L’esercizio di attività economica degli enti no-profit

Redazione 25/09/04
di Flavio Rivellini

Con il termine enti no-profit, espressione anglosassone, si individuano tutte quelle organizzazioni private senza scopo di lucro che forniscono servizi soprattutto di tipo assistenziale, ricreativo e culturale ed in cui gli utili sono destinati a fini solidaristici o mutualistici. Gli enti no-profit, o non profit, costituiscono il cosiddetto terzo settore che va acquistando una valenza sempre maggiore non solo perché rappresenta la risposta, autogenerata dalla collettività, a bisogni che le pubbliche amministrazioni si sono dimostrate incapaci di soddisfare, ma anche per la sua incidenza nell’economia nazionale, soprattutto da un punto di vista occupazionale.

Gli enti no-profit si vanno sempre più diversificando sui settori di utilità sociale come l’assistenza (le comunità per tossicodipendenti, le associazioni di volontariato ospedaliero) la tutela dei diritti civili, dell’ambiente e dei beni culturali. Il fenomeno organizzativo è caratterizzato dal fatto che una pluralità di individui dà vita ad un ente per il perseguimento di specifiche finalità pur sempre perseguibili dai singoli ma a condizioni meno favorevoli o con iniziative ridotte per quantità ed ampiezza. Un criterio di distinzione fondamentale degli enti si basa sullo scopo perseguito. Ve ne sono alcuni che perseguono uno scopo di lucro ed enti che perseguono uno scopo ideale. Tale ultimo tipo di scopo può essere perseguito mediante l’utilizzazione di diversi tipi giuridici a seconda dello schema adottato:lo schema associativo, basato sul patrimonio di destinazione (fondazioni e comitati), e, in casi particolari, lo schema societario (cooperative). Va aggiunto che l’associazione si differenzia dalla fondazione, a cui non è connaturato lo scopo egoistico, in quanto persegue un interesse non economico, sia egoistico, cioè dei soli associati, sia, necessariamente se riconosciuta o di promozione sociale, altruistico.

L’ultima frontiera degli enti non-profit è rappresentata da due ultimi tipi di enti non-profit: l’organizzazione di volontariato (persegue finalità di carattere sociale, civile e culturale per il tramite degli aderenti prestando la loro opera in modo personale, spontaneo e gratuito esclusivamente per fini di solidarietà), l’ associazione di promozione sociale (persegue fini di utilità sociale a favore degli associati o di terzi senza finalità di lucro).

Talvolta l’ente no-profit, pur avendo fini altruistici, svolge in via prevalente od esclusiva un’attività commerciale lucrativa, la quale o realizza i fini stessi in via diretta o permette di perseguirli con la destinazione degli utili. In tal caso l’ente assume la qualità di imprenditore commerciale? Si ritiene di si, anche se vi sono incertezze sull’applicabilità dello statuto dell’imprenditore commerciale; oltretutto la qualità di imprenditore commerciale viene negata, secondo la dottrina dominante, nel caso in cui l’ente si limiti ad utilizzare i proventi di un’attività imprenditoriale svolta da una società pur se controllata, collegata o collaterale. Da quanto detto si evince una sostanziale neutralità delle forme giuridiche rispetto ai contenuti economici e quindi all’attività svolta, infatti anche gli enti no-profit esercitano impresa. Sul piano funzionale,quindi, gli enti del primo libro destinano gli utili prodotti al perseguimento degli scopi altruistici ovvero li reinvestiranno nell’attività (lucrativa) che realizza direttamente lo scopo ideale, senza distribuirli tra i membri. Vi sarà una “autodestinazione” dei risultati configgente all’ “eterodestinazione” dei risultati propria degli enti del quinto libro.

