Qui l’indirizzo email di a.marcheselli@dirittopenitenziario.it
***
Introduzione. Le novità legislative della fine della XIII legislatura paiono aver ulteriormente dilatato la forbice esistente tra le forme di esecuzione penale esterna al carcere, per la quale sono stati previsti istituti e procedure innovativi, ed esecuzione (e cautela) penitenziaria, la cui rapida e certa attuazione appare un risultato desiderabile, nella mens legis di alcuni coevi interventi normativi.
La mente corre, sotto il primo aspetto, alle norme della legge 8 marzo 2001, n. 40 (Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori) o al decreto legge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito nella legge 19 gennaio 2001, n. 4, nella parte relativa alla utilizzazione del c.d. braccialetto elettronico. Sotto il secondo aspetto, è sufficiente pensare alle altre disposizioni contenute nel testo legislativo da ultimo citato, oppure alla disciplina, processuale e sostanziale, recata dalla L. 26 Marzo 2001, n.128 (Interventi legislativi in materia di tutela della sicurezza dei cittadini).
L’oggetto delle presenti riflessioni è solo una prima analisi della ricaduta in termini di concreta attuazione, della normativa concernente l’esecuzione penale, in particolare domiciliare.
1. Il sistema della esecuzione penale domiciliare. Una prima sicura tendenza legislativa è la proliferazione di forme di esecuzione della pena nella propria abitazione o in luogo di privata dimora. Ciò si è tradotto nella moltiplicazione esponenziale delle ipotesi di detenzione domiciliare.
Allo stato, il sistema normativo ne prevede, addirittura, 7 forme diverse: a) quella di cui all’art. 47 ter comma 1 (c.d detenzione domiciliare sanitaria); b) quella di cui all’art. 47 ter comma 1 bis (c.d detenzione domiciliare generica); c) quella di cui all’art. 47 ter comma 1 ter (c.d detenzione domiciliare umanitaria); d) quella di cui all’art. 47 quater; e) quella di cui all’art. 47 quinquies, comma 1 (c.d detenzione domiciliare speciale); f) quella di cui all’art. 47 quinquies ultimo comma, lettera (c.d detenzione domiciliare speciale prorogata); g) quella prevista per le persone che collaborano con la giustizia (Art. 16 nonies d.l.15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, come introdotto dall’art. 14 legge 13 febbraio 2001, n. 45).
L’attenzione sarà in questa sede limitata alla rassegna delle questioni ancora aperte, e delle innovazioni.
2. Detenzione domiciliare in genere.
2.1 Un primo problema in ordine al quale non risulta ancora un approfondimento sufficiente è quello concernente la possibile inflizione di prescrizioni positive. Il richiamo all’art. 284 c.p.p. parrebbe consentire al Tribunale di Sorveglianza (e al Magistrato di Sorveglianza, in via provvisoria) la sola imposizione dell’eventuale divieto di comunicare con terzi (comma 2 art. 284 c.p.p.) e, per il resto, consentirgli di derogare all’obbligo di permanenza presso la dimora, per esigenze indispensabili. Alla lettera, risulterebbe esclusa la possibilità di imporre altri obblighi (gli interventi del servizio sociale non parendo, nella norma, correlati all’imposizione di obblighi al condannato). Se tale assetto normativo può trovare una sua giustificazione razionale tutte le volte che sarebbe, comunque, applicabile l’affidamento in prova al servizio sociale, ordinario o terapeutico, di tal che, ogniqualvolta prescrizioni positive siano necessarie per il reinserimento sociale, dovrebbe applicarsi l’affidamento, non altrettanto pare per i casi di pena ultratriennale (ultraquadriennale, nel caso di affidamento terapeutico). La norma, così configurata, nel caso di assoluta necessità (per formulare una prognosi di non recidiva) di imposizione di prescrizioni positive (es. frequenza di presidi psichiatrici) non lascerebbe alternativa tra il rigetto della domanda (per persistente pericolosità sociale), ovvero concessione (con pericolo di recidiva). La violazione degli art. 3 e 27 Cost. appare evidente e assume particolare gravità concreta rispetto alla detenzione domiciliare di cui al comma 1 ter. Nella prassi, l’ostacolo formale appare superabile solo assumendo la condotta che, ipoteticamente, dovrebbe costituire oggetto della prescrizione come condizione della concessione della misura, al cui venir meno far conseguire al revoca ex comma 7 della disposizione. Ciò è possibile ove si intendano i fattori che sostengono la prognosi di non recidiva (e che sono sottesi alle prescrizioni medesime), come compresi implicitamente negli commi 1 e 1 bis. Permane, invece, la difficoltà applicativa, quanto alla fattispecie di cui al comma 1 ter, non richiamato nel comma 7. Tale discrasia è ancora più evidente, tenuto conto della simmetria esistente tra la detenzione domiciliare di cui al comma 1 ter e l’art. 147 c.p. tenuto conto del fatto che l’ultimo comma di recente aggiunto a tale norma, prevede la revoca del differimento della esecuzione della pena nel caso di sopravvenuto pericolo di commissione di reati.
2.2 Altro profilo innovativo è quello connesso al c.d. braccialetto elettronico La disposizione del comma 4 bis dell’art. 47 ter prevede che, tra le prescrizioni della misura, ci possa essere il controllo elettronico del detenuto, ove tecnicamente disponibile. Vista la dizione testuale e la collocazione sistematica, tale forma di controllo appare generalmente applicabile a tutte le ipotesi di detenzione domiciliare contemplate dall’articolo citato. Il fatto che il primo comma dell’art. 47 quater si riferisca alla detenzione domiciliare di cui all’art. in esame parrebbe rendere compatibile la misura con tale prescrizione. Più problematica è la soluzione quanto alla detenzione domiciliare speciale di cui all’art. 47 quinquies. La connotazione di specialità che la contraddistingue e l’assenza di richiami testuali potrebbero portare a ritenere inapplicabile la forma di controllo elettronico. Unica via per sostenere la tesi opposta è il ritenere generico e onnicomprensivo il richiamo alla detenzione domiciliare, nel comma 4 bis in rassegna.
