprio patrimonio in masse plurime. Nel silenzio del dettato legislativo, deve ritenersi che un ente ecclesiastico non possa costituire un patrimonio destinato all’esercizio dell’attività imprenditoriale ([41]). Sarebbe stata opportuna una previsione in tal senso proprio nel nuovo Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza, il quale sembrerebbe aver proceduto ad un’efficiente riorganizzazione della disciplina delle procedure concorsuali. È possibile sin d’ora affermare che questa sarebbe stata la soluzione preferibile, la quale avrebbe risolto il problema della assoggettabilità degli enti ecclesiastici alla liquidazione giudiziale.
Analoghi effetti, seppur con alcuni aggravi procedurali, gestionali ed economici, è possibile ottenerli attraverso la costituzione di una società lucrativa. L’ente ecclesiastico potrebbe infatti costituire una società a responsabilità limitata o una società per azioni ([42]) unipersonale e conferire nel patrimonio sociale le risorse che ritiene necessarie per l’esercizio dell’attività commerciale. La separazione soggettiva e la segregazione patrimoniale tutelerebbe l’ente ecclesiastico in caso di assoggettamento della società alle procedure concorsuali ([43]). L’organizzazione e le finalità istituzionali dell’ente non subirebbero alcuna forma di compressione o alterazione, essendo assoggettato alla procedura un soggetto giuridico autonomo. Tale misura è efficace tuttavia nel solo caso in cui venga adottata in via preventiva, ancora prima che l’ente ecclesiastico eserciti l’attività d’impresa. In caso contrario, l’ente ecclesiastico sarà comunque esposto alle procedure concorsuali per le obbligazioni assunte in precedenza.
Nel caso in cui l’ente ecclesiastico manifesti sia già assoggettato alla liquidazione giudiziale, un criterio utile per la determinazione dei beni da liquidare potrebbe essere suggerito dal diritto canonico. Il «patrimonio stabile» è un istituto canonico con il quale s’identifica il complesso di beni necessario per garantire l’esistenza e il corretto perseguimento finalità istituzionali dell’ente religioso. In tale ambito è intervenuta di recente la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica attraverso la pubblicazione nel 2018 degli orientamenti riguardanti i controlli canonici. Il documento fornisce una definizione universale di patrimonio stabile, prevedendo altresì una precisa disciplina per la sua amministrazione. «Il patrimonio stabile è costituito da tutti i beni immobili e mobili che per legittima assegnazione sono destinati a garantire la sussistenza e le finalità dell’Istituto» ([44]).
Una volta individuati i beni che fanno parte del «patrimonio stabile», è possibile assoggettare alla liquidazione giudiziale i soli cespiti patrimoniali destinati all’esercizio dell’attività d’impresa ([45]). Il concetto di «patrimonio stabile» se, da un lato, facilita le operazioni liquidatorie e riduce il rischio di compressione delle finalità religiose dell’ente, dall’altro impedisce la conoscibilità da parte di terzi della composizione patrimoniale, non essendo alcune attribuzioni al patrimonio stabile supportate da un adeguato sistema di pubblicità[46]. È, infatti, necessario tutelare il legittimo affidamento dei creditori sulla garanzia patrimoniale per le obbligazioni contratte con il debitore, al fine di garantire la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici e commerciali.
Note
([1]) «Le attività tradizionali che caratterizzano l’ente ecclesiastico coinvolgono una pluralità di interessi collettivi e libertà fondamentali, determinando significativi riflessi sociali oltre che confessionali», in tal senso A. Fuccillo, Diritto, religioni, culture, Torino, Giappichelli, 2018, p. 148 ss.
([2]) Sul reperimento degli strumenti finanziari da parte delle religioni e, in particolare, da parte degli enti ecclesiastici, si veda F. Franceschi, Enti ecclesiastici, strumenti di finanziamento e sistema economico moderno, in Le proiezioni civili delle religioni tra libertà e bilateralità. Modelli di disciplina giuridica, a cura di A. Fuccillo, Napoli, Editoriale Scientifica, 2017, pp. 407-424.
([3]) Sin dal Concordato Lateranense del 1929, si era ammessa la possibilità che gli enti ecclesiastici (cattolici) svolgessero attività diverse da quelle aventi carattere religioso, le quali erano sottoposte, completamente, alle leggi dello Stato.
