L’espropriazione di beni mobili nella p.a. La pignorabilità dei beni pubblici nella evoluzione storica

 

 

La posizione di giurisprudenza e dottrina su questa delicata questione è piuttosto articolata e complessa. Merita appena una rapida menzione la tesi più antica del carattere demaniale del pubblico denaro prospettata da una remota dottrina (1).
Oggi caduta la tesi della automatica appartenenza al demanio pubblico, non resta che dimostrarne l’appartenenza al patrimonio indisponibile dello Stato o di altro ente pubblico per effetto della destinazione a pubblico servizio, ai sensi dell’art. 826, 3° comma, CC.
In questa costruzione giuridica acquista particolare rilevanza l’individuazione dell’atto amministrativo che ne determina la destinazione al pubblico servizio.

Una giurisprudenza, fino a pochi decenni fa prevalente, riteneva sufficiente che la somma percepita dall’Ente venisse indicata nelle entrate globali dello stato di previsione contenute in bilancio, indipendentemente dall’analitica determinazione della spesa alla quale destinare in modo specifico l’entrata (2).

La giustificazione di una tale giurisprudenza si basa sul conclamato pericolo di “blocco della stessa attività pubblica dell’Ente, in tutte le sue manifestazioni” (3) aggravato dall’implicita, quanto illegittima, modificazione del bilancio operata dall’Autorità giudiziaria ordinaria (4).
Una nuova giurisprudenza, favorita da un’ampia dottrina, si è andata progressivamente affermando (5).

