L’equo compenso e la ratio della norma nel difficile equilibrio fra regole di mercato e tutela degli interessi del legale

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Analisi della disciplina de iure còndito e de iure condendo

1.Equità quantificativa ed autonomia professionale

L’approccio alla tematica dell’equo compenso, nello sforzo di individuarne contenuti, confini e prospettive di applicazione, non può prescindere da un breve preliminare accenno al più generale concetto di equità cui l’istituto rimanda.

Sul piano squisitamente giuridico, per equità deve intendersi, come noto, la cosiddetta giustizia del caso concreto o singolo, laddove, appunto, una regola non venga rigidamente applicata, ma temperata ed adeguata a quest’ultimo. Il concetto di equità, riferito al compenso professionale, richiama, dunque, l’esigenza di una applicazione della regola economica temperata, proporzionale ed adeguata alle caratteristiche del singolo incarico.

Il compenso equo è un compenso, dunque, non rigidamente ancorato ad un precetto o valore economico normativamente imposto e rigidamente percepito e recepito, ma un compenso proporzionalmente  adeguato alle caratteristiche dell’incarico secondo un metodo case by case.

Il principio, d’altronde, emerge chiaro dalla norma che disciplina l’equo compenso nel nostro ordinamento, ovverosia l’articolo 13 bis della legge professionale forense (L n. 247/2012), introdotto dall’articolo 19-quaterdecies del decreto fiscale, convertito nella legge 4 dicembre 2017, n. 172, entrato in vigore il 6 dicembre 2017.

Secondo la lettera di tale articolo, in tutti i casi di incarico legale conferito da imprese bancarie e assicurative, nonché da imprese non rientranti nelle categorie delle microimprese o delle piccole o medie imprese, come definite nella raccomandazione 2003/361 CE della Commissione Europea (ovvero che occupino più di 250 persone, abbiano un fatturato annuo non superiore ad € 50.000.000,00, o un totale di bilancio annuo non superiore ad € 43.000.000,00), qualora le convenzioni che disciplinino il rapporto professionale siano unilateralmente predisposte da questi ultimi, il compenso si intenderà equo, solo qualora risulti “proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale, e conforme ai parametri previsti dal regolamento di cui al decreto del Ministro della Giustizia adottato ai sensi dell’articolo 13, comma 6”. Ai sensi del comma 3, le convenzioni stipulate con i ridetti “clienti forti” “si presumono unilateralmente predisposte” dagli stessi “salva prova contraria”. In  assenza della prova contraria, le clausole delle convenzioni per incarico legale di cui all’art. 13 bis che debbano, agli effetti di legge, ritenersi unilateralmente predisposte, si intenderanno nulle, qualora determinino “anche in ragione della non equità del compenso pattuito, un significativo squilibrio contrattuale a carico dell’avvocato”.

L’articolo 19-quaterdecies del Decreto fiscale, presto modificato per effetto dell’articolo 1, comma 487 della legge di bilancio 2018 del 27 dicembre 2017, n. 205, entrata in vigore il 1° gennaio 2018, inoltre, ha espressamente esteso la disciplina dell’equo compenso, con il limite della compatibilità, ai professionisti, di cui all’art. 1 della l. 22 maggio 2017, n. 81 (c.d. Jobs act nel lavoro autonomo e agile), anche iscritti ad Ordini e Collegi (comma 2) ed ha previsto che la Pubblica Amministrazione, “in attuazione dei principi di trasparenza, buon andamento ed efficacia delle proprie attività”,  garantiscail principio dell’equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai professionisti in esecuzione di incarichi conferiti dopo la data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”), con espresso divieto che, dall’attuazione delle disposizioni di cui si è detto, derivino nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica (comma 4).

Tanto detto, in relazione ai contenuti della norma di cui all’articolo 13 bis, vi è quindi da chiedersi, in esito al dibattito sviluppatosi in questi anni sul tenore della stessa, quali debbano essere considerati i requisiti immanenti ed inderogabili di un compenso equo e quale l’intima ratio della disciplina, che possa consentirne la convivenza con le regole, più liberiste, del mercato concorrenziale, imposte dalla Comunità europea.

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Va osservato che, ai sensi dell’articolo 13 bis, proporzionalità e conformità ai parametri ministeriali appaiono due requisiti, concorrenti e non alternativi, non casualmente messi in relazione fra loro, ma destinati a combinarsi per essere l’uno confine e limite dell’altro. L’esercizio dinamico di adeguamento del compenso alle caratteristiche dell’incarico, al fine di assicurarne la proporzionalità, deve avere come base di riferimento il dato valoriale di cui ai parametri ministeriali che, nella loro applicazione, non possono prescindere da quell’approccio equitativo che ne impone l’adeguamento al caso concreto ed alle sue caratteristiche.

Dunque il dinamismo, in contrapposizione alla statica e inamovibile predeterminazione di un prezzo,  è insito nel concetto di equità quantificativa che deve guidare il professionista ed il cliente nella determinazione del compenso professionale.

La questione maggiormente dibattuta, in dottrina come in giurisprudenza, è quella però relativa allo spazio che, rispetto alla chiarezza del precetto normativo di cui all’articolo 13 bis, possa ritenersi ancora attribuibile all’esercizio dell’autonomia negoziale del professionista nella relazione con il cliente “forte” con riguardo al delicato momento della determinazione del compenso relativo all’incarico.

E ciò, anche in relazione agli aspetti di autonomia del professionista che possano incidere sul gioco della concorrenza, in modo da falsarne il risultato.

L’abolizione delle tariffe professionali voluta nel 2012 dal Decreto Bersani, traeva origine dalla esigenza di liberalizzare il mercato anche con riguardo alle professioni del sistema ordinistico e di assicurare che negli ordinamenti degli Stati Membri dell’ UE, non sopravvivessero misure recanti restrizioni e distorsioni della concorrenza nel mercato interno, come espressamente vietate dall’articolo 101 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).

Sul punto deve accennarsi ai contenuti di una nota pronuncia della Corte di Giustizia UE, del 23.11.2017, resa nelle cause riunite C-427/16 e C-428/16 secondo la quale “l’articolo 101 del paragrafo I TFUE in combinato disposto con l’articolo 3 paragrafo 1 TFUE deve essere interpretato nel senso che una normativa nazionale che da un lato non consenta all’avvocato ed al proprio cliente di pattuire un onorario di importo inferiore al minimo stabilito da un regolamento adottato da una organizzazione di categoria dell’ordine forense e, dall’altro lato, non autorizzi il Giudice a disporre la refusione degli onorari di importo inferiore a quello minimo, è idonea a restringere il gioco della concorrenza nel mercato interno ai sensi dell’articolo 101 paragrafo 1 del TFUE”.

Nella fattispecie all’esame della Corte, i parametri tariffari erano, in effetti, stati determinati da una organizzazione di categoria e non da fonte statale (come avviene in Italia), ma, per quel che qui interessa, la decisione pare registrare una tensione fra l’esigenza di assicurare il gioco della concorrenza nel mercato interno e quella, opposta, di assicurare livelli di remunerazione adeguati alla dignità ed al rilievo delle prestazioni professionali.

E’ vero che, pur in assenza di tariffe obbligatorie, come osservato dalla sezione I del TAR Calabria-Catanzaro con la sentenza del 2 agosto 2018, n. 1507, esiste nel nostro ordinamento un principio volto ad assicurare non solo al lavoratore dipendente, ma anche al lavoratore autonomo una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro. Non a caso, l’art. 35 della Costituzione tutela il lavoro “in tutte le sue forme e applicazioni”, mentre il successivo art. 36, nell’occuparsi del diritto alla retribuzione, senza discriminare tra le varie forme di lavoro, tutela il diritto del professionista “ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro” .

Ma qual è il punto di equilibrio fra il concetto di equità del compenso ancorata ai parametri ministeriali di cui all’articolo 13 bis ed il libero esercizio dell’autonomia negoziale del professionista nel mercato concorrenziale ?