([4]) Alcuni autori (L. Musselli, V. Tozzi, Manuale di diritto ecclesiastico, Bologna, Zannichelli, 2000, p. 223) le c.d. attività diverse in due sottocategorie: le attività diverse che sono svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali (le attività miste), le quali hanno una doppia qualificazione sia canonica (poiché hanno una motivazione religiosa) che civile (poiché sono realizzabili da qualsiasi soggetto giuridico) e le attività diverse che hanno come unico obiettivo l’autofinanziamento e sono completamente estranee alla natura dell’ente. Altri autori (P. Picozza, Gli enti ecclesiastici: dinamiche concordatarie tra innovazioni normative e disarmonie del sistema, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2004, 1, p. 174.), invece, non ammettono la possibilità che l’ente ecclesiastico svolga attività commerciali che si limitino “al generico procacciamento dei mezzi economici” senza aver alcuna attinenza al fine di religione o di culto; le attività diverse devono essere direttamente connesse alle attività istituzionali.
([5]) Tale principio cardine è previsto, per gli enti ecclesiastici appartenenti alla religione cattolica, all’art. 7, n. 5, dell’Accordo tra Italia e Santa Sede del 1984 ma può considerarsi comune anche ad altre confessioni religiose con intesa, se pur in formulazioni differenti.
([6]) Commissione Paritetica, Relazione sui Principi (Roma, 6 luglio 1984), in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1984, 1, p. 317.
([7]) P. Floris, L’ecclesiasticità degli enti, Torino, Giappichelli, 1997, p. 204.
([8]) P. Picozza, Note a margine di un caso di ecclesiasticizzazione di società commerciali, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1991 – 1992, 1, p. 559.
([9]) F. Fiore, Fallimento degli enti ecclesiastici e svolgimento di attività imprenditoriali, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2010, 3, p. 966; G. Dalla Torre, Lezioni di diritto ecclesiastico, Torino, Giappichelli, 2002; P. Floris, L’ecclesiasticità degli enti, cit., p. 205.
([10]) In tal senso, il Consiglio di Stato, nella sentenza del 20 ottobre 1993 n. 1265, ha sottolineato la necessità che l’ente ecclesiastico tenga, per ciascuna attività, una contabilità di bilancio regolare.
([11]) In tal senso, si è orientato anche il legislatore nazionale, il quale, regolando l’attività ospedaliera, ha previsto norme specifiche a tutela della natura confessionale degli enti ecclesiastici. L’art. 41 della l. n. 194/1978 prevedeva l’esenzione per gli enti ecclesiastici ospedalieri dalla programmazione ministeriale, potendo, dunque, questi, mantenere il proprio regime giuridico-amministrativo. La l. n. 194/1978 ha escluso, inoltre, gli enti ecclesiastici ospedalieri dall’obbligo, previsto per altre strutture, di assicurare il servizio di interruzione di gravidanza. Si veda sul punto, P. Moneta, Stato Sociale e fenomeno religioso, Milano, Giuffrè, 1984; F. Janes Carratù, Gli enti ecclesiastici ospedalieri e «servizi abortivi», in Il Diritto Ecclesiastico, 1984, 1, p. 67.
([12]) Le attività c.d. diverse non dovrebbero essere in contrasto con la struttura e la finalità dell’ente ecclesiastico, in tal senso, C. Cardia, Principi di diritto ecclesiastico, Torino, Giappichelli, 2005, p. 289. La tesi è accolta anche dalla giurisprudenza amministrativa, la quale, nella sentenza Cons. Stato, Sez. I, parere 6 giugno 1990, n. 758, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1991/1992, 1, p. 534-535, sottolinea che “le attività diverse da quelle di religione o di culto sono consentite purché compatibili con la struttura e le finalità” degli enti ecclesiastici.
([13]) L’ attività diverse, non possono mai elevarsi al rango di finalità istituzionali, ne possono assorbire completamente le attività di religione o di culto. In tal senso C. Cardia, Stato e confessioni religiose, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 230 e 251-252; P. Floris, L’ecclesiasticità degli enti, cit., p. 205.