Il riferimento all’art. 275 bis c.p.p. comporta che si proceda alla imposizione di tale forma di controllo quando sia necessario in relazione alla pericolosità del soggetto. E’ necessario il previo consenso del condannato. La norma del comma 2 dell’art. 275 configura un sistema nel quale l’ordinanza prevede la prescrizione e il condannato accetta o ricusa di sottoporvisi, in sede di notifica del provvedimento. Tale procedimento, compatibile con la procedura per l’inflizione della misura cautelare, appare decisamente farraginoso, se riferito al rito penitenziario. In particolare, realizzandosi il contraddittorio nel corso dell’udienza, non vi sono ragioni per ritenere che il consenso non possa essere verificato in tale sede. Poiché, nei casi in cui il Tribunale di Sorveglianza lo ritenga, tale misura costituisce una condizione della concessione, ove il consenso manchi, sarà legittimo il rigetto dell’istanza. Una tale soluzione consente una notevole semplificazione della procedura, evita duplicazioni (meccanismi di concessione – revoca), salvo il caso del rifiuto successivo di assoggettamento al controllo (o, comunque, venir meno del relativo consenso).
Non è espressamente regolata dalla normativa la questione della possibile applicazione del controllo elettronico in sede di applicazione cautelare della detenzione domiciliare, da parte del Magistrato di Sorveglianza, ai sensi del comma 1 quater della disposizione. Se il tenore letterale (con il riferimento al Tribunale di Sorveglianza) parrebbe far propendere per la tesi negativa, il carattere pienamente anticipatorio della pronuncia del Magistrato di Sorveglianza e l’insussistenza di ostacoli razionali e sistematici, fanno propendere per la soluzione positiva. Può osservarsi che, a seguire tale tesi, il meccanismo di applicazione verrebbe ad essere, per così dire naturalmente, nella fase cautelare, per l’assenza di contraddittorio, quello previsto dal comma 2 dell’art. 275 bis c.p.
Non è dubbio che in caso di venir meno del consenso o sottrazione al controllo la misura sia suscettibile di sospensione cautelare e, successivamente, di revoca. A tale reazione dell’ordinamento si aggiungerà la sanzione di cui all’art. 18 Decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341, convertito dalla Legge 19 gennaio 2001, n. 4, che punisce con la reclusione fino a 3 anni “Il condannato o la persona sottoposta a misura cautelare che, al fine di sottrarsi ai controlli prescritti, in qualsiasi modo altera il funzionamento dei mezzi elettronici o degli altri strumenti tecnici adottati nei suoi confronti, o comunque si sottrae fraudolentemente alla loro applicazione o al loro funzionamento”
2.3 In tema, infine, di applicazione provvisoria della detenzione domiciliare, va rilevato quato segue. Al comma 1 quater dell’art. 47 ter è prevista, nel solco tracciato dal testo del comma 4 dell’art. 47, la possibile applicazione provvisoria della misura. Sussiste la competenza territoriale del Magistrato di Sorveglianza del luogo di carcerazione.[1] Lo scrupolo legislativo, tendente ad escludere la possibilità di adozione di tale provvedimento nel caso di cui al comma 1 ter della disposizione in rassegna appare inequivoco, atteso l’omesso richiamo a tale disposizione. Unica possibile via di fuga alternativa è ritenere, come talora nella prassi, che si tratti di modalità di attuazione speciale del differimento della esecuzione della pena, con conseguente possibile applicazione porovvisoria ex art. 684. Tale scrupolo appare sostanzialmente contraddittorio. La ratio apparente (evitare scarcerazioni per pene anche molto lunghe – e in relazione a detenuti presumibilmente molto pericolosi – ad opera dell’organo monocratico, non assistito dagli esperti che compongono il Tribunale di Sorveglianza), non convince. Il Magistrato di Sorveglianza conserva, infatti, il potere, nelle identiche fattispecie e con i medesimi presupposti, di concedere il differimento dell’esecuzione della pena provvisorio ex art. 684 c.p.p.
Di un certo interesse i quesiti circa la competenza a provvedere agli atti di gestione della misura provvisoriamente applicata, nonché la possibilità di sospensione cautelare della medesima. Quanto alla competenza territoriale a provvedere alle modifiche delle prescrizioni della misura provvisoria, la S.C, ha ritenuto, con orientamento in via di consolidamento, vada attribuita al Magistrato di Sorveglianza che la ha provvisoriamente applicata.[2] Si tratta di conclusione non del tutto convincente sul piano formale (apparendo applicabile la competenza generale di cui all’art. 677 c.p.p. e quella speciale di cui al comma 4 dell’art. 47), presumibilmente fondata sul dato, pratico, della permanenza del fascicolo del detenuto domiciliare provvisorio presso il Tribunale di Sorveglianza del luogo di originaria carcerazione, fino alla decisione definitiva. Tale dato appare tuttavia poco cogente, ben potendosi ipotizzare (la trasmissione del fascicolo al Magistrato di Sorveglianza del luogo di esecuzione, dopo l’applicazione provvisoria e il permanere della competenza nanti il Magistrato di Sorveglianza a quo solo fino alla ricezione del fascicolo da parte del Magistrato di Sorveglianza ad quem.