Quale regola generale e, pertanto, fuori dallo specifico rapporto professionista/cliente forte, con riferimento alla determinazione del compenso professionale, la legge professionale forense, come noto, all’articolo 13 dispone che i parametri di cui al D.M. n. 55/2014, oggi modificati dal DM 37/2018 e prossimi ad una ulteriore modifica,  devono essere applicati solo nel caso in cui (art. 13 c. 6) all’atto dell’incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in forma scritta, ovvero in ogni caso di mancata determinazione consensuale, ovvero ancora in caso di liquidazione giudiziale dei compensi o, infine, nei casi in cui la prestazione professionale sia resa nell’interesse di terzi o per prestazioni officiose previste dalla legge.

In effetti, nel rispetto di tale regola di carattere generale, la giurisprudenza (Cass. 21235/2013; Cass. 14293/2018) ha più volte affermato che il corrispettivo dell’avvocato vada determinato in base alle tariffe e debba essere adeguato all’importanza dell’opera prestata solo qualora non sia stato liberamente pattuito.

D’altronde anche la norma codicistica sul compenso delle prestazioni professionali (art. 2233 c.c.) individua chiaramente una «garanzia di carattere preferenziale» a favore del compenso oggetto di una convenzione intervenuta fra le parti rispetto alle tariffe, agli usi ed alla determinazione giudiziale (Cass. S.U. n. 18450/2005).

Ed è proprio su tale ordine preferenziale che è intervenuto, invertendolo, l’articolo 13 bis e la disciplina dell’equo compenso che, appunto, sovverte lo schema preferenziale innanzi descritto, sia pure con riguardo ad un ambito soggettivo ed oggettivo ristretto.

La norma assegna alla libera pattuizione fra le parti un ambito di operatività ristretto entro i confini dell’invalicabile soglia di sbarramento dei valori minimi dei parametri ministeriali e attribuisce alla stessa il compito di assicurare il più equo adeguamento del compenso alle caratteristiche dell’incarico rispetto al quale il primo deve essere proporzionato.

L’articolo 13 bis, invero, è stato introdotto nel nostro ordinamento con il parere contrario dell’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato che, nell’esercizio dei poteri di cui all’articolo 22 della legge 10 ottobre 1990 n. 287, nell’adunanza del 22 novembre 2017, in una puntuale segnalazione rivolta ai presidenti di Camera, Senato e del Consiglio dei Ministri aveva evidenziato che “La norma ( …) reintroduce di fatto i minimi tariffari, con l’effetto di ostacolare la concorrenza di prezzo tra professionisti nelle relazioni commerciali con tali tipologie di clienti”. (…) “In definitiva, tramite la disposizione in esame, viene sottratta alla libera contrattazione tra le parti la determinazione del compenso dei professionisti (ancorché solo con riferimento a determinate categorie di clienti)”. Secondo l’Autorità, le tariffe professionali fisse e minime, “reintrodotte” con l’art. 13 bis “impediscono ai professionisti di adottare comportamenti economici indipendenti e, quindi, di utilizzare il più importante strumento concorrenziale, ossia il prezzo della prestazione”.

Ma è davvero il prezzo della prestazione, per un professionista come l’avvocato, il “principale strumento concorrenziale”?

L’effettivo gioco della concorrenza nel mercato interno con riguardo alla professione forense in effetti, non si attua esclusivamente sulla base del prezzo della prestazione, ma, in via principale, trova i suoi elementi di impulso nella qualità, quantità, nella specialità ed nelle caratteristiche dell’incarico. In tal senso e partendo da questa diversa prospettiva, l’equità del compenso può divenire essa stessa non più limite ma garanzia di quella libertà ed indipendenza del professionista che assicura (e non sfavorisce) il gioco della concorrenza, anche in presenza di un valore economico posto a presidio del decoro della retribuzione.

2. La posizione della Corte Suprema di Cassazione, fra spinte liberiste  e tutela dell’ indipendenza del professionista

Il tema della compatibilità della regola equitativa con le ragioni che hanno condotto alla liberalizzazione delle tariffe e con la spinta sovranazionale verso la totale indipendenza ed autonomia del professionista, sin dal momento della determinazione convenzionale del proprio compenso, torna ad essere quanto mai attuale alla luce della ordinanza della I sezione della Corte di Cassazione del 18 dicembre 2019 – 17 aprile 2020, n. 7904, resa in sede di decisione di ricorso straordinario proposto avverso il decreto del Tribunale di Bari pronunciato, ex art  26 della Legge Fallimentare, su reclamo a provvedimento del Giudice delegato al fallimento.

Non solo ma, nel solco delle spinte a favore della indipendenza e dell’autonomia del professionista,  insiste la proposta di legge di revisione costituzionale del 20.02.2020 a firma, dei tra gli altri, dell’ex Ministro Guardasigilli Orlando, relativa alla riscrittura dell’articolo 111 della nostra Carta fondamentale.

La proposta di legge costituzionale, che fa proprio il suggerimento avanzato dal Presidente emerito della Corte di Cassazione Giovanni Canzio, nel rispetto del valore semantico dello stile letterario della Costituzione e al fine di evitare uno squilibrio di peso fra le diverse articolazioni dell’articolo 111, introduce, al secondo comma, una disposizione che così recita «Salvo i casi espressamente previsti dalla legge, nel processo le parti sono assistite da uno o più avvocati che, al fine di garantire l’effettività della tutela giurisdizionale, esercitano l’attività professionale in condizioni di libertà e indipendenza”.

In effetti proprio sulla libertà ed indipendenza del professionista si sofferma la Corte di Cassazione nella decisione appena citata, giungendo ad elevare tali principi a strumenti per una corretta ermeneusi della regola dell’equo compenso..

Nella fattispecie all’esame della Cassazione la res litigiosa afferiva alla equa quantificazione del compenso spettante al professionista, officiato della difesa di una curatela in un giudizio poi definitosi nel 2015, in ragione di un incarico difensivo disciplinato da una convenzione siglata, fra legale e curatela, nel 2014.

Oggetto di impugnazione dinanzi alla Suprema Corte era il decreto del Tribunale di Bari del 06.02.2018, recante rigetto del reclamo proposto dal professionista avverso il provvedimento del Giudice delegato al Fallimento di una società barese. Il provvedimento del Giudice delegato oggetto di reclamo, invero, aveva quantificato il compenso spettante al professionista per il patrocinio in giudizio della curatela in conformità alla convenzione siglata fra le parti nel 2014. Di contro, il professionista riteneva dovesse essergli corrisposta la maggior somma liquidata in favore della curatela, a titolo di refusione delle spese processuali, nella sentenza che, nel 2015, aveva poi definito il giudizio patrocinato dal legale.

Il professionista aveva, pertanto, impugnato la decisione dinanzi al Tribunale e poi in Cassazione, dolendosi della violazione della regola dell’equo compenso, che avrebbe dovuto condurre il Giudice delegato al Fallimento a liquidare in suo favore gli onorari non in conformità alla convenzione per incarico legale siglata nel 2014, ma a quelli quantificati in sentenza in conformità al D.M. ministeriale.

Sul punto  interessante evidenziare che il Tribunale di Bari, nella decisione poi impugnata e confermata dalla Suprema Corte, aveva ritenuto inapplicabile alla fattispecie la norma sull’equo compenso degli avvocati, di cui all’ art. 13-bis della legge professionale, non solo perché successiva alla data di sottoscrizione della convezione fra professionista e curatela, ma anche (e soprattutto) perché, tale regola, riguarderebbe solo le convenzioni unilateralmente predisposte da imprese bancarie o assicurative e in genere dalle grandi imprese nelle quali possano dirsi sussistenti elementi di squilibro contrattuale e di abuso fra i paciscenti. Nel caso all’esame del Tribunale “la convenzione era stata frutto della libera contrattazione tra le parti, senza possibilità di correlare la stipulazione a una sorta di abuso di dipendenza economica”.