Nel caso in cui le attività diverse prevalgano rispetto alle finalità di religione o di culto dell’ente ecclesiastico, verrebbe meno la giustificazione del riconoscimento civile, il quale richiede che vi sia un nesso reale tra l’ecclesiasticità formale e la natura teleologica sostanziale. La prevalenza delle attività diverse, in particolare delle attività commerciali, rispetto alle attività istituzionali può essere motivo di legittimo impedimento per il riconoscimento civile dell’ente ecclesiastico (ai sensi dell’art. 4 della l. n. 222/1985); qualora, invece, il limite di “non prevalenza” delle attività extra-religiose sia superato in seguito alla genesi dell’ente ecclesiastico nell’ordinamento italiano, l’autorità governativa adotterà il provvedimento di revoca del riconoscimento civile.
([14]) P. Cavana, Gli enti ecclesiastici nel sistema pattizio, II Edizione, Torino, Giappichelli, 2011, p. 192.
([15]) G. Dalla Torre, Lezioni di diritto ecclesiastico, cit., p. 214; F. Fiore, Fallimento degli enti ecclesiastici e svolgimento di attività imprenditoriali, cit., p. 968; P. Floris, L’ecclesiasticità degli enti, cit., p. 205; P. Picozza, Gli enti ecclesiastici: dinamiche concordatarie tra innovazioni normative e disarmonie del sistema, cit., pp. 174-175.
([16]) In tal senso, A. Fuccillo, Diritto, religioni, culture, cit., p. 149, il quale evidenzia che «Si parla infatti di ente ecclesiastico imprenditore, quando, in virtù del noto principio dell’effettività, esso svolge attività di impresa sotto tali spoglie, anche se a tali enti compete il c.d. no distribution constraint, ovvero il divieto di distribuzione degli utili di esercizio».
Anche la giurisprudenza è orientata in tale direzione. La Corte di Cassazione, nella sentenza del 3 novembre 2003, n. 16435, ha attribuito alla Comunità Ebraica di Venezia, la qualifica d’imprenditore, in relazione allo svolgimento dell’attività di cura. In particolare, la Corte ha precisato le modalità con le quali debba essere svolta tale attività: “Quando poi un soggetto non imprenditore, come la comunità ebraica controricorrente, svolga un’attività suscettibile di essere qualificata come imprenditoriale, a tale ultimo fine occorre verificare non tanto se l’attività economica sia prevalente od esclusiva nell’ambito dell’attività generale del soggetto, quanto se essa si ponga con caratteri di autonomia nell’ordinamento giuridico (argomento ex Cass. 5766/1994 cit., relativa al carattere imprenditoriale dell’Ospedale del Bambino Gesù di Roma, appartenente al patrimonio ben più ampio della Santa Sede)”. Per il medesimo orientamento giurisprudenziale, cfr. Cass., 19 dicembre 1990, n. 12039.
([17]) Sul punto si segnalano i recenti interventi di C. Trentini, Il fallimento di ente ecclesiastico che esercita attività d’impresa, in Il fallimento, 2010, pp. 982-986; G. Rivetti, Enti ecclesiastici e procedure concorsuali: profili interodinamentali, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista Telematica (www.statoechiese.it), n. 34/2014; G. Terranova, Enti ecclesiastici e procedure concorsuali, in Rivista di diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 2014, pp. 261-311; C.E. Varalda, Enti ecclesiastici cattolici e procedure concorsuali. La rilevanza del “patrimonio stabile” nella gestione della crisi, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista Telematica (www.statoechiese.it), n. 28/2015; A.M. Leozappa, Enti ecclesiastici e procedure concorsuali, in Stato, chiese e pluralismo confessionale, Rivista Telematica (www.statoechiese.it), n. 4/2015; A. Perrone, Enti ecclesiastici e procedure concorsuali, in Giurisprudenza commerciale, 2018, 2, p. 242 ss.