Circa il potere di sospensione cautelare, non pare potersi trascurare la circostanza che si tratta pur sempre di detenzione domiciliare in esecuzione, ancorché provvisoria. Dovrebbe scaturirne la piena applicabilità e del comma 9 della norma in commento e dell’art. 51 ter. Dubbio potrà essere, semmai, se il dispositivo del Tribunale di Sorveglianza dovrà essere nel senso della revoca della misura o, posto che essa non è ancora stata applicata definitivamente dall’organo collegiale, di rigetto. La seconda soluzione appare più armonica con il sistema.
3. La detenzione domiciliare c.d. generica (art. 47 ter comma 1 bis).
La finalità perseguita è, evidentemente, quella di evitare la restrizione carceraria per i soggetti la cui pericolosità sociale possa essere contenuta (e il percorso di reinserimento sociale sostenuto) senza restrizione in carcere. Ne scaturisce, piana, anche l’individuazione del presupposto per la concessione. La pena scontabile in tale forma è quella (reclusione o arresto, ovvero reclusione sommata ad arresto) compresa fino al limite di 2 anni. Il beneficio è espressamente escluso (in forza di una presunzione juris et de jure di inidoneità al contenimento della pericolosità sociale) per i delitti di cui all’art. 4 bis o.p. Si può dire che, sul piano concettuale, la più grossa difficoltà creata dalla norma (e ancora irrisolta) sia nel rapporto con l’affidamento in prova al servizio sociale. La formula legislativa configura, manifestamente, l’affidamento come fattispecie dai requisiti più rigorosi e specifici, posto che la misura detentiva può concedersi se difettano i presupposti di questo. La differenza tra i due istituti sembra doversi trovare nel fatto che il nucleo centrale dell’affidamento in prova al servizio sociale è costituito dal suo carattere propulsivo, connesso alle prescrizioni anche di contenuto positivo, mentre la detenzione domiciliare, quantomeno nella forma ora in esame, appare di contenuto essenzialmente contenitivo e interdittivo. Se ciò è corretto, dovrà preferirsi l’affidamento in prova al servizio sociale tutte le volte che la rieducazione del condannato necessiti di prescrizioni del tipo predetto. Ne consegue che la corrente affermazione secondo cui la misura della detenzione domiciliare sarebbe più restrittiva (e limitata ai casi più gravi) non sarebbe sempre corretta.[3] Se la ricostruzione qui proposta è esatta, la detenzione domiciliare si porrebbe, per così dire, ai due estremi dell’affidamento in prova al servizio sociale, applicandosi, da un lato, ai casi in cui l’uscita dall’abitazione sia comunque fattore di pericolo di recidiva, dall’altro ai casi in cui non vi sia alcuna necessità di prescrizioni positive. Correlativamente, solo nel primo il Tribunale di Sorveglianza farà un uso restrittivo della autorizzazione all’uscita dalla dimora di cui all’art. 284 c.p.p. Coerente con tale ricostruzione è sia il fatto che il limite di ammissibilità della detenzione domiciliare sia in una pena massima di entità inferiore a quella di cui all’art. 47, sia che solo per l’affidamento in prova al servizio sociale sia possibile una revoca retroattiva.
4. La detenzione domiciliare c.d. umanitaria.
Accogliendo un suggerimento proveniente da gran parte della pratica e della dottrina, la legge 27 maggio 1998, n.165 ha introdotto la possibilità di concessione della detenzione domiciliare, senza limiti di pena, per i casi in cui sarebbe concedibile il differimento dell’esecuzione di cui agli artt. 146 e 147 c.p. Ciò consente, nei casi di incompatibilità delle condizioni personali con la carcerazione, di garantire una forma di contenzione sul condannato, non lesiva del suo prevalente diritto alla salute. I controlli inerenti la misura in esame, la possibilità della sua revoca (dal lato delle esigenze di pubblica sicurezza), nonché la computabilità, nella pena espiata, del periodo trascorso in tale regime (dal lato dell’interesse del condannato), fanno ritenere largamente preferibile l’istituto in esame. La detenzione domiciliare umanitaria ha un termine di durata prestabilito. Lo scopo della norma è, evidentemente, evitare la necessaria ammissione del condannato alla misura per tutta la durata della pena (che non è, tuttavia, esclusa ed è, anzi, opportuna nel caso di pena breve). Allo scadere del termine, in assenza di proroga (e senza bisogno di provvedimento espresso di revoca), non potrà che riespandersi la carcerazione, dovendo il Pubblico Ministero dovendo emettere l’ordine di carcerazione.
Considerato il fatto che la disposizione richiama, in generale, le fattispecie di cui all’art. 146 e 147 c.p. deve ritenersi concedibile la misura a termine anche con riferimento alla domanda di grazia (art. 147 n. 1 c.p.).[4]
5. La detenzione domiciliare nei casi di cui all’art. 47 quater o.p.
5.1. Lo strumento prescelto dalla disposizione è la concedibilità, indipendentemente dalla entità della pena espianda, della misura (dell’affidamento in prova al servizio sociale e) della detenzione domiciliare. L’effetto della disposizione parrebbe, allora, quello di estendere le disposizioni di cui agli art. 47 e 47 ter, aggiungendo loro una ulteriore fattispecie. La tecnica legislativa non è diversa da quella utilizzata nell’art. 16 nonies d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito nella legge 15 marzo 1991 n. 82, come modificato dall’art. 14 Legge 13 febbraio 2001, n. 45, rispetto alle persone che collaborano con la giustizia e sottoposte a programma di protezione. Con disposizione innovativa, la misura è applicabile anche alle persone in esecuzione di misura di sicurezza detentiva.