A tale ultimo riguardo il ragionamento del Tribunale di Bari, poi condiviso dalla Suprema Corte, sembrerebbe condurre ad escludere la sussistenza di una clausola contrattuale, relativa al compenso, passibile di nullità ai sensi dell’articolo 13 bis, tutte le volte in cui essa sia frutto “della libera contrattazione tra le parti, senza possibilità di correlarne la stipulazione a una sorta di abuso di dipendenza economica” e di tanto ne dia prova, come nella fattispecie ne aveva dato prova la curatela, il cliente.

Il ragionamento del Tribunale sembra individuare nella fattispecie dell’abuso di dipendenza economica, mutuata dalla legge sulla subfornitura ed estesa ai lavoratori autonomi dalla norma sul Jobs act, un nuovo indice dal quale dedurre la non equità del compenso (e la sua determinazione “non libera”).

Invero, ai sensi dell’articolo 9 della Legge n. 192/1998 (legge sulla subfornitura): “Si considera dipendenza economica la situazione in cui una impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subìto l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti”.

Di talché, seguendo la linea interpretativa del Tribunale di Bari, nel sinallagma contrattuale fra professionista e cliente forte, l’eccessivo squilibrio delle condizioni potrebbe costituire un indice di quell’abuso di dipendenza economica del tutto incompatibile con una contrattazione che possa dirsi libera e rispetto alla quale appunto il professionista possa  dirsi  “indipendente”.

Il ragionamento è stato condiviso dal Giudice della nomofilachia che, con la decisione dell’aprile scorso, ha rigettato il gravame avverso la decisione del Tribunale di Bari ed ha dettato non pochi principi in relazione alla regola dell’equo compenso.

Innanzitutto, ne ha definitivamente chiarito l’ambito di applicazione dal punto di vista temporale, escludendone il carattere retroattivo. Essa si applicherebbe alle sole convenzioni  per incarichi professionali siglate dopo l’entrata in vigore della ridetta norma e pertanto successivamente al 06/12/2017.

L’art. 13 bis, Legge n. 247/2012, non ha, infatti, alcuna valenza di norma interpretativa né valore retroattivo “poiché semplicemente – dice la Suprema Corte–  fanno difetto sia l’espressa previsione nel senso dell’interpretazione autentica, sia i presupposti di incertezza applicativa di norme anteriori, che ne avrebbero giustificato l’adozione».

In effetti la circostanza che il legislatore, all’articolo 19-quaterdecies, comma 3, abbia precisato solo con riguardo alle Pubbliche Amministrazioni, che il principio dell’equo compenso vada garantito “ in relazione alle prestazioni rese dai professionisti in esecuzione di incarichi conferiti dopo la data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”, aveva indotto una parte degli interpreti a ritenere che l’articolo 13 bis, in tutti gli altri casi, potesse avere una portata addirittura retroattiva.

Era sorto, infatti, all’indomani della entrata in vigore della norma, un filone dottrinale che ammetteva, per le fattispecie soggettivamente ed oggettivamente rientranti nel campo di applicazione dell’articolo 13 bis, la figura della nullità sopravvenuta della clausola economica recante compenso non equo, valorizzando la natura di contratto di durata del rapporto fra legale e cliente.  La forzatura, tuttavia, è stata respinta da numerosi autori, secondo i quali una nullità siffatta (derivante cioè dalla entrata in vigore di una norma contraria al tenore dell’accordo già raggiunto) giammai potrebbe incidere sul contratto come atto, costituendone una patologia, potendo piuttosto avere riguardo al solo rapporto.

Sicché altri autori, abbandonando l’istituto scivoloso della nullità sopravvenuta, hanno cercato di risolvere la questione dal punto di vista della efficacia della legge nel tempo. In effetti, come detto, la lettera dell’art. 19-quaterdecies del decreto fiscale prevede che il principio dell’equo compenso spieghi i suoi effetti “successivamente all’entrata in vigore della legge di conversione” solo con riferimento agli incarichi conferiti dall’Ente pubblico, e non anche qualora il committente/cliente “forte” sia un privato. In tal caso, attesa la derogabilità, in ambito civile, dell’art. 11, comma 1, delle disposizioni preliminari al codice civile, secondo un ragionamento a contrario, la disciplina sull’equo compenso  avrebbe potuto considerarsi retroattiva.

La ragione della retroattività della norma di cui all’articolo 13 bis sarebbe stata, dunque, secondo tale ultima impostazione, in re ipsa: una norma come quella in esame inidonea ad abbracciare anche convenzioni anteriori alla sua entrata in vigore, si osservava, avrebbe frustrato sensibilmente lo scopo di garanzia che la ispira. La motivazione della irretroattività della legge sancita dal legislatore nei confronti della P.A. si sarebbe giustificata, di contro, con la preminente esigenza di salvaguardare le finanze pubbliche e avrebbe rappresentato, perciò, verosimilmente, l’approdo di un giudizio di bilanciamento tra valori di conflitto pienamente coerente all’iter argomentativo proposto.

Orbene, escludendo la valenza interpretativa della norma di cui all’articolo 13 bis e prevedendone l’applicazione alle sole convenzioni stipulate successivamente alla entrata in vigore della legge, anche al di fuori del rapporto professionista e P.A., la Corte di Cassazione pare avere definitivamente risolto la questione a favore della generale irretroattività della disciplina dell’equo compenso anche nella relazione con clienti forti non identificabili con la P.A.

Passando all’analisi dell’ambito di applicazione della regola dell’equo compenso dal punto di vista soggettivo, la Suprema Corte di Cassazione chiarisce e ribadisce che l’ambito di applicazione dell’articolo 13 bis è senz’altro un ambito “ristretto”. La Corte, sul punto, evidenzia che  non possa essere sanzionata con la nullità una convenzione che veda il professionista accettare un compenso pure inferiore ai valori minimi dei parametri di cui al Decreto Ministeriale n 55/2014, come modificato dal D.M. n. 37/2018, salvo esso sia unilateralmente imposto dal cliente cosiddetto  “forte”. Affinché trovi applicazione la disciplina portata dall’art. 13-bis della l. n.247 del 2012, pertanto, è necessario che la convenzione sia predisposta unilateralmente dall’impresa bancaria o dall’impresa assicurativa o dalla grande impresa, senza che l’avvocato abbia potuto esercitare influenza sul contenuto della stessa; se invece la convenzione è, nella sua interezza, oggetto di trattative tra le parti ( e non presenti aspetti che possano far ritenere sussistenti forme di abuso di dipendenza economica qual è l’eccessivo squilibrio fra le posizioni dei paciscenti), la norma in parola deve considerarsi inapplicabile.

Con riguardo poi, in particolare, alla curatela fallimentare, la Suprema Corte esclude che questa possa essere qualificata come cliente forte ai fini dell’applicazione della regola di cui all’articolo 13 bis. “La norma medesima – si legge nella decisione – ha un ben limitato spazio di applicazione, essendo relativa alle (sole) convenzioni ivi appositamente richiamate, con “imprese bancarie e assicurative” e con “imprese non rientranti nelle categorie delle microimprese o delle piccole o medie imprese, come definite nella raccomandazione 2003/3610E della Commissione, del 6 maggio 2003”; e, dunque, non può essere invocata nel distinto caso delle convenzioni aventi a oggetto lo svolgimento – come nella specie – di attività professionale in favore di procedure fallimentari; le quali, in vero, non sono ontologicamente catalogabili nel concetto di “imprese”, grandi o piccole che siano, per la differente funzione gestoria loro riservata”.

Alla luce di questo precedente giurisprudenziale deve concludersi che il confine fra pregiudizio dell’autonomia e tutela della dignità professionale è senz’altro sottilissimo e va di volta in volta indagato, avendo riguardo alla specificità e peculiarità dell’accordo che disciplina l’incarico professionale, alle modalità attraverso le quali quell’accordo è stato assunto ed alle sue intrinseche caratteristiche, escludendo del tutto che il compenso, ancorché  apparentemente negoziato e contrattato, possa qualificarsi equo  solo allorquando sussistano gli estremi per individuare, nella relazione fra i paciscenti, forme di abuso di dipendenza economica.