([18]) Sul punto si veda G. Dalla Torre, Lezioni di diritto ecclesiastico, cit., p. 194 ss., il quale ritiene che l’alterazione del profilo strutturale e finalistico degli enti ecclesiastici si avrebbe sia perché vi è «il passaggio dell’amministrazione delle ente dai suoi organi ordinari a quelli della procedura fallimentari, nominati dall’autorità giudiziaria», sia, in generale, «perché la dichiarazione di fallimento, finalizzando l’amministrazione dell’ente alla par conditio creditorum e aprendo la strada alla liquidazione del suo intero patrimonio, travolgerebbe anche gli interessi religiosi, costituzionalmente tutelati (art. 19 Cost.)». In tal senso si veda anche R. Benigni, L’ente ecclesiastico tra specialità e diritto comune. Affrancamento della disciplina giuridica dell’ente dal suo connotato teologico-soggettivo: conseguenze pratiche e profili di legittimità, in Il diritto ecclesiastico, 1998, 1, p. 626; A.M. Nicolò Punzi, G. Neri, D. Di Giorgio, Gli enti ecclesiastici, in Trattato delle procedure concorsuali, a cura di L. Ghia, F. Severini, C. Piccininni, Torino, Utet, 2010, p. 350 ss.
([19]) L’art. 7, n. 3 della L.n. 121/1985 esprime «un principio generale di prevalenza dei profili soggettivi su quelli oggettivi o funzionali nella disciplina pattizia degli enti, sottraendo quest’ultimi all’applicazione di norme dettate dal legislatore unilaterale statale in relazione a determinate attività e destinate potenzialmente ad alternarne la struttura e le finalità istituzionali», in tal senso P. Cavana, Gli enti ecclesiastici nel sistema pattizio, cit., p. 190.
[20]) In tal senso, P. Cavana, Gli enti ecclesiastici nel sistema pattizio, cit., p. 193. In molteplici sentenze, infatti, la Corte di Cassazione ha attribuito la qualifica d’imprenditore ad enti ecclesiastici quale presupposto giuridico necessario per assicurare un’adeguata tutela ai lavoratori assunti (cfr. Cass., 11 aprile 1994, n. 3353; Cass., 14 giugno 1994, n. 5766; Cass., 12 ottobre 1995, 10636; Cass., 19 agosto 2011, n. 17399), o per consentire all’istituto religioso di usufruire o meno di determinati sgravi fiscali (cfr. Cass., 5 gennaio 2001, n. 97; Cass., 19 giugno 2008, n. 16612).
([21]) Per gli enti ecclesiastici, che siano persone giuridiche canoniche di diritto pubblico, in ragione dell’applicabilità del Libro V del Codex Iuris Canonici, non sarebbe necessaria l’applicazione della disciplina delle procedure concorsuali, essendo scongiurato a priori il rischio d’insolvenza dell’ente. Infatti, poiché i canoni 1276 e 1279 prevedono una forma di vigilanza sull’amministrazione dei beni dell’ente e la possibilità d’intervento in caso di negligenza degli amministratori. Le autorità canoniche interverrebbero ancora prima che si manifestino criticità della situazione economica tali da ritenere necessaria la sottoposizione alle procedure concorsuali. Sul punto si veda D. Fondaroli, A. Astrologo, G. Silvestri, Responsabilità “amministrativa” ex d. lgs. n. 231 del 2001 ed enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 38/2012, p. 13.
([22]) In tal senso si veda S. Berlingò, Enti e beni religiosi in Italia, Bologna, Il Mulino, 1992; G. Perugini, Il patrimonio attivo nel fallimento, Milano, Giuffrè, 2008.
([23]) «Ove quindi l’attività commerciale, autonomamente gestita, non si collegi in modo diretto con l’organizzazione e con le finalità istituzionali (primarie) […] le ragioni di solito addotte come ostative alla dichiarazione di fallimento dovrebbero considerarsi fuori causa; e l’insolvenza potrebbe essere dichiarata anche qualora mancasse la registrazione dell’impresa, esigita nel caso che l’attività commerciale (secondaria) fosse contemplata dallo stesso atto costitutivo», in tal senso S. Berlingò, Enti e beni religiosi in Italia, cit., p. 181-182. La fattispecie in esame si potrebbe verificare allorquando i proventi della attività commerciale siano reinvestiti nella medesima attività formando un autonomo patrimonio (non essendo ontologicamente possibile la distribuzione degli utili tra gli associati) e non, quindi, quando il profitto sia utilizzato per il finanziamento delle attività di religione o di culto, realizzandosi un rapporto di strumentalità.