5.2. Non pare dubbio che il “giudice” di cui alla norma vada individuato nel Tribunale di Sorveglianza. Il fatto che la norma sia costruita come l’introduzione di una fattispecie ulteriore di affidamento in prova al servizio sociale o detenzione domiciliare, in combinato disposto con la disposizione dell’art. 70 o.p, non lascia, infatti, dubbi al riguardo.
5.3. Perché la norma sia applicabile occorre: a) che si tratti di persona in condizioni di AIDS conclamata o grave immunodeficienza, così come definite nel decreto ministeriale di cui al comma 2 dell’art. 286 bis c.p.p.; b) che si tratti di persona che ha in corso o intende sottoporsi a un programma di cura e assistenza presso strutture ospedaliere, universitarie o, comunque, unità operative prevalentemente impegnate nell’assistenza ai casi di AIDS. Sul piano documentale, è necessario che c) sia allegata la certificazione del Servizio Sanitario Pubblico o del Servizio Sanitario penitenziario, circa la sussistenza dei due presupposti predetti e la concreta attuabilità del programma. Tale ultimo riferimento si salda con l’interrogativo circa il carattere vincolato (all’accertata sussistenza dei tre rigidi presupposti appena enunciati) o discrezionale del provvedimento del Tribunale di Sorveglianza. Da un lato, la previsione del comma 5 (anche in correlazione con il comma 7), parrebbe limitare i possibili casi di rigetto del beneficio alla sola ipotesi della pregressa fruizione di analogo beneficio e di sua revoca da meno di un anno. Dall’altro, il riferimento alla “concreta attuabilità” del programma di cura e assistenza appare aprire la via a valutazioni di merito.
Sulla falsariga di quanto ormai univocamente ritenuto dalla giurisprudenza, anche di legittimità, in tema di “idoneità” del programma riabilitativo, in materia di affidamento terapeutico in prova al servizio sociale,[5] non pare potersi dubitare del potere del Tribunale di Sorveglianza di valutare, autonomamente, se il programma di cura e assistenza sia concretamente attuabile. Problematico è, semmai, quale sia l’esatta portata di tale attuabilità. Deve sottolinearsi che, a differenza che nella norma relativa all’affidamento in prova al servizio sociale terapeutico, manca il riferimento, come causa ostativa, al fatto che il programma sia preordinato strumentalmente all’ottenimento della scarcerazione, ovvero qualsivoglia riferimento al contenimento del pericolo di recidiva. Sul piano strettamente letterale, la misura sembrerebbe allora concedibile anche nell’ipotesi in cui il programma clinico risulti concretamente attuabile ma, nel contempo, probabile la recidiva nel delitto, salvo il solo caso della pregressa revoca di analogo beneficio. Una tale soluzione presenterebbe, tuttavia, elementi di potenziale contrarietà alla funzione costituzionale della pena. Il fine rieducativo e preventivo è, per costante insegnamento, necessariamente sotteso anche alle forme alternative di esecuzione. Si noti, a fortiori, che il riferimento alla pericolosità sociale, come possibile elemento ostativo alla concessione di benefici, si trova anche nell’applicazione costante e vivente del beneficio ancorato ai presupposti più eccezionali di tutto il sistema della esecuzione penale, il differimento dell’esecuzione della pena, ed è stato espressamente introdotto nella relativa disciplina dalla Legge 8 marzo 2001, n. 40.
In tale direzione appare, comunque, muoversi il comma 9 in rassegna, a mente del quale non è applicabile il divieto di concessione dei benefici di cui all’art. 4 bis, ma la decisione è ancorata agli accertamenti circa la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata. Appare evidente, pena una contraddizione evidente, che la sussistenza di tali elementi potrà costituire motivo di rigetto della domanda. Il senso della disposizione, nella parte in cui esclude l’operatività del divieto, è quello di rimettere al Tribunale di Sorveglianza la ponderazione, caso per caso, della prevalenza dell’aspetto sanitario o di quello preventivo. Quanto al motivo ostativo della revoca infrannuale (comma 5 della disposizione), resta da determinare la portata del riferimento alla “misura analoga”. Certamente analoghi sono l’affidamento in prova al servizio sociale ordinario o la detenzione domiciliare concessi i base alla norma medesima. E’ dubbio se lo siano le stesse misure concesse nei casi ordinari, ovvero la semilibertà, l’affidamento in prova al servizio sociale terapeutico. Considerata la ratio della norma (precludere la nuova concessione a chi abbia già abusato della possibilità di cura), due sono le possibili soluzioni. La prima, configura come ostativa la revoca dei soli benefici che concretamente avessero (in relazione al contenuto delle prescrizioni) una funzione di assistenza medica (essenzialmente la detenzione domiciliare di cui al comma 1 o 1 ter dell’art. 47 ter). La seconda, più severa, ricomprende anche la revoca dei benefici compatibili con la (ancorché non preordinati alla) cura (essenzialmente, affidamento ordinario e terapeutico). Certamente escluse dalla dizione della norma, perché non analoghe sotto il profilo della natura di misura alternativa, la libertà controllata, la semidetenzione e le misure di sicurezza.