La presunzione iuris tantum, relativa alla unilateralità delle convenzioni siglate con i clienti forti, potrà essere vinta, pertanto, mediante la prova dell’effettivo svolgimento di trattative che abbiano visto, nel libero contraddittorio delle parti, queste ultime addivenire ad un accordo sul compenso, anche eventualmente in deroga ai parametri.

Spetterà al cliente “forte” dimostrare che le clausole non sono state unilateralmente “predisposte”, ma che sono state congiuntamente e liberamente ideate, determinate e concordate con il professionista e che il compenso convenuto, in ragione della sua proporzionalità all’incarico, non è frutto di alcuna situazione di abuso di dipendenza economica. In ogni caso, al fine di dimostrare l’effettiva sussistenza di una trattativa “libera”, come vuole l’articolo 13 bis, non saranno sufficienti generiche dichiarazioni del legale, occorrendo l’indicazione e la prova delle specifiche modalità attraverso le quali si è svolto il confronto fra le parti e si è addivenuti alla condivisa disciplina del rapporto. Il disequilibrio delle posizioni dei paciscenti, costituendo l’indice di un esercizio distorto dell’autonomia negoziale, imporrà il test di proporzionalità della clausola economica che l’articolo 13 bis pone a presidio del contraente più debole.

Solo al di là di siffatta situazione, la pattuizione di un compenso inferiore al valore minimo portato dal decreto del Ministro della Giustizia è legittima, alla luce del disposto dell’art. 13, comma 3 e 6, della l. n. 247 del 2012 e dell’art. 2233 c.c., anche se può costituire violazione dei precetti deontologici del decoro e della correttezza (ad es. in caso di sistematica pattuizione di compensi irrisori al fine dell’accaparramento della clientela).

3. Equo compenso e P.A.

Un approfondimento a parte merita, inoltre, la trattazione della regola dell’equo compenso, nei suoi aspetti applicativi, all’interno del rapporto professionista incaricato e P.A. committente.

Si è detto che, ai sensi del terzo comma dell’articolo 19-quaterdecies del decreto fiscale, come introdotto dalla legge di bilancio 2018, anche la Pubblica Amministrazione è tenuta a garantire  il “principio” dell’equo compenso.

Preliminarmente va osservato che, nello scrivere la norma, il legislatore ha scelto di non richiamare sic ed simpliciter il testo dell’articolo 13 bis, dichiarandolo applicabile tout court alle P.A., ma si è limitato a sancire l’obbligo di queste ultime di garantire il “principio dell’equo compenso”.

La scelta ha generato non pochi dubbi interpretativi con riguardo alle corrette forme di applicazione di quanto prescritto all’articolo 13 bis alle P.A. Se la P.A. è tenuta a garantire il principio dell’equo compenso occorrerà ricavare il ridetto principio dal tenore dell’articolo 13 bis al fine di comprenderne contenuti e confini.

Senz’altro, lo si è detto in apertura di articolo, il principio dell’equo compenso impone che, nella determinazione  di quest’ultimo, la P.A., nel rispetto dei meccanismi di temperamento della regola economica, secondo una metodologia case by case, tipici della equità quantificativa, debba avere riguardo al criterio di proporzionalità rispetto alla quantità e alla qualità del lavoro prestato, in attuazione dei principi di trasparenza, di buon andamento e di efficacia dell’azione amministrativa.

Il richiamo al rispetto ed alla garanzia del principio dell’equo compenso in luogo della diretta applicazione della norma di cui all’articolo 13 bis, nella sua integralità, sembrerebbe avere come finalità quella di assicurare alla Pubblica Amministrazione uno spazio di valutazione, scelta e trattativa meno rigidamente ancorato alla soglia di sbarramento dei valori minimi di cui ai parametri ministeriali.

E’ evidente, in base al brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, che la scelta lessicale del legislatore abbia voluto alleggerire il rigore della regola dell’equo compenso nell’applicazione alla P.A. In tal senso, pertanto, numerose Amministrazioni si sono approcciate alla regola dell’equo compenso in maniera piuttosto timida e flessibile.

Una modalità, invero, non condivisa dal Giudice Amministrativo che  pare orientato in maniera uniforme ad assicurare, nel rapporto fra professionista e P.A., piuttosto la piena applicazione della regola di cui all’articolo 13 bis.

Il TAR Marche, con la Sentenza n. 761 del 9 dicembre 2019, ha accolto il ricorso degli Ordini dei commercialisti di Ancona, Pesaro e Urbino contro la Provincia di Macerata che, nell’ottobre del 2018, aveva pubblicato un annuncio per l’acquisizione di candidature ai fini della nomina dell’Organismo di controllo (Sindaco unico) di una società in house, per un compenso annuo pari a 2.000,00 euro oltre Iva e Cpa.

Con la ridetta sentenza i Giudici amministrativi hanno affermato i seguenti principi:

  • le pubbliche amministrazioni, nell’affidamento dei servizi di opera professionale, sono tenute a corrispondere un compenso congruo ed equo, ovvero proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione;
  • al fine di accertare l’equità del compenso, occorre far riferimento ai parametri stabiliti dai singoli decreti ministeriali per ciascuna categoria di professionisti;
  • detti parametri non possono essere considerati alla stregua di minimi tariffari inderogabili (pena la surrettizia introduzione di tariffe obbligatorie fisse o minime per le attività professionali e intellettuali, abolite dal cosiddetto “decreto Bersani”), ma costituiscono un criterio orientativo per la determinazione del compenso; in altri termini, non è esclusa, in via di principio secondo il Tar Marche, la possibilità che le parti pattuiscano liberamente il compenso anche in deroga ai parametri di liquidazione indicati nei citati decreti ministeriali (in particolare, art. 1, comma 7, del DM n. 140 del 2012);
  • tuttavia, quando il cliente è un contraente forte – ovvero, come nella specie, la pubblica amministrazione – la pattuizione del compenso professionale incontra il limite del rispetto del principio dell’equo compenso (inteso, si ribadisce, come proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione) (TAR Campania Napoli, sez. I, ordinanza n. 1541 del 25 ottobre 2018).

L’Ordinanza del Tar Campania, citata dal Tar Marche, ha anch’essa portato alla revoca di un bando, nella fattispecie del Comune di Marano, volto alla selezione di avvocati cui affidare cause in materia tributaria, che prevedeva un compenso nullo per le cause di valore inferiore a 500,00 euro.

Il Tar Napoli, nella citata decisione cautelare, ha affermato che «le esigenze di riequilibrio finanziario debbano armonizzarsi con altri principi fondamentali dell’azione amministrativa, tra cui quelli di ragionevolezza e di proporzionalità nonché, nella fattispecie, quello di equo compenso per le prestazioni professionali» (Tar Campania, Sez. I, 25 ottobre 2018, n. 1541).

Se il parametro ministeriale deve essere considerato un valore cui anche la P.A. deve orientarsi nella quantificazione del compenso proporzionale ed adeguata dal punto di vista oggettivo e soggettivo al caso concreto e quindi al singolo incarico difensivo, allora qualche perplessità può destare la posizione possibilista assunta  sempre dal  Giudice amministrativo con riguardo ai cosiddetti incarichi gratuiti.

In effetti, dal punto di vista del professionista, l’accettazione di un incarico gratuito pone problemi non solo con riguardo alla regola di cui all’articolo 13 bis della legge professionale forense, ma anche in termini di potenziale violazione degli articoli  9, 19, 25 e 29 del Codice Deontologico vigente. Tali disposizioni, da un lato, stabiliscono il divieto di accettazione di un compenso iniquo o lesivo della dignità e del decoro professionale, dall’altro, prescrivono che le condizioni contrattuali per i servizi legali e per l’attività difensiva non si debbano tradurre in clausole lesive della dignità e del decoro del professionista.

Dal punto di vista dell’Amministrazione, poi, il conferimento di un incarico gratuito espone la P.A. committente al rischio di ricevere prestazioni di scarsa qualità, in quanto non considera il costo/opportunità del professionista a rendere prestazioni in misura correlata al compenso ricevuto, anche in ragione dell’assunzione di responsabilità che comporta lo svolgimento di tale attività.