([24]) Per compiere legittimamente tale giudizio, le autorità italiane dovrebbero acclarare la prevalenza delle attività commerciali rispetto alle attività istituzionali, cosicché l’ente perderebbe la propria qualifica confessionale, assumendo, tout court, la qualifica d’imprenditore. La perdita del carattere confessionale, tuttavia, dovrebbe essere accertato non dall’autorità giudiziaria ma dalla pubblica amministrazione mediante un provvedimento di revoca. Sul punto si veda S. Berlingò, Enti e beni religiosi in Italia, cit., p. 183.
([25]) M. Parisi, Enti religiosi nella trasformazione dello Stato sociale, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2004, p. 192-193.
([26]) F. Fiore, Fallimento degli enti ecclesiastici e svolgimento di attività imprenditoriali, cit., p. 982; L. Musselli, V. Tozzi, Manuale di diritto ecclesiastico, Bologna, Zannichelli, 2000, p. 223.
([27]) A. Vitale, Corso di diritto ecclesiastico, Milano, Giuffrè, 2005, p. 422-423.
([28]) A. Fuccillo, Diritto, religioni, culture, cit., p. 152; A. Fuccillo, Enti ecclesiastici e impresa commerciale: finalmente un binomio compatibile!, in Il Diritto Ecclesiastico, 1995, 2, p. 470 ss.; A. Fuccillo, La pubblicità e la rappresentanza dell’ente ecclesiastico imprenditore commerciale, in Il Diritto Ecclesiastico, 1996, 1, p. 836 ss.; A. Fuccillo, Le nuove frontiere dell’ecclesiasticità degli enti. Struttura e funzione delle associazioni ecclesiastiche, Napoli, Jovene, 1999, p. 106. Concorde sul punto è anche M. Tedeschi, Manuale di diritto ecclesiastico, Torino, Giappichelli, 2010, p. 253, il quale ritiene che «in quanto imprenditore, l’ente [ecclesiastico] sarà sottoposto al regime di diritto comune riguardante la rappresentanza, il fallimento, il lavoro».
([29]) Una parte della dottrina commerciale tende ad escludere la fallibilità degli enti ecclesiastici ritenendo che rientrino nel novero d’imprese per le quali, il legislatore, ha escluso l’applicabilità dello Statuto dell’imprenditore commerciale. In particolare, gli enti ecclesiastici sono assimilati, da tale dottrina, alle imprese pubbliche, le quali sono esonerate dall’iscrizione al registro delle imprese ai sensi dell’art. 2201 c.c., e, dunque, anche dalle procedure concorsuali, qualora svolgano l’attività commerciale in modo strumentale ed accessorio.
([30]) “Alla luce delle considerazioni fin qui espose i beni appartenenti alla Provincia Italiana che, per loro natura e destinazione, sono funzionali al compimento delle attività non imprenditoriali dell’ente (ovvero finalità di culto, di assistenza, di carità) non potranno costituire oggetto di liquidazione concorsuale in funzione del pagamento dei debiti dell’ente ecclesiastico nella sua funzione d’imprenditore, non facendo essi parte del patrimonio dell’imprenditore posto a garanzia generale delle obbligazioni da esso assunte (art. 2740 c.c.). Corollario di tale impostazione è che tutti gli altri beni, che per loro natura e destinazione non sono funzionali al compimento delle anzidette attività non imprenditoriali dell’ente, rientrano nel patrimonio oggetto della procedura di liquidazione di massa e sono destinati a costituire l’attivo della procedura;”. Cfr. Trib. di Roma, sez. fall., 29 maggio 2012, n. 432, disponibile all’indirizzo www.ilcaso.it.
([31]) L. Decimo, Le organizzazioni religiose nel prisma costituzionale dell’art. 20, Napoli, Editoriale Scientifica, 2017, p. 87 ss.
([32]) L’ente ecclesiastico può svolgere attività diverse, in particolare attività commerciali o aventi scopo di lucro, purché queste siano accessorie e strumentali rispetto alle attività istituzionali. Sul punto si veda P. Picozza, Gli enti ecclesiastici: dinamiche concordatarie tra innovazioni normative e disarmonie del sistema, cit., p. 175.