5.4. Non chiara è l’ampiezza delle prescrizioni irrogabili. Il riferimento all’art. 47 contenuto nel primo comma e il fatto che il comma 3 preveda prescrizioni “anche” relative alle modalità di esecuzione del programma fa propendere per l’applicabilità del ventaglio di prescrizioni di cui all’art. 47 o.p. Il combinato disposto dei due commi appena citati appare superare l’ostacolo costituito dal richiamo residuale al solo art. 47 ter, contenuto nel comma 8. A proposito di revoca, la disposizione del comma 6 pone il problema se essa limiti o meno la caducazione del beneficio ai soli casi contemplati (imputazione o sottoposizione a misura cautelare per delitti di cui all’art. 380 c.p.p.). Nel secondo caso, la disposizione sarebbe pleonastica. Nel primo, apparirebbe contraddittoria e non del tutto conforme al canone di ragionevolezza. L’imposizione di prescrizioni, senza che sia possibile l’unica sanzione tipica, (la revoca) per la relativa violazione, appare costituire un sistema sbilanciato, che impedirebbe al Tribunale di Sorveglianza l’adozione di provvedimenti restrittivi, pur in presenza della ragionevole e concreta probabilità di progressione del condannato verso la recidiva. L’unica opzione interpretativa differente è quella che ritiene la revoca per violazione delle prescrizioni effettuabile attraverso il richiamo all’art. 47 ter, comma 6 contenuto nel comma 8 della norma in commento. Tale conclusione deve però passare per la presupposta affermazione del carattere solo esemplificativo della disposizione del comma 6 dell’art. 47 quater.
Totale silenzio serba la disposizione sulla possibilità di sospensione cautelare della misura. La genericità della previsione dell’art. 51 ter e la configurazione della fattispecie in esame come fattispecie particolare di affidamento in prova al servizio sociale o detenzione domiciliare fa propendere per l’adottabilità del relativo provvedimento, nei casi di possibile revoca.
Non è, invece, prevista, la possibilità di applicazione provvisoria della misura da parte del Magistrato di Sorveglianza, a differenza di quanto previsto per l’affidamento in prova al servizio sociale e la detenzione domiciliare ex art. 47 ter commi 1 e 1 bis.
6. La detenzione domiciliare speciale (art. 47 quinquies, comma 1).
6.1. Perché il beneficio sia concedibile occorrono le condizioni seguenti. Condizioni positive sono: a) la presenza di prole inferiore a dieci anni; b) la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, mercé il beneficio di che trattasi; c) l’avvenuta espiazione di un terzo della pena, ovvero 15 anni, nel caso di ergastolo; d) il non ricorrere dei presupposti della concessione della detenzione domiciliare di cui all’art. 47 ter; e) l’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti; f) il fatto che la madre non sia stata dichiarata decaduta dalla potestà dei genitori, ai sensi dell’art. 330 c.c.
Alcuni di tali presupposti meritano un certo approfondimento. In primo luogo, il riferimento alla possibilità di ripristinare la convivenza con i figli parrebbe comportare la attuale condizione di detenzione della madre. Tale presupposto non risulta altrimenti dalla lettera della disposizione (che, a differenza di quanto previsto per il padre, al comma 7, si riferisce alle madri “condannate” e non alle madri “detenute”). Invero, sul piano razionale e sistematico, l’esigenza di non spezzare la convivenza potrebbe ritenersi di ugual pregio, rispetto alla ricostituzione del nucleo familiare. La norma ben potrebbe, in ipotesi, applicarsi a persone in attuale stato di libertà, per effetto della sopraggiunta definitività della sentenza di condanna, dopo il termine della custodia cautelare, oppure, al termine di un differimento della esecuzione della pena precedentemente concesso. La necessità di instaurare una – anche solo brevissima – carcerazione, per quanto coerente con la lettera della norma, appare poco convincente sul piano sistematico.
Quanto alle quote pena, sono valorizzabili, le considerazione formulabili, e oggetto di consolidato approfondimento, a proposito del beneficio della semilibertà. E’ interessante osservare, peraltro e a differenza di quanto stabilito per la semilibertà, che tali quote pena non sono differenziate per i reati di cui all’art. 4 bis o.p.
Il fatto che la disposizione in esame sia applicabile ove non ricorrano i presupposti della detenzione domiciliare di cui all’art. 47 ter ne svela il carattere eminentemente residuale. Vista la dizione del comma 1, lettera a) dell’art. 47 ter, la differenza tra le due disposizioni appare, essenzialmente, nella entità (ultraquadriennale, per il caso in esame) della pena espianda.
La condizione della idoneità della misura a contenere il pericolo di recidiva nel delitto costituisce l’esplicitazione dell’analogo presupposto – non letterale – che la giurisprudenza pone a base dell’art. 47 ter.