Alcuni autori hanno sottolineato che il vincolo di indisponibilità può derivare solo da una specifica destinazione dell’entrata al soddisfacimento di una pubblica necessità ben individuata e non dalla mera iscrizione delle somme nella parte attiva del bilancio. Portando la tesi oltre, si è giunti a prospettare la necessità della materiale immissione delle somme in questione in casse speciali (6).
Parte della dottrina si è spinta all’estremo giungendo a sostenere l’incondizionato assoggettamento del pubblico denaro all’esecuzione per espropriazione forzata.
Muovendo dal carattere essenzialmente fungibile e strumentale del denaro, inteso come semplice mezzo di pagamento, ha negato ogni sua possibile individuazione che possa essere fatta risalire al bilancio o dipendere dall’immissione in casse speciali.
In altri termini il denaro pubblico è lo strumento destinato al soddisfacimento delle obbligazioni dell’Ente, quindi essenziale per realizzarne la responsabilità patrimoniale: consegue che la destinazione a pubblico servizio può avere ad oggetto solo beni determinati e non invece il denaro (7).
Partendo da queste premesse già con la sentenza della Cass. 2/7/69, n. 2428 (8) si accenna, anche se in modo incidentale, che per la loro indisponibilità le somme siano destinate in bilancio “a particolari necessità”.
Tuttavia è solo nel decennio successivo che, innovando rispetto all’orientamento già affermatosi, la giurisprudenza, sensibile all’esigenza di tutelare il diritto d’azione del cittadino nei confronti delle frequenti inadempienze della P.A., si orienta decisamente verso la pignorabilità del pubblico denaro (9).
Fondamentale al riguardo è la sentenza della Corte di Cassazione a Sez. Unite, 13/7/79, n. 4071 (10). Riprendendo le enunciazioni già in parte definite nella sentenza della Cass., Sez. Unite 2/6/78, n. 2762 (11), la Corte ammette l’esecuzione forzata prevista dagli artt. 2910 e seguenti C.C., “data l’indissolubile correlazione tra condanna pecuniaria ed espropriazione forzata per crediti di denaro”.
Ammettere che l’adempimento di una obbligazione pecuniaria” sia rimesso alla determinazione del debitore circa il momento e le modalità della prestazione significa […] escludere l’esistenza di una obbligazione pecuniaria in senso tecnico ma nella specie questa esclusione non è consentita […] Deve pertanto ritenersi, in via di principio e salve le precisazioni di cui si dirà, che è applicabile anche all’amministrazione dello Stato il canone generale dell’esecuzione per obbligazioni pecuniarie contenute nell’art. 2910 C.C.”.
Rispondendo alla duplice obiezione avanzata dall’amministrazione ricorrente sulla sostanziale attuazione di una “finanza coatta” ad opera del giudice ordinario, in via surrogatoria alla gestione finanziaria del Parlamento, e sulla violazione della legislazione di contabilità dello Stato (r.d. 18/11/1923, n. 2440), la Corte afferma che la disciplina del bilancio non incide sulla sostanza dei rapporti fra lo Stato ed i terzi né paralizza la responsabilità patrimoniale per l’adempimento delle obbligazioni pecuniarie. “In realtà il bilancio […] non consente in alcun modo di collegare singole entrate ( e cioè determinate somme di denaro) a singole uscite (cioè all’espletamento di determinati servizi) e pertanto non può essere considerato come fonte di un vincolo di destinazione in senso tecnico di particolari somme, tale da sottrarle all’azione espropriativa dei creditori dello Stato”.
Per quanto riguarda la seconda obiezione la Corte risponde che non vi è contrasto tra la legislazione contabilistica e le procedure espropriative sotto il controllo giurisdizionale dell’autorità giudiziaria ordinaria, in quanto di fronte alla sentenza di condanna “la posizione dell’amministrazione non è diversa da quella di qualunque altro soggetto che sia stato condannato a pagare: essa è semplicemente tenuta ad effettuare il pagamento o, in difetto, a subire l’esecuzione per espropriazione”.
Naturalmente questo non comporta l’eliminazione di qualsiasi differenza tra un normale debitore e la P.A. Infatti non sono assoggettabili all’esecuzione “i beni del demanio e del patrimonio indisponibile, in quanto vincolati all’esercizio di una concreta funzione demandata all’azione dei pubblici poteri, o i crediti nascenti dall’esercizio di funzioni pubbliche, come ad es. quella tributaria. Queste ipotesi concretano altrettante limitazioni della responsabilità ai sensi del capoverso dell’art. 2740 C.C., agevolmente inquadrabili peraltro nel più generale principio, certamente applicabile anche allo Stato, posto dal primo comma dello stesso articolo”.
Entrando nel merito la Corte conclude che i crediti derivanti da contratti di diritto privato debbano considerarsi canoni locatizi e come tali pignorabili al contrario dei canoni concessori per i quali vi è comunque l’inespropriabilità.

Il contenuto della sentenza esaminata è stato successivamente ribadito dalla giurisprudenza della Corte suprema fra cui, a sez. unite la sentenza 14/2/87, n. 1609 (12), la quale ha sostanzialmente mutuato le argomentazioni sopra esposte.
Anche alla P.A. si applicano gli artt.2740 – 2741 C.C., pertanto questo risponde con tutti i suoi beni presenti e futuri con l’unica eccezione dei beni facenti parte del demanio o del patrimonio indisponibile e dei crediti derivanti dall’esercizio di pubbliche funzioni (es. tributi).
Questo nuovo indirizzo giurisprudenziale è testimonianza della costante evoluzione della giurisprudenza verso l’abolizione di ogni ingiustificata forma di privilegio della P.A. nei confronti del cittadino.
Ai sensi dell’art. 826, u.c., C.C. rientrano tra i beni del patrimonio indisponibile quei beni indicati genericamente come “destinati ad un pubblico servizio”.
L’ulteriore distinzione tra i beni di strumento immediato o diretto e quelli di strumento solamente mediato o indiretto per la realizzazione dei pubblici servizi non è utile ai fini della determinazione dei beni pubblici assoggettati o meno ad esecuzione forzata; le due categorie sono di scarsa utilità, in quanto lo stesso bene può essere utilizzato ai fini diversi.
Da questo consegue che la soluzione del problema non può che basarsi in una indagine specifica e concreta sulla vera “destinazione” del bene in oggetto. Né è condivisibile l’obiezione secondo cui una tale indagine porterebbe a sindacare l’organizzazione dei servizi della P.A., materia preclusa al giudice ordinario e di esclusiva discrezionalità dell’amministrazione stessa (13).
Solo nel momento in cui la destinazione a fini pubblici sia stata espressa con un atto amministrativo si avrà l’appartenenza del bene al patrimonio indisponibile. Accanto a questa ipotesi incontestabile è stata avanzata la possibilità che sia una norma stessa a carattere legislativo a determinare l’indisponibilità del bene.