Non trascurabile, poi, il rischio di violazione dell’articolo 3 della Costituzione, in ragione della potenziale disparità trattamento con altri consulenti retribuiti.

I ridetti rischi per la p.A. che si approcci al conferimento di incarichi gratuiti o non equamente retribuiti sono stati, in effetti, stigmatizzati dall’ANAC nelle Linee guida n. 12, approvate dal Consiglio dell’Autorità con delibera n. 907 del 24 ottobre 2018,  relative alle procedure di affidamento di servizi legali. In un passaggio dedicato ai contratti esclusi, ex art. 17 del d.lgs n. 50/2016 e s.m.i. (fra i quali senz’altro rientrano i singoli incarichi di patrocinio e difesa conferiti dalla P.A. a professionisti del libero foro), l’ANAC prevede che l’Amministrazione, con riguardo a tali contratti, debba sempre garantire l’applicazione, fra gli altri richiamati dall’articolo 4, del principio generale di economicità. Tale principio secondo l’Anac impone all’Amministrazione di assicurare “l’equità del compenso, nel rispetto dei parametri stabiliti da ultimo con decreto ministeriale 8 marzo 2018, n. 37”, atteso che “il risparmio di spesa non è il criterio di guida nella scelta che deve compiere l’amministrazione”.

E tuttavia, con due note sentenze (gemelle) del 2019 della Sezione II, nn.11410 e 11411, il Tar Lazio – Roma ha escluso che la disciplina dell’equo compenso presenti carattere ostativo alla legittimità di procedure di gara a compenso zero o gratuite.

Secondo il Tar Lazio, infatti, la regola dell’equo compenso sancita dall’articolo 13 bis, va interpretata nel senso che, laddove il compenso in denaro sia stabilito, esso non possa che essere equo ma non anche nel senso di ostare alla assenza di compenso. “Nulla impedisce -ritiene il Tar Lazio -tuttavia, al professionista, senza incorrere in alcuna violazione, neppure del Codice deontologico, di prestare la propria consulenza, in questo caso richiesta solo in modo del tutto eventuale nei due anni stabiliti, senza pretendere ed ottenere alcun corrispettivo in denaro. Lo stesso può invece in questo caso trarre vantaggi di natura diversa, in termini di arricchimento professionale legato alla partecipazione ad eventuali tavoli, allo studio di particolari problematiche ed altro, nonché quale possibilità di far valere tutto ciò all’interno del proprio curriculum vitae.

Il Tar del Lazio è intervenuto in una questione concernente il bando con cui il Ministero dell’Economia aveva richiesto «un supporto tecnico ad elevato contenuto specialistico di professionalità altamente qualificate per svolgere consulenze a titolo gratuito» portata all’attenzione del GA su ricorso  dell’Ordine degli Avvocati di Roma e di quello di Napoli.

La decisione dei Giudici amministrativi romani è dunque nel senso della legittimità della procedura nonostante gli ordini professionali ricorrenti avessero denunciato la violazione di rilevanti principi di cui agli artt. 1, art. 35, art. 36 e art. 97 della Costituzione ed il grave palese nocumento, generato dal bando impugnato, alla tutela della dignità professionale, collegata al principio dell’equo compenso.

Le sentenze sono state oggetto di ricorso in appello dinanzi al Consiglio di Stato, che sarà discusso in udienza pubblica il 04/02/2021. Nelle more di una legge di riforma dell’equo compenso che ne estenda i confini rispetto alle pubbliche amministrazioni in maniera più chiara, ci si aspetta, con la decisione del Consiglio di Stato un chiarimento definitivo sui criteri entro cui il principio dell’equo compenso possa dirsi rispettato con particolare riguardo alle ipotesi di gratuità degli incarichi.

V’è da dire che, fuori dal meccanismo dell’equo compenso e prima della sua entrata in vigore, il Consiglio di Stato, con la nota sentenza della. sezione V, n. 4614/17, depositata il 3 ottobre, valorizzava il concetto dell’ “economia dell’immateriale”, concludendo nel senso che non vi sia “estraneità sostanziale alla logica concorrenziale che presidia, per la ricordata matrice eurounitaria, il Codice degli appalti pubblici quando si bandisce una gara in cui l’utilità economica del potenziale contraente non è finanziaria ma è insita tutta nel fatto stesso di poter eseguire la prestazione contrattuale. Il mercato non ne è vulnerato”.

Alla luce dei precedenti giurisprudenziali sin qui riportati, deve concludersi comunque che nel corso di questi ultimi 3 anni, la garanzia del principio dell’equo compenso è stata senz’altro assicurata dalla P.A. in maniera piuttosto “elastica”. Sulla spinta del caso dei bandi MEF e delle pronunce del Tar Lazio, sono stati elaborati progetti di riforma della legge che vorrebbero risolvere il problema alla radice, impedendo alle P.A. di emanare bandi che non prevedano alcun compenso per il professionista, di inserire nei bandi o nelle selezioni per servizi professionali clausole di gratuità nonché di prevedere corrispettivi dal valore simbolico e non proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, al contenuto e alle caratteristiche della prestazione.

Tali clausole, ove previste, sarebbero nulle e il compenso del professionista verrebbe determinato dal giudice tenendo conto dei parametri previsti dal regolamento di cui al decreto del Ministro della giustizia adottato ai sensi dell’articolo 13, comma 6 della legge 31 dicembre 2012, n. 247.

Trattasi, come si vede, di una misura assai più forte di quella di cui all’articolo 19-quaterdecies che, tuttavia, dovrà essere bilanciata con le spinte liberali ed i principi di concorrenza e tutela del mercato che hanno condotto all’abolizione delle tariffe professionali. I Protocolli di intesa stipulati fra Ministero e CNF e fra Ministero e la Rete Professioni Tecniche mirano, intanto, a realizzare un completo monitoraggio dello stato di attuazione e recepimento del principio dell’equo compenso da parte dei clienti “forti”, principio cui in ordine sparso anche le  Regioni stanno cercando di fare richiamo in appositi atti normativi.

4. I rimedi esperibili dinanzi alla iniquità del compenso

Quanto alle misure rimediali ed alle azioni che il professionista può intraprendere, per vedere assicurata l’applicazione della regola dell’equo compenso, va da subito chiarito che la nullità della clausola economica iniqua, ex art. 13 bis della legge professionale, è una nullità di protezione posta a tutela del solo soggetto nei cui confronti è prevista e che solo può farla valere.

Sicchè, qualora il professionista, incaricato da un cliente “forte”, intenda far valere il proprio diritto ad un compenso equo, pur in presenza di una convenzione siglata che ne abbia determinato il quantum in misura “non equa” secondo gli indici di cui all’articolo 13 bis, potrà agire giudizialmente sia con azione ordinaria di accertamento della nullità della clausola economica, instando il Tribunale per la condanna del cliente al pagamento di un compenso equo, sia con ricorso per decreto ingiuntivo, qualora il suo credito presenti i requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità e ove sussistano i presupposti di cui agli articoli 633 e 636 cpc (ivi incluso il parere del Consiglio dell’Ordine sulla congruità del compenso posto a base del ricorso).

In tale ultimo caso in sede di eventuale opposizione il professionista potrà senz’altro eccepire la nullità della convenzione siglata ai sensi dell’articolo 13 bis.

Va detto, altresì, che, trattandosi di nullità di protezione, l’eventuale rilievo officioso della stessa, opera in funzione del solo interesse del contraente debole, ovvero del soggetto legittimato a proporre l’azione di nullità; in tal modo, si evita che la controparte (il cliente forte) possa sollecitare i poteri officiosi del giudice per un interesse suo proprio, destinato a rimanere fuori dall’ambito della tutela.

Sicchè il Giudice, in assenza di eccezione di parte, che ravvisi l’esistenza di una clausola economica passibile di declaratoria di nullità ai sensi dell’articolo 13 bis, dovrà provocare il contraddittorio sul punto. Infatti, trattandosi di nullità di protezione la parte nel cui interesse è predisposta tale invalidità, ovvero il professionista, conserva pur sempre la facoltà di non avvalersene, chiedendo che la causa sia decisa nel merito. In tal caso il giudice non potrà in alcun modo dichiarare in sentenza, nemmeno in via incidentale, la relativa nullità.