([33]) Per approfondimenti sulla riforma, si veda F. Lamanna, Il nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Officina del Diritto – Il Civilista, Milano, Giuffrè, 2019.
([34]) Rileva, in particolare, per gli enti ecclesiastici cattolici, l’art. 18 della L.n. 222/1985, il quale prescrive l’annullabilità dei contratti posti in essere in assenza delle autorizzazioni canoniche prescritte dallo statuto o dal codice di diritto canoniche per il compimento di quel particolare atto. In tal caso sarebbe necessario verificare se tale la conclusione di un siffatto accordo possa essere qualificato come atto peggiorativo della situazione patrimoniale dell’ente. Il codice di diritto canonico include nella categoria delle alienationes sia le alienazioni di beni che siano legittima assegnazione del patrimonio stabile e che eccedano la somma fissata dalla delibera C.E.I. (can. 1291 c.j.c.), sia i negozi peggiorativi dello stato patrimoniale della persona giuridica (can. 1295 c.j.c.). In tale gruppo residuale, la dottrina e le fonti extra-codiciali fanno rientrare tutti gli atti potenzialmente lesivi della consistenza economica del patrimonio comune o che involgono la responsabilità patrimoniale dell’ente. Per un approfondimento riguardante la distinzione tra amministrazione e alienazione nel diritto canonico, si veda V. De Paolis, Il Codice Vaticano II – I beni temporali della Chiesa, Bologna, EDB, 1995, p. 141 e ss.
([35]) Concorde sul punto, A.M. Leozappa, Enti ecclesiastici e procedure concorsuali, cit., pp. 25-26.
([36]) Analoghe considerazioni possono aversi in relazione al concordato minore, artt. 74 e ss. del C.C.I., il quale si applica al professionista, all’imprenditore minore, all’imprenditore agricolo, alle start-up innovative e ad ogni altro debitore non assoggettabile alla liquidazione giudiziale ovvero a liquidazione coatta amministrativa o ad altre procedure liquidatorie previste dal codice civile o da leggi speciali per il caso di crisi o insolvenza (art. 2, n. 1, lett. c). Per impresa minore s’intende: «l’impresa che presenta congiuntamente i seguenti requisiti 1) un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di apertura della liquidazione giudiziale o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore; 2) ricavi, in qualunque modo essi risultino, per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di apertura della liquidazione giudiziale o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore; 3) un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila; i predetti valori possono essere aggiornati ogni tre anni con decreto del Ministro della giustizia adottato a norma dell’articolo 348» (art. 2, n. 1, lett. d).
([37]) L’art. 293 del C.C.I. espressamente prevede che «1. La liquidazione coatta amministrativa è il procedimento concorsuale amministrativo che si applica nei casi espressamente previsti dalla legge. 2. La legge determina le imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa, i casi per i quali la liquidazione coatta amministrativa può essere disposta e l’autorità competente a disporla».
([38]) Si veda sul punto Fiore, Fallimento degli enti ecclesiastici e svolgimento di attività imprenditoriali, cit., p. 980.
([39]) Diffusamente sul punto di veda A.M. Leozappa, Enti ecclesiastici e procedure concorsuali, cit., pp. 22-24, il quale propende per la non applicabilità di tali procedure agli enti ecclesiastici.