Il perseguimento di uno scopo altruistico non impedisce che tali enti esercitino, quindi, un’attività d’impresa. Ma come si fa a conciliare lo scopo di lucro dell’impresa con lo scopo altruistico? In realtà la questione non si pone; l’impresa non necessita di uno scopo lucrativo, ma solo dell’ “economicità della gestione” che può coesistere con l’assenza di scopo lucrativo. Un’attività sarebbe, dunque, economica non solo per il fine cui è diretta, quello della produzione di beni e servizi, ma anche per le modalità con cui è svolta ovvero modalità di gestione idonee a reintegrare i costi attraverso i ricavi nel lungo periodo. Il principio della lucratività imprenditoriale anche solo in senso “oggettivo”, modalità di esercizio astrattamente lucrative, sarebbe riaffermato da parte della dottrina partendo dalla gratuità del contratto di deposito ex art. 1767 c.c.: “(Presunzione di gratuità). Il deposito si presume gratuito, salvo che dalla qualità professionale del depositario o da altre circostanze si debba desumere una diversa volontà delle parti”, vi sarebbe una oggettiva incompatibilità tra prestazione gratuita e professionalità, cioè, di regola, “imprenditorialità”.

L’economicità dei criteri di conduzione e non lo scopo di lucro è l’elemento comune a tutta la tipologia d’impresa. Alcuni autori, tra cui il Bigiavi, ritengono solo necessario che lo scopo di lucro non sia palesemente e dichiaratamente rigettato. A tal proposito è possibile richiamare la Cassazione n. 12599/00; si tratta di una fusione per incorporazione tra banche, l’incorporante prevede che una certa percentuale degli utili venga destinata ad opere cattoliche ed agli azionisti per la parte residua. Degli azionisti impugnano la delibera, ma la Cassazione ne conferma la liceità in quanto lo scopo lucrativo esiste e non è compromesso dal fatto che si prevedono delle erogazioni, in tal modo si è richiamata l’attenzione sulla commistione, sulla contaminazione tra scopi, un tema attuale che sfocia nella disciplina delle trasformazioni societarie.

Ritornando al tema in questione si ci pone la domanda di quale sia il rapporto “quantitativo” dell’esercizio d’impresa per gli enti del primo libro. L’esercizio di attività commerciale da parte di tali enti, pur presentando sempre carattere strumentale rispetto allo scopo istituzionale perseguito, può costituire anche l’oggetto esclusivo o principale. In tali casi è fuori di dubbio che l’ente acquista la qualità di imprenditore commerciale restando esposto a tutte le possibili conseguenze, compresa l’esposizione a fallimento in caso di insolvenza. Quindi per assoggettare a fallimento un’associazione non riconosciuta non è più necessario ricorrere all’espediente di riqualificarla come “società di fatto”, espediente utilizzato dal Tribunale di Savona nella sentenza del 18/1/1982. E’, però, più frequente che l’attività commerciale abbia carattere necessario rispetto all’attività ideale costituente l’oggetto principale dell’ente.

Che l’attività commerciale abbia carattere necessario non impedisce l’acquisto della qualità di imprenditore, non difettando il requisito della professionalità. Inoltre, non essendo dettata alcuna norma specifica per quanto concerne l’applicazione dello Statuto dell’imprenditore commerciale, si ritiene che vada applicato con pienezza di effetti anche se l’attività commerciale ha carattere accessorio o secondario. Il punto non è pacifico, parte della dottrina e della giurisprudenza ritengono che lo Statuto non sia applicabile nel caso in cui l’attività d’impresa abbia carattere accessorio. La preoccupazione di sottrarre al fallimento, porta a sostenere che a tali enti debba applicarsi per analogia il medesimo regime dettato per le imprese organo. Si ritiene cioè che l’art. 2201 c.c., esonero degli enti pubblici non economici dalla registrazione, costituisca espressione di un principio generale valido per tutte le imprese collettive non societarie.

Le associazioni e le fondazioni che esercitano attività commerciale in via accessoria sarebbero perciò esonerate dall’iscrizione nel registro delle imprese. Sarebbero inoltre esonerate dall’intero Statuto dell’imprenditore commerciale, perché così bisognerebbe interpretare il 2201 c.c.