Resta fermo che, con riguardo alla Pubblica amministrazione e ad eventuali bandi o avvisi che rechino in sè condizioni violative del principio dell’equo compenso, il giudizio impugnatorio dovrà essere introdotto dinanzi al Giudice Amministrativo da soggetti dotati della legittimazione attiva e pertanto di un interesse diretto attuale e concreto alla rimozione del bando o dell’avviso contrario a legge.

Fra questi le associazioni di categorie, gli ordini professionali (Ad. Plenaria Consiglio di Stato n. 10/2011) ed i singoli professionisti, anche, nelle prospettive del futuro progetto di riforma, costituiti in una class action, nella misura in cui dimostrino le condizioni economiche del bando ledano e pretermettano le opportunità partecipative degli stessi.

Sul punto, va evidenziato che il Tar Campania, con la ordinanza del 2018 già citata ha dichiarato sussistente l’interesse di un gruppo di avvocati ad impugnare l’avviso del Comune di Marano siccome “le disposizioni tariffarie contestate si rivelano immediatamente lesive per i ricorrenti, imponendo loro l’assunzione di un impegno ad accettare condizioni economiche inadeguate nel senso in precedenza indicato”.

             Merita un cenno, inoltre, il  riconoscimento da parte del Tar Lazio Roma, nella sentenza n. 11411/2019, della legittimazione processuale ad impugnare la clausola di gratuità inserita nel bando anche del professionista che non vi abbia partecipato, in ragione della natura escludente della stessa.

Sul punto, infatti, conclude il Tar Lazio “(…) la previsione, in particolare, del carattere gratuito della ‘prestazione’ richiesta renderebbe l’offerta abnorme ed irragionevole. Da ciò deriverebbe il carattere escludente della clausola in questione, che conseguentemente sarebbe immediatamente impugnabile, anche in assenza di partecipazione.

Il Collegio ritiene – si legge ancora – che, ai soli fini dell’individuazione della legittimazione processuale e della conseguente ammissibilità del ricorso e fatto salvo naturalmente l’accertamento nel merito, la richiamata prospettazione induce logicamente a sostenere che il ricorso sia ammissibile, attesa la natura asseritamente escludente, nei sensi sopra specificati, della previsione della gratuità dello ‘incarico’”.

Quanto ai confini della giurisdizione del G.A., occorre ancora precisare che il Giudice amministrativo non ha competenza a pronunciarsi sul quantum spettante al professionista vincitore dell’avviso o del bando.

Come concluso dal Tar Marche nella sentenza n.761/2019, “la domanda volta all’esatta determinazione del quantum (pure contenuta in ricorso) esula, invece, dalla giurisdizione di questo giudice, essa spettando all’autorità giudiziaria ordinaria, a cui è rimesso anche l’accertamento, in concreto, della eventuale vessatorietà della relativa clausola contrattuale (accertamento che non può prescindere dalla preventiva determinazione del quantum ritenuto spettante). Peraltro, trattandosi di compenso che il professionista vanta nei confronti del proprio cliente (pubblica amministrazione) per prestazioni professionali svolte, la questione relativa all’ammontare dello stesso attiene al rapporto privatistico che intercorre tra i contraenti, sicché si dubita della legittimazione degli ordini ricorrenti ad avanzare tale richiesta per conto del singolo professionista”.

5. Prospettive di riforma dell’equo compenso: le proposte al vaglio del legislatore

Quanto alle prospettive di riforma, con riguardo ai rapporti fra professionista e Pubblica Amministrazione va detto che, nella vigenza dell’attuale articolo 13 bis, l’esigenza di far fronte a eventuali squilibri contrattuali nella relazione fra professionista e p.A. potrebbe trovare adeguata risposta anche attraverso altri strumenti di cui già dispone l’ordinamento.

In effetti, anche nel rapporto con la Pubblica Amministrazione, l’attuale disciplina sulla tutela del lavoro autonomo potrebbe soddisfare già adeguatamente  le esigenze di protezione nei confronti dei clienti “forti” in situazioni di eventuale squilibrio contrattuale. Il Jobs Act ha, infatti, già previsto anche a favore delle professioni, l’estensione della disciplina sui ritardi nei pagamenti nell’ambito delle transazioni commerciali (articolo 2) e ha individuato specifiche clausole e condotte abusive –stabilendone l’inefficacia laddove adottate –volte proprio a tutelare il contraente debole (articolo 3).

Si tratta, in particolare, di clausole che attribuiscono al committente la facoltà di modificare unilateralmente le condizioni del contratto o recedere da esso senza un congruo preavviso e che fissano termini di pagamento superiori a 60 gg. È ritenuto, altresì, abusivo il rifiuto del committente di stipulare il contratto in forma scritta e viene estesa anche alle professioni la disciplina sull’abuso di dipendenza economica (articolo 9 legge 18 giugno 1998, n. 192).

Sul piano generale, va detto che le criticità emerse con riguardo alla corretta applicazione, alle P.A. siccome ai cosiddetti altri “clienti forti” identificati dalla norma, della disciplina dell’equo compenso, hanno stimolato l’elaborazione di alcuni progetti di riforma attualmente allo studio della competente commissione parlamentare che ne ha iniziato l’esame lo scorso 2 dicembre. Trattasi di proposte tra loro eterogenee che prevedono, ciascuna, una diversa visione prospettica della questione.

Il primo progetto di riforma C 2192 – primo firmatario On.le Morrone, pur confermando la struttura e la definizione di equo compenso di cui all’articolo 13 bis e la declaratoria delle clausole vessatorie ivi contenuta, prevede che la nuova disciplina dell’equo compenso debba applicarsi a tutte le attività professionali, svolte anche in forma associata o societaria, che trovino fondamento in convenzioni, le cui clausole siano unilateralmente predisposte o applicate dal cliente e che siano svolte in favore di imprese bancarie e assicurative, nonché di imprese che nel triennio precedente al conferimento dell’incarico abbiano occupato alle proprie dipendenze più di 60 lavoratori o abbiano presentato ricavi annui superiori a 10 milioni di euro. Rispetto alla normativa vigente, contenuta nel citato articolo 13-bis, comma 1, della legge n. 247 del 2012, tale proposta di legge si prefigge l’obiettivo di ampliare l’ambito applicativo della disciplina sull’equo compenso delineando, in relazione alla realtà produttiva italiana, le caratteristiche che deve avere l’impresa per poter essere considerata, rispetto al professionista, un contraente «forte». La proposta, inoltre, conferma: che gli accordi preparatori o definitivi, purché vincolanti per il professionista, conclusi tra i professionisti e le imprese di cui all’articolo 1 si presumano unilateralmente predisposti dalle imprese stesse, salva prova contraria (comma 2) e ribadisce il carattere vessatorio delle clausole che determinino un significativo squilibrio contrattuale a carico del professionista (commi 3 e 4). Peraltro, con riguardo alla vessatorietà, la presunzione, secondo il progetto di riforma, avrebbe carattere assoluto, operando anche quando il contenuto della clausola sia stato oggetto di specifica trattativa (comma 6). Il comma 8 dell’articolo 2 prevede, tuttavia, che la nullità delle clausole vessatorie, pur rilevabile d’ufficio, possa essere oggetto di rinuncia da parte del professionista, che dovrà in merito pronunciarsi in modo espresso e irrevocabile. Riproponendo la normativa vigente, ai sensi del comma 7 dell’articolo 2, non costituiscono prova della specifica trattativa e approvazione le dichiarazioni contenute nelle convenzioni di cui all’articolo 1 che attestano genericamente l’avvenuto svolgimento delle trattative, senza la specifica indicazione delle modalità con le quali le medesime sono state svolte. Accertata la non equità del compenso, in base al comma 9 dell’articolo 2 del progetto di riforma C 2192, il giudice lo ridetermina applicando i parametri previsti dai citati decreti ministeriali. Infine, il comma 10 dell’articolo 2 individua in 10 anni il termine di prescrizione del diritto al compenso da parte del professionista e specifica che – in caso di pluralità di prestazioni a seguito di un unico incarico – il termine decorre dall’ultima prestazione.