([40]) Con particolare riferimento agli enti religiosi e la recente riforma del Terzo Settore e dell’impresa sociale, A. Fuccillo, Gli enti religiosi nel «terzo settore» tra la nuova impresa sociale e le società di benefit, in Quaderni di Diritto e Politica Ecclesiastica, 2018, 2, p. 341 ss.; P. Floris, Enti religiosi e riforma del Terzo settore: verso nuove partizioni nella disciplina degli enti religiosi, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista Telematica (www.statoechiese.it), n. 3/2018; P. Consorti, L’impatto del nuovo Codice del Terzo settore sulla disciplina degli “enti religiosi”, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista Telematica (www.statoechiese.it), n. 4/2018; G. Dalla Torre, Enti ecclesiastici e Terzo settore. Annotazioni prospettiche, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista Telematica (www.statoechiese.it), n. 16/2018; E. Rossi, Codice terzo settore: una bella occasione, in parte sprecata, in Nuova Proposta, 2017, 9-10; A. Mantineo, Il Codice del terzo settore: punto di arrivo o di partenza per la palingenesi degli enti religiosi?, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista Telematica (www.statoechiese.it), n. 27/2018. Con riferimento ai profili canonistici, si veda A. Bettetini, Riflessi canonistici della riforma del Terzo settore, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista Telematica (www.statoechiese.it), n. 20/2018; P. Cavana, Enti ecclesiastici e riforma del Terzo settore. Profili canonistici, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista Telematica (www.statoechiese.it), n. 22/2018; P. Consorti, Questioni di diritto patrimoniale canonico. Alcune riflessioni a partire dagli adempimenti conseguenti alla riforma italiana in materia di Terzo settore, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista Telematica (www.statoechiese.it), n. 10/2019. Si vedano altresì P. Consorti, Il nuovo “Codice del Terzo Settore” con particolare attenzione alla disciplina degli enti ecclesiastici (o religiosi?); P. Floris, Enti religiosi e riforma del Terzo Settore: verso nuove partizioni nella disciplina degli enti religiosi; M. Parisi, Enti religiosi, no profit ed economia solidale. Sull’interventismo statale dell’associazionismo di tendenza etico-religiosi nelle attuali tensioni riformistiche, tutti in Rigore e curiosità. Scritti in memoria di Maria Cristina Folliero, a cura di G. D’Angelo, Torino, Giappichelli, 2018.
([41]) Non può infatti ritenersi estensibile agli enti ecclesiastici, la disciplina dei patrimoni destinati ad uno specifico affare di cui agli artt. 2447-bis e ss. c.c. Tali disposizioni sono applicabili, infatti, solo ad alcune forme societarie, e precisamente alle società per azioni e, in forza dei rinvii operati dagli artt. 2454 e 2519 c.c., anche le società in accomandita per azioni e le società cooperative sembrano legittimate a costituire patrimoni separati (o a stipulare finanziamenti destinati).
La costituzione di un patrimonio destinato per l’esercizio dell’attività d’impresa da parte di un ente ecclesiastico potrebbe essere ammissibile nel caso in cui si aderisca all’orientamento dottrinale minoritario che, basandosi sull’espresso richiamo all’art. 1322, 2° comma c.c., ritiene che l’interesse sotteso all’atto di destinazione di cui all’art. 2645-ter c.c. sia meritevole di tutela in quanto non illecito, ovvero non contrario a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume. La meritevolezza dell’interesse ex art. 2545-ter c.c. si risolverebbe, dunque, in una mera valutazione «al negativo» di non illiceità dello scopo dell’atto di destinazione, valutazione analoga a quella prevista all’art. 1322, 2° comma c.c. per la causa del contratto. La causa dell’atto di destinazione deve riferirsi ad «interessi meritevoli di tutela». L’interesse meritevole di tutela è lo scopo dell’atto di destinazione, l’interesse al servizio del quale è posta in essere la fattispecie negoziale prevista all’art. 2645-ter c.c. In tal senso B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Giuffrè, Milano, 1968, p. 406; Id., Meritevolezza dell’interesse e utilità sociale, in Riv. Dir. Comm., 1971, p. 87 ss.; A. Guarnieri, voce «Meritevolezza dell’interesse», in Digesto Disc. Priv. – Sez. Civ., XI, Torino, 1994, p. 327 ss.; Id., Meritevolezza dell’interesse e utilità sociale del contratto, in Riv. Dir. Civ., 1994, 1, p. 799 ss.
Altri autori in riconducono la meritevolezza dell’interesse, alcuni, alla non futilità del rapporto giuridico (in tal senso A. Cautadella, I contratti, Parte generale, Torino, Giappichelli, 2009, p. 209 ss.), altri, alla verifica dell’esistenza di un intento di giuridicità nel rapporto (in tal senso F. Gazzoni, Atipicità del contratto, giuridicità del vincolo e funzionalizzazione degli interessi, in Riv. Dir. Civ., 1978, 1, p. 66 ss.). Altri autori propongono di riscontrare nella meritevolezza dell’interesse un rinvio all’utilità sociale della relazione negoziale (così M. Nuzzo, Utilità sociale e autonomia privata, Milano, Giuffrè, 1975, p. 92).