Degli sviluppi decisamente interessanti per la delimitazione del campo dei beni pubblici pignorabili presenta la sentenza della Corte di Appello di Firenze, sez. I, 19/4/82, n. 339 la quale non solo si limita a confermare la sentenza 2/12-23/1/81 del tribunale di Lucca, ma ne sviluppa ed amplia il discorso.
In primo grado, nell’accogliere l’opposizione all’esecuzione proposta dal comune di Bagni di Lucca, si dichiarava l’impignorabilità sia degli arredi degli uffici comunali che degli arredi e macchinari delle terme comunali.
La Corte di Appello, nel confermare la decisione di primo grado, riconosce che i beni termali sono per loro natura destinati alla soddisfazione del pubblico servizio della prestazione di cure termali.
Inoltre ne allarga la nozione anche a quei locali i quali, non strettamente destinati alle cure, ne sono tuttavia inerenti come luoghi di convegno e riposo (circoli, bar, etc.), proseguimento ideale delle cure stesse. I beni accessori sono esattamente individuati mediante inventari dell’ente o in appositi registri di consistenza allegati ai medesimi.
Conclude la Corte che “accertata la destinazione al pubblico servizio, ultroneo appare, […] , ogni indagine diretta ad accertare se i beni staggiti siano indispensabili al servizio medesimo; oltre tutto una indagine in tal senso si tradurrebbe in un inammissibile sindacato dell’attività della P.A.” (14).
La Regione siciliana con l’art. 14 del D. Pres. Reg. 14/8/57, n. 2 ha espressamente stabilito che “sono assegnati all’azienda, costituendone patrimonio indisponibile, i beni immobili, i beni mobili, l’arredamento e comunque tutto ciò che fa parte dei complessi turistico alberghieri” di proprietà della regione. Questa concreta applicazione del principio per ultimo espresso ha trovato accoglienza favorevole da parte della giurisprudenza della Cassazione.

La Sez. I civile con sentenza 18/11/77, n. 5053 (15) ha dichiarato che quando il legislatore stesso sancisce, con norma espressa, che determinati beni di proprietà di un ente pubblico siano considerati patrimonio indisponibile del medesimo, tale carattere, salvo che non si metta in dubbio la costituzionalità della legge, è assolutamente indiscutibile, perché altrimenti si verificherebbe una latente violazione della legge, cioè di un precetto che, fino a che è in vigore, non può non essere osservato.
La Corte nella motivazione respinge nettamente la tesi avanzata dal resistente di una distinzione tra indisponibilità “oggettiva” e “soggettiva”, la quale ultima si estrinsecherebbe soltanto in un limite posto al potere dispositivo dell’ente proprietario dei beni in oggetto, lasciando libertà di pignoramento da parte dei terzi.
Anche la Corte Costituzionale è intervenuta in materia a seguito di alcune ordinanze con le quali era stato posto in dubbio la legittimità costituzionale degli artt. 826 u.c., 828 u.c. codice civile rispetto agli artt. 3, 24, 28 e 113 Cost.
Dichiarando infondate le sopraesposte questioni di legittimità costituzionale, vengono riconosciuti i seguenti tre principi:
1. Non vi è differenza tra P.A. ed altri debitori, si ché anche nei confronti dell’amministrazione pubblica è esperibile l’esecuzione forzata per espropriazione;
2. I limiti di pignorabilità vanno individuati concretamente in relazione alla natura o alla destinazione degli specifici beni dei quali si chiede l’espropriazione;
3. L’iscrizione di somme o di crediti nel bilancio preventivo dello Stato o di altro Ente pubblico non può costituire vincolo di destinazione in senso tecnico idoneo a ricomprendere tali somme o crediti nel patrimonio indisponibile, a meno che i crediti non traggano origine da rapporti di diritto pubblico.
La Corte non si pronuncia sull’ipotesi di vincolo a finalità pubbliche di singoli beni con apposita norma di legge, in quanto esorbitante dal giudizio (16).