6.2 Un aspetto problematico risulta correlato al difficile coordinamento della previsione della disposizione dell’art. 6 L. 8 marzo 2001, n. 40, con l’art. 7 della medesima legge. La prima prevede che la dichiarazione di decadenza della potestà genitoriale, ai sensi dell’art. 330, è ostativa alla concessione o prosecuzione del beneficio. L’art. 7 citato, invece, prevede che la concessione del medesimo importa la sospensione delle pene accessorie della decadenza della potestà dei genitori e della sospensione della potestà medesima. L’apparente contraddizione consiste nel fatto che la decadenza della potestà dei genitori viene, da un lato contemplata come ostativa alla concessione, e dall’altro, superata dalla concessione medesima. Tale contraddizione risulta avvertita anche nei lavori preparatori della L. 40/2001 (Camera dei Deputati, II Commissione Permanente, seduta 22 febbraio 2001), ma non risolta. L’unica ratio plausibile, per un ginepraio interpretativo frutto di grave imperizia tecnica, riconosciuta dagli stessi lavori appena citati, è quella, da un lato, di non concedere un beneficio per la cura dei figli a chi se ne sia dimostrato concretamente indegno, facendo salve le ipotesi in cui tale giudizio di indegnità derivi da previsioni generiche della legge penale. Il caso avuto essenzialmente di mira è quello della condanna all’ergastolo (art. 34 e 32 c.p.). Il senso della norma dell’art. 7 dovrebbe essere, allora, quello di mantenere la concedibilità della disposizione quando la decadenza dipenda non da una valutazione ad hoc del giudice civile, ma dall’applicazione, astratta, della sanzione accessoria penale. Come è stato rilevato negli stessi lavori preparatori, la formulazione prescelta tradisce gravemente lo scopo perseguito. Innanzitutto, non è previsto come ostativa l’inflizione della sospensione dell’esercizio della potestà, che pure può conseguire a fatti commessi con abuso della potestà medesima (art. 34, comma 2 c.p.). A quanto pare, e del tutto contraddittoriamente, il Tribunale di Sorveglianza potrà rifiutare la concessione solo valorizzando il fatto che il figlio sia stato, in concreto, affidato ad altri. Nel caso di cui all’art. 147 c.p., la previsione sul pericolo di recidiva dovrebbe, invece, rendere più agevole il rigetto, valorizzando il pericolo di recidiva, eventualmente proprio di lesioni ai danni dei figli. Ancor più grossolano è il difetto di coordinamento della norma con quella dell’art. 609 nonies c.p., visto che, alla lettera, non è ne risulta ostativa all’obbligo di scarcerazione della madre – per la cura dei figli – la sua condanna per reati sessuali ai loro danni. Ciò determina la massima rilevanza pratica della adozione dei provvedimenti di cui all’art. 330 c.c. da parte del Tribunale per i Minorenni, indipendentemente dall’effetto della condanna penale. E’ da domandarsi, a fronte di una istanza di applicazione dell’art. 146 c.p. per casi simili (o, in via di urgenza, 684 c.p.p.), rispettivamente il Tribunale di Sorveglianza e il Magistrato di Sorveglianza possano investire incidentalmente il Giudice Minorile. La soluzione positiva, per quanto dubbia, è l’unica in grado di superare un impasse interpretativo, altrimenti non agevolmente risolvibile, e potenzialmente produttivo di situazioni di gravissimo rischio.
6.3. Poiché il comma 1 quater dell’art. 47 ter non contiene un rinvio alla misura alternativa in esame, dovrebbe risultarne esclusa la possibilità di applicazione in via provvisoria ad opera del Magistrato di Sorveglianza. Tale soluzione appare, tuttavia, assai meno stridente con principi di coerenza complessiva del sistema, di quanto non sia quella, analoga, concernente la detenzione domiciliare di cui al comma 1 ter dell’art. 47 ter. Da un lato, infatti, tale ultima misura concerne situazioni che possono avere le caratteristiche di urgenza assoluta (assai maggiore di quella inerente la fattispecie in esame), dall’altro, il sistema è coerente perché per la detenuta madre di prole infradecennale non è prevista la possibilità di disporre il differimento della esecuzione della pena. Viene quindi meno, nella specie, la irrazionalità che si individuava supra, a proposito della detenzione domiciliare per il caso di infermità fisica gravissima: quella di non consentire l’applicazione della misura più restrittiva (la detenzione domiciliare provvisoria), in un sistema che ammette, contraddittoriamente la scarcerazione sine vinculis, per lo stesso caso, ex art. 684 c.p.p.
Per quel che attiene le prescrizioni e il contenuto della misura deve osservarsi, in primo luogo che, pur rimanendo la misura sul troncone dell’art. 47 ter, la norma prevede, per così dire fisiologicamente, spazi di uscita dal luogo di detenzione, in evidente connessione con le esigenze di cura della prole. In secondo luogo, risulta leggermente diversa la dizione concernente l’intervento del servizio sociale (“detta le prescrizioni relative agli interventi del servizio sociale,” in luogo di “impartisce altresì le disposizioni per gli interventi del servizio sociale”). Solo la pratica attuazione della disposizione potrà consentire di accertare la eventuale maggiore compatibilità della disposizione innovativa con la imposizione di prescrizioni positive a carico della detenuta domiciliare. In terzo luogo, sempre in correlazione con la particolare natura del beneficio, la norma prevede, al comma 5, un più ampio coinvolgimento del CSSA, come organo di supporto e controllo.
6.4. Salvo l’ipotesi di uscita dalla abitazione disciplinata dall’art. 47 sexies o.p., va osservato che, oltre alla fattispecie della condotta contraria alla legge o alle prescrizioni dettate, formulazione coincidente con quella di cui all’art. 47 ter, è prevista una speciale causa dall’art. 6 della Legge 8 marzo 2001 n. 40, il cui comma 2 recita: “Nel caso che la decadenza intervenga nel corso dell’esecuzione della misura, questa è immediatamente revocata”. Curiosamente, la norma non contempla le altre ipotesi, naturali o giuridiche che comportino il venir meno della necessità di cura parentale (morte, abbandono, affidamento ad altri del figlio, ecc.). Tale previsione, contraddittoriamente, compare solo nella disciplina innovativa degli artt. 146 e 147 c.p. L’unico modo per evitare un approdo applicativo del tutto irrazionale è ritenere che tali fatti possano essere valorizzati o come violazioni delle prescrizioni e di legge (le condotte di abbandono) o come il venir meno del presupposto fondante la misura.