Interessante il contenuto dell’articolo 3 che da una parte estende l’applicazione della disciplina dell’equo compenso alle prestazioni rese dal professionista nei confronti della pubblica amministrazione e degli agenti della riscossione, dall’altra però prevede che in relazione a quelle prestazioni i compensi siano dimezzati.

L’articolo 4 consente la tutela dei diritti individuali omogenei dei professionisti attraverso l’azione di classe, proposta esclusivamente dal Consiglio nazionale dell’ordine e al quale sono iscritti i professionisti interessati. La disposizione richiama sia la vigente disciplina dell’azione di classe (articolo 140-bis del codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206) che quella che entrerà in vigore a partire dal 19 maggio 2021 a seguito della riforma della  “class action” operata dalla legge 12 aprile 2019, n. 31 (che ha inserito nel codice di procedura civile gli articoli 840-bis e seguenti).

E’ poi prevista l’istituzione presso il Ministero della giustizia l’Osservatorio nazionale sull’equo compenso, con il compito di vigilare sul rispetto della legge, esprimere pareri o formulare proposte sugli atti normativi che intervenissero sui criteri di determinazione dell’equo compenso o disciplinassero le convenzioni e segnalare al Ministro pratiche elusive delle disposizioni sull’equo compenso.

Quanto all’applicazione della nuova legge di riforma l’articolo 7, infine, reca una disposizione transitoria prevedendo che la riforma trovi applicazione per gli incarichi professionali conferiti dopo l’entrata in vigore della legge.

Trattasi di una proposta di intervento riformatore, quella appena esaminato, che, abrogando e riscrivendo, con valenza soggettivamente e oggettivamente differente, l’articolo 13 bis inciderebbe senz’altro in maniera sostanziale sull’attuale disciplina dell’equo compenso.

Con riguardo alla seconda proposta di legge C 1979 – primo firmatario On.le Mondelli, essa muove dalla diversa esigenza di introdurre solo alcuni, pur necessari, correttivi alle seguenti criticità:

  • la tendenza dei contraenti forti a sviare l’applicazione della disciplina dell’equo compenso evitando di sottoscrivere con i professionisti «convenzioni», e utilizzando invece accordi di forma diversa;
  • il limite dell’inapplicabilità della disciplina sull’equo compenso a imprese che, pur definite piccole e micro dal legislatore europeo, sono invece da considerare medio-grandi, e dunque contraenti forti rispetto al professionista, nel tessuto produttivo italiano;
  • la ritrosia della pubblica amministrazione nel riconoscere il diritto dei professionisti all’equo compenso; all’applicabilità della normativa sull’equo compenso ai rapporti instaurati prima della riforma;
  • il carattere quasi onnicomprensivo del regolamento ministeriale del 2012 che pretende di individuare parametri per la liquidazione dei compensi professionali applicabili a molte eterogenee realtà professionali.

Al riguardo, l’articolo 1 della proposta di legge C 1979 definisce l’equo compenso come la corresponsione di un compenso proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale, nonché conforme ai compensi previsti dai regolamenti ministeriali. Per gli avvocati, si tratta dei compensi definiti dal decreto del Ministro della giustizia, emanato in attuazione della legge professionale forense, e per tutti gli altri professionisti, dei compensi definiti da specifici decreti ministeriali emanati in attuazione dell’articolo 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27. La proposta di legge all’articolo 1 non fa quindi esplicito riferimento, a differenza tanto della normativa vigente, alle convenzioni né ai «parametri» definiti dai decreti ministeriali. L’articolo 2 definisce il campo d’applicazione dell’equo compenso, specificando che la disciplina si applica a «qualsiasi rapporto professionale avente ad oggetto le prestazioni di un avvocato e di qualsiasi altro professionista», e ciò a prescindere dal fatto che la prestazione trovi fondamento in convenzioni ed a prescindere dal carattere unilaterale o meno della fonte dalla quale si ricava la pattuizione del compenso (comma 1). Viene dunque soppresso, nella proposta di riforma di cui si tratta, ogni riferimento alla natura dell’impresa committente (bancaria o assicurativa) o alla sua dimensione, escludendo l’applicabilità dell’equo compenso soltanto per le prestazioni professionali svolte nei confronti di (comma 2): consumatori o utenti e agenti della riscossione. La disposizione (comma 3), prevede la retroattività della disciplina dell’equo compenso mentre l’articolo 3 consente ai Consigli nazionali delle professioni di adire l’autorità giudiziaria per far accertare la violazione delle disposizioni sull’equo compenso e, conseguentemente, inibire ai committenti l’uso di clausole vessatorie. Questa disposizione, diversamente dalle precedenti, tuttavia si riferisce non a tutti i committenti diversi da utenti e consumatori o da agenti della riscossione, bensì esclusivamente ai committenti «imprese bancarie e assicurative» nonché alle imprese non rientranti nelle categorie delle microimprese o delle piccole o medie imprese, come definite dalla disciplina UE. L’articolo 3, infatti, consente ai Consigli nazionali di agire esclusivamente per far valere le violazioni da parte dei soggetti indicati dall’articolo 13-bis, comma 1, della legge professionale forense. L’articolo 4 demanda al Ministro della giustizia, entro 180 giorni dall’entrata in vigore della riforma, l’emanazione di specifici decreti ministeriali per stabilire i parametri per l’applicazione dell’equo compenso in sede di liquidazione dello stesso da parte del giudice. Il Ministro dovrà dettare parametri specifici in relazione a ciascuna professione vigilata, sentiti gli ordini professionali coinvolti. L’articolo 5 stabilisce che ai rapporti professionali come definiti dall’articolo 2 si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni dell’articolo 13-bis della legge professionale forense, che la proposta di legge in esame non abroga.

La proposta C 301- primo firmatario On.le Meloni interviene, infine, sulla disciplina codicistica, disponendo la nullità delle clausole che non prevedono un compenso equo e proporzionato per lo svolgimento di attività professionali, ossia che prevedono un compenso inferiore ai parametri o dalle tariffe per la liquidazione dei compensi dei professionisti iscritti agli ordini o ai collegi professionali, fissati con decreto ministeriale. Più in dettaglio, l’articolo 1 interviene sul codice civile, aggiungendo due commi all’articolo 2233, che detta la disciplina del compenso nelle professioni intellettuali. Il primo di essi sancisce la nullità delle clausole che non prevedano un compenso equo e proporzionato all’opera prestata, con riguardo anche ai costi sostenuti dal prestatore d’opera. Nello specifico, sono nulle le pattuizioni di un compenso inferiore:

  • agli importi stabiliti dai parametri o dalle tariffe per la liquidazione dei compensi dei professionisti iscritti agli ordini o ai collegi professionali, fissati con decreto ministeriale;
  • ai parametri determinati con decreto ministeriale ai sensi dell’articolo 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 24, per la professione forense. La proposta specifica che, per far valere la nullità della pattuizione e chiedere la rideterminazione giudiziale del compenso per l’attività professionale prestata solo il professionista (trattandosi di nullità di protezione) può impugnare – innanzi al tribunale del luogo ove egli ha la residenza o il domicilio – l’accordo di qualsiasi tipo (convenzione, contratto, esito della gara, predisposizione di un elenco di fiduciari etc.) che preveda un compenso inferiore ai predetti parametri. Il tribunale procede alla rideterminazione del compenso: secondo i parametri o le tariffe ministeriali in vigore relativi alle attività svolte dal professionista; tenendo conto dell’opera effettivamente prestata È prevista la possibilità per il tribunale di richiedere al professionista di acquisire il parere di congruità dell’ordine o del collegio professionale. Al riguardo si prevede:
  • che il parere di congruità costituisca piena prova in merito alle caratteristiche dell’attività prestata, all’importanza, natura, difficoltà e valore dell’affare, alle condizioni soggettive del cliente, ai risultati conseguiti, al numero e alla complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate;
  • che il tribunale non possa avvalersi, nel procedimento di rideterminazione del compenso, di consulenze tecniche.