Particolarmente interessante è l’evoluzione delle garanzie fornite dagli enti di assistenza pubblica sia per l’ammontare delle somme che per il passaggio giuridico dall’ente pubblico mutualistico e ospedaliero all’unità sanitaria locale.
Per capire adeguatamente l’attuale posizione della giurisprudenza occorre rifarsi all’esecuzione forzata contro tali enti. E’ fondamentale al riguardo la sentenza della Corte di Cassazione, Sez. Unite, 8/11/78, n. 5096 (17), nella quale si affrontano per la prima volta, con una ampia disamina, tutte le implicazioni derivanti dall’entrata in vigore delle leggi 17/8/74, n. 386 e 31/3/76, n. 72 aventi ad oggetto il finanziamento dell’assistenza sanitaria.
Era stato avanzato il dubbio che non era possibile assegnare le somme di cui al fondo speciale previsto da quelle leggi, perché ciò avrebbe comportato la disarticolazione del piano di risanamento con il conseguente esautoramento degli organi appositamente addetti.
La Corte afferma che il legislatore non ha inteso disporre alcuna moratoria per i debiti degli enti mutualistici nei confronti degli enti ospedalieri, né ha voluto incidere negativamente sugli stessi enti ospedalieri, sospendendo la tutela giurisdizionale dei loro crediti verso quegli enti.
La creazione di speciali procedure amministrative per l’erogazione delle somme derivanti dalle leggi in oggetto, non modificano il regime giuridico che regola tali obbligazioni.
Infatti, conclude la Corte, “lo speciale regime giuridico delle somme provenienti, […], dai finanziamenti previsti dalle leggi speciali esclude che tali somme-prima dell’emanazione del nulla osta amministrativo – possano essere oggetto di un provvedimento giudiziale, ma non incide in alcun modo su quel credito; esso, di per sé, non ne tocca né la natura né l’esigibilità, e non sottrae alcuna altro elemento patrimoniale dell’ente ospedaliero, alla garanzia dei suoi creditori”.
In una successiva sentenza la Corte di Cassazione ha ripreso il principio appena enunciato allargandolo agli stessi enti ospedalieri, con l’affermare che i crediti vantati dagli enti ospedalieri nei confronti degli enti mutualistici per rette di degenza non fanno parte del patrimonio indisponibile dell’ente e sono pertanto pignorabili.
La disciplina dettata dalle leggi n. 386/74 e 72/76 nei confronti degli enti mutualistici, non imprime un vincolo di indisponibilità ai crediti ospedalieri come non lo imprime alle somme destinate agli enti mutualistici (18).
Non sempre la distinzione tra il regime giuridico dei crediti e quello delle somme approntate dalle leggi speciali per sanare le perdite degli enti è stata ben individuata dalla Cassazione.
Tale impostazione è stata, infatti, disattesa dalla Corte con sentenza 30/7/80, n. 4887 (19), dove si afferma che il vincolo di destinazione previsto dalla legge n. 964/69 per le somme da essa concesse ai comuni e destinate a ripianare i disavanzi delle aziende comunali di trasporto, giunga ad incidere anche sulla destinazione e quindi sulla pignorabilità dei crediti vantati da queste nei confronti dei comuni.
Si è giunti così al sistema delle unità sanitarie locali, riforma ex L. n. 883/78, in cui la giurisprudenza riallacciandosi sia alla pignorabilità dei crediti degli enti ospedalieri nei confronti degli enti mutualistici, che al generale principio della necessaria specifica destinazione a pubbliche finalità per le somme impignorabili ha ammesso l’assoggettamento a pignoramento delle somme di denaro dell’ U.S.L. esistente nella Cassa generale dell’ente presso la Tesoreria del medesimo e non ancora destinate ad uno specifico impiego.
Il mero fatto della iscrizione preventiva di determinate somme nel bilancio non serve a trasformarle, per ciò solo, in patrimonio indisponibile, così da annullare qualsiasi responsabilità patrimoniale.
L’impignorabilità sarà dimostrata solo qualora si dimostri che “il credito sia stato specificamente destinato al soddisfacimento di un pubblico servizio in data antecedente a quel pignoramento” (20). Né possono considerarsi vincolanti eventuali circolari in materia dell’assessorato alla sanità regionale, in quanto atti interni della P.A. non aventi efficacia alcuna nei confronti dei terzi.
Tra i beni concretamente assoggettabili ad esecuzione vanno annoverati, oltre gli edifici destinati a sede degli uffici sia i loro arredi (art. 826, u.c., C.C.) che gli altri beni destinati a pubblico servizio, accertandosi la concreta destinazione dei singoli beni (21).