([42]) Per approfondimenti in merito alla costituzione di una società da parte di un ente ecclesiastico nonché le ragioni sottese alla preferenza per alcune forme societarie, si veda L. Decimo, La partecipazione degli enti ecclesiastici cattolici alle società di capitali, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista Telematica (www.statoechiese.it), n. 2/2015. In tal senso anche A. Fuccillo, Diritto, religioni, culture, cit., p. 154 ss., il quale evidenzia che «la fruibilità da parte degli enti ecclesiastici delle strutture societarie sembra trovare conferma nella recente introduzione da parte del legislatore italiano della società benefit. Ai sensi dei commi 376 ss. della l. 28 dicembre 2015, n. 208, le società di persone, di capitali e cooperative possono assumere la qualifica di società benefit ove per-seguano nell’esercizio dell’attività economica, oltre lo scopo di dividere gli utili, finalità di beneficio comune e operino in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente beni ed attività culturali e sociali, enti e associa-zioni ed altri portatori di interesse, e di ciò sia fatta espressa menzione nell’oggetto sociale. La società dovrà, inoltre, destinare parte dei propri utili alle finalità di beneficio comune e redigere annualmente una relazione concernente il perseguimento del beneficio comune, da allegare al bilancio societario, la quale include:
a) la descrizione degli obiettivi specifici, delle modalità e delle azioni attuati per il perseguimento delle finalità di beneficio comune e delle eventuali circostanze che lo hanno impedito o rallentato;
b) la valutazione dell’impatto generato dal perseguimento delle finalità di beneficio comune;
c) una sezione dedicata alla descrizione dei nuovi obiettivi che la società intende perseguire nell’esercizio successivo. Una delle prime società benefit costituite dopo l’introduzione del-la novità legislativa è la società “Madre di Dio S.r.l.” Società Benefit, di cui unico socio è una Parrocchia. Attraverso la forma organizzativa societaria, la Parrocchia esercita un’attività commerciale e per-segue finalità di beneficio comune a favore della comunità parrocchiale» (pp. 155-156). Sulle società benefit ed enti ecclesiastici si veda anche Fuccillo, Gli enti religiosi nel «terzo settore» tra la nuova impresa sociale e le società di benefit, cit., p. 341 ss.; L. Decimo, Le organizzazioni religiose nel prisma costituzionale dell’art. 20, cit., pp. 112-117. Sulle società benefit in generale, cfr. L. Lucenti, La legge di stabilità: ecco le società di Benefit, in www.jusdicere.it, 2016; D. Riva, Le società Benefit, in www.federnotizie.it, 2016; B. Bertarini, La società benefit: spunti di riflessione sulle nuove prospettive del settore non profit, in Diritto e Giustizia, 2016, p. 1 ss.
([43]) Propende in tal senso, seppur con alcuni dubbi, A. Perrone, Enti ecclesiastici e procedure concorsuali, cit., p. 242 ss., il quale evidenzia che la distinzione tra soggetti giuridici non impedisce, nei casi previsti dall’ordinamento, la responsabilità di chi esercita il controllo.
([44]) La definizione prosegue precisando che «Per i beni dell’Istituto, tale assegnazione viene fatta dal Capitolo Generale oppure dal Superiore Generale con il consenso del suo Consiglio. Per i beni di una Provincia, come pure per i beni di una casa legittimamente eretta, tale assegnazione viene fatta dal Capitolo Provinciale o altre assemblee simili (cf. can. 632) oppure dal Superiore Provinciale con il consenso del suo Consiglio e confermata dal Superiore Generale»; congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, Economia a servizio del carisma e della missione. Boni dispensatores multiformis gratiae Dei. Orientamenti, Roma, Libreria Editrice Vaticana, 2018, p. 65. Nel testo è evidenziata la necessità di fornire un inventario dei beni ascritti al patrimonio stabile e di compiere i necessari atti formali di assegnazione.
([45]) In tal senso di veda anche C.E. Varalda, Enti ecclesiastici cattolici e procedure concorsuali. La rilevanza del “patrimonio stabile” nella gestione della crisi, cit., pp. 31-32.
([46]) Sul punto è concorde anche A. Perrone, Enti ecclesiastici e procedure concorsuali, cit., p. 242 ss.
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