7. La detenzione domiciliare speciale “prorogata”.
La norma dell’art. 47 quinquies prevede che, al raggiungimento del decimo anno di età o sia prorogata la misura, se ricorrono le condizioni, quanto a pena espiata, previste per la semilibertà, ovvero disporre l’ammissione alla assistenza all’esterno dei figli minori, ai sensi dell’art. 21 bis o.p.
Tre sono le osservazioni da svolgere. La prima, che la norma salda, in modo del tutto innovativo, attraverso tale proroga, la detenzione domiciliare alla semilibertà. In effetti, più che di proroga della detenzione domiciliare speciale, si configura, nella specie, una ulteriore forma di detenzione domiciliare, riservata a chi abbia fruito della detenzione domiciliare di cui al primo comma dell’art. 47 quinquies. La seconda, che la disciplina restrittiva per i reati di cui all’art. 4 bis o.p., per quel che attiene le c.d quote pena, non applicabile in sede di prima concessione della misura in esame, è valorizzabile, ai fini della proroga. La terza, che non è menzionata espressamente la conseguenza del non ricorrere dei presupposti né della proroga, né dell’ammissione all’assistenza esterna. Essa non può che essere la carcerazione della condannata. Tecnicamente, questa si dovrebbe far conseguire al carattere temporaneo del beneficio di cui al comma 1 della norma in rassegna.
8. La detenzione domiciliare per i collaboratori di giustizia.
In proposito, è assai interessante osservare che la nuova disciplina del regime sanzionatorio nei confronti delle persone che collaborano con la giustizia[6] ha incentrato il regime di esecuzione esterna (e premiale) proprio sulla detenzione domiciliare. I benefici su cui è costruito il sistema risultante dalla recente riforma sono proprio, in ordine di crescente ampiezza, i seguenti tre: i permessi premio, la detenzione domiciliare e la liberazione condizionale.
I presupposti per la concessione, anche in deroga alle disposizioni ordinarie, anche in punto limiti di pena, di tali benefici: sono a) la collaborazione, anche successiva alla condanna, per ciò intendendosi condotte che possano valere attenuanti previste dal codice o dalla legge penale;[7] b) l’importanza della collaborazione;[8] c) ove la collaborazione prestata dopo la sentenza di condanna concerna delitti diversi da quelli per cui la condanna è intervenuta, il fatto che l’impianto accusatorio fondato sulle dichiarazioni sia già stato assunto a base, almeno, di una sentenza di primo grado; d) sia accertato il ravvedimento; e) non sussistano elementi di collegamento con la criminalità organizzata o eversiva; f) nel termine di 180 giorni dalla manifestazione della volontà di collaborare il soggetto abbia effettuato le sue dichiarazioni e queste siano state compiutamente verbalizzate ai sensi di legge;[9] g) (requisito non richiesto per la concessione del permesso premio) sia stato espiato ¼ della pena, ovvero 10 anni, nel caso di ergastolo.
Rinviando a sede più acconcia per ogni approfondimento sull’impianto del sistema sanzionatorio originato da tali disposizioni e limitandosi in questa sede ad alcune notazioni, congrue all’oggetto della riflessione, non è chi non veda come la forma di detenzione domiciliare in esame si presenti con connotazioni del tutto speciali. Il legislatore ha ricercato con essa (più ancora che con il permesso premio o la liberazione condizionale) il difficile punto di equilibrio tra la ritenuta necessità delle condotte collaborative, per un contrasto efficace dei fenomeni di più allarmante criminalità, da un lato, e la esigenza di non abdicare alla pretesa punitiva per gli autori di gravi delitti. Le due finalità predette, come evidente, presentano una innegabile e consapevole contraddittorietà, dovendosi accedere a un’ottica cospicuamente premiale, perché la collaborazione sia appetibile e, nel contempo, (e all’opposto) conservare un certo rigore per preservare il carattere sanzionatorio degli istituti coinvolti e le connesse esigenze di prevenzione. Nella prima direzione va, come evidente, la possibilità di applicare i benefici anche in deroga ai limiti di pena e ai presupposti generali. Nella seconda, la previsione di una pena minima espianda (salvo che per la concessione dei permessi premio). Una serie di previsioni normative tendono, invece, ad assicurare la serietà e non strumentalità dell’atteggiamento collaborativi, anche per le evidenti e correlate ragioni di preservazione della pubblica sicurezza. In tale direzione si muovono, ad esempio, la previsione di un obbligo di collaborazione “a tutto campo”, da esaurirsi in sei mesi, la non sussistenza di persistenti collegamenti con la criminalità organizzata, la revoca dei benefici in caso di accertata mendacità delle dichiarazioni o recidiva nel delitto. Ma, soprattutto, attira l’attenzione, nella previsione normativa, il riferimento al necessario previo accertamento del ravvedimento del colpevole. Solo la pratica attuazione dirà se con esso si sia voluta richiedere, per l’accesso ai benefici di legge, una profonda ed effettiva revisione critica, una ristrutturazione del sistema di valori dell’individuo, ovvero – e più semplicemente – la rescissione oggettiva dall’ambiente personale, familiare, sociale, criminogeno. Per quanto il termine utilizzato appaia, in prima battuta, tradizionalmente riferibile, con maggiore proprietà, alla prima delle due accezioni segnalate (e la giustapposizione di esso alla collaborazione e al venir meno dei collegamenti sembri di doverlo intendere riferito a un quid pluris), è sostenibile anche la seconda di esse. E’ innegabile che tra le due possibili impostazioni corre una differenza enorme sotto il profilo concettuale. Tale differenza corrisponde a una notevolissima differenza del tasso di selettività da applicarsi nella ammissione ai benefici, potenzialmente produttiva di rilevantissime conseguenze pratiche.