Tale assunto viene ribadito nella sentenza della Cassazione n. 5770/1979, ma ritengo che non debba essere condiviso così come il Farenga, annotandola, non lo condivide.I motivi addotti dal Farenga sono essenzialmente due:1) l’art. 2201 è chiaramente norma eccezionale e norma che trova fondamento nella struttura pubblicistica dell’ente, il che è di per sé sufficiente per respingere l’applicazione analogica ad enti di diritto privato quali associazioni e fondazioni; 2)l’art. 2201 c.c., inoltre, si limita a prevedere l’esonero dalla registrazione e non può essere inteso come esonero degli enti pubblici titolar di imprese-organo dall’intero Statuto dell’imprenditore commerciale, tant’è che per le procedure concorsuali è prevista una norma ad hoc, l’art 2201 c.c. Osterebbe anche l’art. 2093 c.c. ove vengono considerate imprese anche le attività commerciali svolte dagli enti pubblici in via accessoria. Si deve perciò correttamente concludere che le associazioni e le fondazioni esercenti attività commerciale in forma di impresa diventano sempre e comunque imprenditori commerciali e restano sempre e comunque esposte al fallimento, senza operare arbitrarie distinzioni in base al carattere principale o accessorio dell’attività d’impresa. Ovviamente a tali soluzioni si ci è arrivati dopo una meticolosa ed impervia elaborazione giurisprudenziale sulle cui sfumature vale la pena soffermarsi.

Nella sentenza del 17/6/1994 del Tribunale di Milano i giudici esaminarono il caso di una fondazione, “l’Istituto sieroterapico milanese Serafino Bonfanti”, avente come scopo statutario la ricerca e la preparazione dei vaccini. Nel 1960, modificando lo statuto, si previde la possibilità di intraprendere l’attività di produzione e vendita dei preparati oggetto di ricerca. La fondazione si concentrò in tale seconda attività accumulando un indebitamento che la portava a chiedere l’ammissione al concordato preventivo.

I giudici milanesi, in tale sentenza, affermano la piena legittimità della fondazione d’impresa, il suo assoggettamento alle regole concorsuali, l’assoggettamento al fallimento del legale rappresentante dell’ente non profit attraverso l’applicazione analogica dell’art 38 c.c., norma prevista per le sole associazioni non riconosciute. Nel caso in esame si è di fronte ad una formazione sociale, di quelle tutelate dall’art. 2 della Costituzione, cioè ad un insieme organizzato di amministratori, ricercatori, lavoratori, che ha pretermesso l’iniziale fine morale perseguendo lo sviluppo ed il potenziamento dell’attività imprenditoriale commerciale. Tale formazione sociale ha speso all’esterno il nome Istituto sieroterapico, omettendo di chiarire che si trattava di una fondazione che esercitava attività d’impresa. Si è presentata all’esterno atteggiandosi come un’associazione di persone (fisiche e giuridiche) che, come entità in sé, non può ritenersi dotata di personalità giuridica ed autonomia patrimoniale. In seguito a tali considerazioni, il Tribunale ha ritenuto che “il provvedimento amministrativo” con il quale l’ente ha ottenuto il riconoscimento debba e possa essere “disapplicato” perché illegittimo. La disapplicazione del provvedimento amministrativo opera nel senso di declassare a formazione sociale di fatto l’ente che non presenta i requisiti per la persistenza del riconoscimento. Insomma si è cercato in presenza di una patologia o di un abuso della personalità giuridica di scardinare l’equazione personalità giuridica uguale limitazione di responsabilità.

Con la sentenza del 22/1/1998 del Tribunale di Milano, seguita all’opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, si perviene alle stesse conclusioni, ma utilizzando un costrutto teorico differente. In tal caso l’intero edificio argomentativo dei giudici si fonda sull’indimostrata premessa che la fondazione non possa fallire in proprio, da questa premessa i giudici, anziché tentare la disapplicazione del provvedimento amministrativo di riconoscimento della personalità giuridica, deducono l’esistenza di un’associazione collaterale alla fondazione cui parteciperebbero amministratori, ricercatori, tecnici ecc. Di conseguenza la qualifica di impresa commerciale andrebbe attribuita all’impresa gemella che fallirebbe.

Si può coinvolgere nel fallimento di questo nuovo ente, non tutti i partecipanti stante la ritenuta inapplicablità dell’art 147 della legge fallimentare, bensì il solo Presidente dell’Istituto quale persona che, ex art. 38 c.c., agiva in nome e per conto dell’associazione. Il Calavaglio, annotando la sentenza, la critica integralmente. Il Calavaglio sostiene che in realtà potevano utilizzarsi diverse tecniche di superamento della personalità giuridica, da quelle di diritto comune, (la responsabilità per fatto illecito), a quelle proprie del diritto commerciale, come l’abuso della personalità giuridica o la teoria dell’impresa fiancheggiatrice. In realtà è proprio a tale ultima teoria a cui i giudici milanesi fanno ricorso, in modo non condivisibile, per estendere la responsabilità al Presidente dell’Istituto sieroterapico.

Per poter affermare la sussistenza di una società di fatto ( o associazione di fatto) tra gli amministratori sarebbe stato dapprima necessario individuare l’autonoma impresa cui essi avrebbero dato vita spendendone il nome. In più l’applicazione della teoria dell’impresa fiancheggiatrice avrebbe comunque impedito di circoscrivere il fallimento al solo Presidente dell’Istituto, accomunando la posizione degli amministratori. Appare ben più fondata la possibilità di ritenere i gestori dell’ente responsabili in via extracontrattuale, senza alcun bisogno di dichiararne il fallimento.

Appare evidente come il problema più delicato e complesso, già in parte affrontato, è stabilire se il fallimento di un’associazione non riconosciuta comporti anche il fallimento degli associati illimitatamente responsabili ex art. 38 c.c. L’intento deve essere quello di evitare utilizzazioni patologiche dell’art. 38 c.c. A tal proposito, sembra opportuno far riferimento alla sentenza della Cassazione n. 9589/1993.

Secondo l’orientamento maggioritario, condiviso da tale sentenza, il fallimento dell’associazione si estenderebbe agli associati che siano da considerarsi illimitatamente responsabili (il caso è quello di un Istituto parificato “Fondazione Pitagora” e di una Srl che lo gestiva; l’Istituto viene qualificato, in appello, come mera associazione non riconosciuta e non come fondazione). La soluzione adottata dalla Cassazione nella sentenza rispetta la formulazione letterale della norma, affermando che una responsabilità illimitata per le obbligazioni dell’ente è ravvisabile soltanto in capo agli associati che abbiano agito in nome e per conto del medesimo. E’ da ritenersi superata l’interpretazione sistematica dell’art. 33 e 38 c.c., data l’abrogazione del primo.

La tesi che si basa sull’art. 38 c.c. viene giustificata in diverso modo. Secondo una prima tesi l’estensione del fallimento agli associati illimitatamente responsabili discenderebbe da un’applicazione analogica dell’art. 147 della legge fallimentare. Questa spiegazione è stata contestata sostenendo che la norma avrebbe natura eccezionale e non sarebbe quindi suscettibile di applicazione analogica.

Una diversa dottrina ha ritenuto di poter superare questa obiezione affermando che il fallimento degli associati illimitatamente responsabili andrebbe dichiarato non in via di estensione, ma in diretta applicazione dell’art. 1 della legge fallimentare. Secondo tale impostazione i membri a responsabilità illimitata di un’associazione che esercita un’impresa commerciale sarebbero qualificabili come veri e propri “coimprenditori”. Un diverso orientamento dottrinale è arrivato a concludere che il fallimento dell’associazione non coinvolgerebbe in alcun modo gli associati fatta salva, in ogni caso, di rilevare l’esistenza di una società di fatto fra quei membri dell’associazione che abbiano tenuto comportamenti oggettivamente qualificabili in termini societari, con il loro assoggettamento a fallimento ex art 147 legge fallimentare.

Secondo parte della dottrina sarebbe più corretta la soluzione negativa alla assoggettabilità a fallimento degli associati illimitatamente responsabili. Tale tesi sarebbe preferibile in quanto all’ultimo comma dell’art 147 l. f. “..non falliscono i soci illimitatamente responsabili di una società cooperativa…” e all’art. 9 del D.Lgs 240/91 “..il fallimento del GEIE non determina il fallimento dei suoi membri..”, sarebbe quindi desumibile un più generale principio per il quale il fallimento di un’impresa collettiva senza scopo di lucro non comporterebbe il fallimento di chi risponde illimitatamente per le relative obbligazioni (Campobasso, Farenga).

 

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