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NOTE
(1) – Falzone, I beni del patrimonio indisponibile – Milano – 1957 pag. 75 e segg.;
(2) – Cass. 20/3/52, n. 755, Foro italiano, 1952, I, 707 e segg., Cass. 3/1/67 n.I, Giurisprudenza italiana, 1967, I,132 e segg.;
(3) – Pretura di Asti, 15/2/78 – Ordinanza – Giurisprudenza italiana 1979, I, 2, 102, e segg.;
(4) – Virga, La tutela giurisprudenziale nei confronti della P.A.-Milano-1976-pag.153 e segg.;
(5) – Cassaz. 2/7/69, n. 2428 in Giustizia Civ., 1969, I, pag. 1619 e segg.;
App. Venezia 21/10/75 in Giur. Italiana, 1976, II, 741 e segg.;
Cass., Sez. Unite, 13/7/79,n. 4071, in Foro italiano, 1979, I, 1979;
Tribunale di Napoli, 14/2/84, in Giur. Civ., 1985, I, pag. 513 e seg.;
(6) – G. Greco – L’esecuzione della sentenza di condanna al pagamento di una somma di denaro nel quadro della gestione finanziaria dello Stato, in Riv. dir. fin., 1976, I, pag. 216 e segg.;
(7) – Montesano – Processo civile e p.a., nel “Trattato del processo civile” diretto da Carnelutti, Napoli, 1960, pag. 129 e seg.;
(8) – Giustizia Civile, 1969, I, pag. 1619 e segg.;
(9) – App. Venezia 21/10/1975, in Giur. Italiana, 1976, II, 741 e segg.;
(10) – Foro italiano, 1979, I, 1979;
(11) – Foro italiano, 1978, I, 1854;
(12) – Foro italiano, 1987, I, 2149;
(13) – Tribunale di Napoli, 14/2/84, Giustizia civile, 1985, I, pag. 513 e segg.;
(14) – Corte di appello di Firenze, sez. I, 19/4/82, n.339, Archivio civile, 1983, pag. 643 e segg.;
(15) – Foro italiano, 1878, I, 2241;
(16) – Corte Costituzionale, 21/7/81, n. 138, Riv. Della Corte dei conti, n. 3-4/1981, pag. 667 e segg.;
(17) – Foro italiano, 79, I, 1217;
(18) – Corte di Cassazione, sez. III civ., 23/11/85, n. 5823; Foro italiano, 1986, I, 973;
(19) – Foro italiano, 1980, I, 2405;
(20) – Pretura di Rogliano, 1/4/82, Foro italiano, 1983, I, 247;
(21) – Cass. 10/7/86, n. 4496, Foro italiano, Mass. 1986.

Dott. Sabetta Sergio Benedetto

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