Con un ulteriore comma aggiuntivo all’articolo 2233 del codice civile, la proposta prevede la nullità di qualsiasi pattuizione:

  • che vieti allo stesso professionista di pretendere acconti nel corso della prestazione; che imponga allo stesso l’anticipazione di spese;
  • che – comunque – attribuisca al committente o cliente vantaggi sproporzionati rispetto alla quantità e alla qualità del lavoro svolto o del servizio reso.

Il medesimo articolo 1, al comma 2, interviene sull’articolo 9 del decreto-legge n. 1 del 2012 (convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27): abrogando i commi 1 e 5 dell’articolo che dispongono a loro volta rispettivamente l’abrogazione delle tariffe delle professioni regolamentate (comma 1) e di tutte le disposizioni che, per la determinazione del compenso del professionista, rinviano alle suddette tariffe (comma 5); modificando il comma 2 del medesimo articolo 9 e prevedendo che, nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista sia determinato con riferimento alle tariffe o ai parametri vigenti all’epoca della prestazione, stabiliti con decreto ministeriale. L’articolo 2 stabilisce l’obbligo, per gli ordini e i collegi professionali, di adottare disposizioni deontologiche volte a sanzionare la violazione da parte del professionista:

  • dell’obbligo di pattuire un compenso equo e proporzionato alla prestazione professionale richiesta, in applicazione dei parametri o delle tariffe ministeriali;
  • dell’obbligo di informativa della nullità della pattuizione di un compenso iniquo, nei rapporti in cui gli accordi siano predisposti esclusivamente dal professionista.

L’articolo 3 prevede la possibilità che il parere di congruità emesso dall’ordine o dal collegio, in alternativa alle procedure di ingiunzione di pagamento (articoli 633 e seguenti del codice di procedura civile) e a quelle specifiche delle controversie in materia di liquidazione degli onorari e dei diritti di avvocato (articolo 14 del decreto legislativo n. 150 del 2011) acquisti l’efficacia di titolo esecutivo per il professionista, se rilasciato nel rispetto delle procedure, e se il debitore non abbia proposto opposizione ai sensi dell’articolo 702-bis del codice di procedura civile davanti all’autorità giudiziaria, entro 40 giorni dalla notificazione del parere stesso a cura del professionista. È infine precisato al comma 2 dell’articolo 3 che il giudizio di opposizione si svolga davanti al giudice competente per materia e per valore del luogo nel cui circondario ha sede l’ordine o il collegio professionale che ha emesso il parere di conformità. L’articolo 4 interviene sulla disciplina del termine di decorrenza della prescrizione dell’azione di responsabilità professionale, individuando nel giorno del compimento della prestazione da parte del professionista iscritto all’ordine o al collegio professionale, il relativo dies a quo. L’articolo 5 disciplina l’istituzione di un fondo, compartecipato dallo Stato, presso i singoli ordini territoriali per la copertura delle spese per i servizi professionali resi su questioni urgenti o indifferibili in favore dei soggetti meno abbienti. L’individuazione delle modalità di istituzione del fondo, dei requisiti per l’ammissione a esso e delle prestazioni professionali che possono essere finanziate, è demandata a regolamenti adottati dai Ministri competenti per i singoli ordini professionali, entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore della legge Infine l’’articolo 7 contiene una disposizione transitoria in base alle quali le norme di nuova introduzione si applicano, per le prestazioni rese dopo la data di entrata in vigore della legge, anche alle convenzioni sottoscritte prima di tale data e in corso alla stessa data. Con riguardo alle prestazioni in corso collegate alle convenzioni sottoscritte prima della data di entrata in vigore della legge, la proposta introduce un obbligo del professionista di avvisare l’altro contraente dell’applicazione delle nuove disposizioni. Si specifica tuttavia che l’inadempimento dell’obbligo è sanzionabile soltanto sul piano deontologico in via disciplinare.

Esaminate le citate più recenti proposte di riforma, va detto che, la consapevolezza della sussistenza di una tensione potenziale tra, da un lato, la necessità di un certo livello di regolamentazione delle professioni e, dall’altro, le regole della concorrenza imposte del Trattato, aveva condotto la Commissione europea già nel 2004 ad invitare gli Stati membri all’applicazione stringente del test di proporzionalità, successivamente previsto dalla Direttiva 2006/123 CE del Parlamento e del Consiglio Europeo relativamente ai servizi nel mercato interno (articolo 15) al fine di mantenere in vigore “esclusivamente regole oggettivamente necessarie per raggiungere obiettivi di interesse generale e costituenti la misura meno restrittiva della concorrenza”.

La citata Direttiva 2006/123 CE, infatti, vieta l’introduzione di nuovi requisiti restrittivi, quali le tariffe, salvo che gli stessi non rispettino le condizioni di non discriminazione, necessità e proporzionalità.

Quest’ultima condizione, in particolare, impone che le restrizioni di fonte normativa, quali quelle de iure condendo oggetto delle proposte esaminate, debbano essere tali da garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito, non debbano andare al di là di quanto è necessario per raggiungere tale obiettivo e che non debba essere possibile sostituire tali misure con altre meno restrittive che permettono di conseguire lo stesso risultato.

Sicchè, una eventuale riforma della regola sull’equo compenso che dovesse essere approvata in Parlamento dovrà necessariamente fare i conti con questi principi sovraordinati, onde evitare di nascondere, dietro la nuova veste dell’equo compenso, la reintroduzione di un meccanismo tariffario già cassato dalla Comunità Europea.

Nell’ottica della equilibrata relazione economica e normativa fra professionista e cliente forte o P.A., dunque, la valorizzazione costituzionale dei profili di libertà ed indipendenza del primo ed il richiamo ai principi desumibili dalla normativa di diritto speciale, volta a sanzionare fattispecie di abuso di diritto e posizione, potrebbero dare al progetto di riforma della norma sull’equo compenso, la possibilità di porsi quale strumento non di restrizione ma di garanzia della piena libertà negoziale e di quel gioco della concorrenza, per il professionista necessariamente emancipato dalle logiche di mero prezzo, che, proprio nella visione eurounitaria, costituiscono gli obiettivi fondanti le scelte legislative di protezione della posizione del contraente debole.

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Lavoro e crisi d’impresa

Il lavoro quale elemento cardine dell’ordinamento italiano non trovava adeguato spazio, né tutela nel sistema complesso delle procedure concorsuali. Il d.lgs. n. 14/2019, che ha profondamente riformato la materia concorsuale e introdotto il “Nuovo Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza” prevede, per la prima volta, una disciplina ad hoc per i rapporti di lavoro dipendente. L’opera si propone di analizzare l’evoluzione della rilevanza che la tutela del lavoro dipendente, ma non solo, ha assunto nella disciplina concorsuale, fondata finora prevalentemente sulla tutela del diritto di credito. La ricerca e la rilevanza di soluzioni conservative, alternative alla liquidazione dell’impresa, l’introduzione di sistemi di allerta tali da assicurare un tempestivo e più proficuo intervento nella gestione della crisi rappresenta la chiave di volta nell’individuazione di punti di contatto tra due materie che, finora, sono state delineate quali due rette parallele dirette al perseguimento di obiettivi diametralmente opposti. Questa una delle linee fondamentali della riforma che viene compiutamente illustrata comunque nella prospettiva della sua entrata in vigore.   Mariaelena Belvisoaffronta il tema della tutela del lavoro nella crisi d’impresa con una tesi di laurea in Giurisprudenza, dal titolo “Diritto del lavoro e diritto fallimentare: prospettive di dialogo”, votata con lode, presso l’Università LUMSA di Roma. Approfondisce tale tematica anche durante il tirocinio svolto, dal 2017 al 2019, presso la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione.

Mariaelena Belviso | 2020 Maggioli Editore

29.00 €  23.20 €

Avv. Monica Gallo

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