Il contenuto della detenzione domiciliare in esame non è disciplinato in alcun modo dalle disposizioni in rassegna, che si limitano a stabilire che il Tribunale di Sorveglianza determini le prescrizioni, sentiti gli organi che provvedono alla tutela e alla protezione.
Poiché la concessione dei benefici in esame è sganciata dal requisito formale della sottoposizione al programma di protezione, dovrebbe ritenersi superato il problema della sorte da riservare alla misura alternativa ove questo venga meno, per il venir meno delle situazioni di pericolo, senza alcun addebito a colpa del condannato.[10]
Da ultimo, può essere utile rilevare che la normativa tace in ordine alla utilizzabilità, in questi casi, del c.d. braccialetto elettronico. Come sopra si rilevava, unica via per affermarne l’utilizzabilità è, nel silenzio della legge, il ritenere che il riferimento contenuto al comma 4 bis dell’art. 47 ter o.p. abbia carattere generale, comprensivo di ogni forma di detenzione domiciliare.
9. Le prospettive.
La breve panoramica che precede sembra dimostrare che, nell’ordinamento giuridico italiano esiste già, per quanto non ancora avvertito con universale consapevolezza da tutti gli operatori del settore, un corpo di norme costituenti il sistema (?) della esecuzione penale extracarceraria. Ciò è tanto più vero, attese le corpose novità normative di fine della XIII legislatura. Tale conclusione, che ci pare ferma sul piano dell’analisi giuridica, trova, del resto, una rilevante conferma anche sul piano fattuale e statistico, se è vero che, dopo una lunga rincorsa, il peso numerico delle sanzioni espiate in forma extracarceraria ha, negli ultimi anni, prima raggiunto e, poi, superato quello delle pene in esecuzione penitenziaria.[11]
Poste queste premesse, non si possono eludere gli interrogativi che la dottrina più recente ha cominciato, insistentemente a porre.[12] Con un certo tasso di provocatorietà, essi possono così sinteticamente riassumersi: a) può ancora ragionevolmente escludersi che il processo penale sia, in fatto, un processo (almeno in parte) bifasico?;[13] b) le risorse di personali e mezzi assegnati ai Tribunali di Sorveglianza (e la relativa percezione, da parte financo degli operatori giuridici) sono congrue alla gestione, già in atto, di un siffatto sistema?; c) è congrua all’espletamento di tali funzioni l’attribuzione delle funzioni di Pubblico Ministero a un organo non specializzato?; d) le macroscopiche discrasie e i difetti di coordinamento che ormai si moltiplicano nella Legge di Ordinamento penitenziario, non renderebbero i tempi maturi per una risistemazione globale e la redazione di un Testo Unico della Esecuzione Penale?; e) per gli irrinunciabili compiti di garanzia della esecuzione penitenziaria, che tale tendenza legislativa rischia di mettere gravemente in ombra, è ancora congruo un sistema che non attribuisce strumenti per garantire l’ottemperanza amministrativa delle decisioni del Magistrato di Sorveglianza ?
Se non ci inganniamo, il Diritto Penitenziario (della Esecuzione Penale, o comunque lo si vorrà chiamare) sarà una delle disciplina regine del prossimo futuro.
Alberto Marcheselli
Note:
[1] Cass. sez. I, 5 gennaio 1999, confl. comp. in proc. Litrico, in Ced Cass. rv. 212582
[2] Cass. sez. I, 17 marzo 1999, rv. Confl.comp.in proc.Franceschi, in Ced Cass. 213058, Cass. sez. I, 13 gennaio 2000, confl. comp. in proc. Campagna, in Ced Cass., rv 215383)
[3] L’orientamento in esame si trova, a proposito della detenzione domiciliare “sanitaria”, in Cass. sez. I 5 luglio 1990, Cuccatto, in Ced Cass. rv. 184986, nonché Cass. sez. 1 14 marzo 1988, Pepe, in Ced Cass. rv. 178120
[4] Cass. sez. I, 10 gennaio 2000, in Ced Cass., rv 215935
[5] Cass. Sez. I, 30 maggio 1997, Leonardi in Ced Cass. rv. 207990
[6] Art. 16 nonies d.l.15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, come introdotto dall’art. 14 legge 13 febbraio 2001, n. 45, “Modifica della disciplina della protezione e del trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia nonché disposizioni a favore delle persone che prestano testimonianza”.
[7] Art. 16 nonies, comma 1, d.l.15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, come introdotto dall’art. 14 legge 13 febbraio 2001, n. 45.
[8] Art. 16 nonies, comma 4, citato.
[9] Art. 16 quater d.l.15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, come introdotto dall’art. 14 legge 13 febbraio 2001, n. 45.
[10] Ipotesi che nel regime previdente, come noto, ha dato vita a notevoli dubbi applicativi e, financo, a serie perplessità di rilevo costituzionale, sfociate, da ultimo nella sentenza 7 giugno 1999 n. 227 della Corte Costituzionale.
[11] Stando ai dati di cui al primo semestre 2001, a fronte di oltre 30 mila persone in esecuzione della pena in forma extracarceraria, era in espiazione della pena all’interno del carcere un numero di condannati non molto superiore a 25 mila.
[12] Si allude, in principalità, alle tesi di Monteverde, sostenute e argomentate nel contesto degli incontri di formazione professionale per magistrati, in materia di diritto dell’esecuzione penale, organizzati dal Consiglio Superiore della Magistratura nel Corso del 2000.
[13] Per tale intendendosi, notoriamente, un processo in cui la fase di accertamento della responsabilità penale è scissa da quella della determinazione del relativo trattamento sanzionatorio.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento