L’espropriazione per pubblica utilità: terreno di scontro tra normativa italiana e dettami convenzionali

Premessa

L’istituto dell’espropriazione per pubblica utilità è da tempo al centro di un acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale, che ha peraltro risentito della diversa configurazione assunta dal diritto di proprietà nella Costituzione italiana e nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Alla base del confronto risiede, in ultima analisi, la difficoltà di perseguire un adeguato bilanciamento tra l’interesse pubblico sotteso alla vicenda espropriativa e la tutela del diritto di proprietà del titolare del bene ablato. In tale prospettiva, molteplici aspetti attinenti all’istituto in questione sono stati oggetto di una profonda evoluzione giurisprudenziale e normativa, anche sollecitata dalle indicazioni provenienti dalla Corte di Strasburgo.

Ciò premesso, dopo aver brevemente illustrato i tratti essenziali dell’istituto dell’espropriazione anche in rapporto alla diversa configurazione del diritto di proprietà a livello nazionale e sovranazionale, si affronteranno alcune delle questioni più controverse che hanno interessato gli operatori del diritto, quali il tema delle c.d. espropriazioni indirette e quello della determinazione dell’indennità di esproprio.

Volume

L’istituto dell’espropriazione per pubblica utilità: nozione e fondamento

In via di prima approssimazione, si può dire che l’espropriazione di pubblica utilità è il procedimento mediante il quale la Pubblica Amministrazione, al fine di soddisfare un interesse generale, acquista a titolo originario il diritto di proprietà o altro diritto reale su un bene privato, dietro pagamento di un indennizzo.

L’istituto trova fondamento direttamente nella Costituzione, il cui art. 42 co. 3 prevede appunto che la proprietà privata può essere espropriata per motivi di interesse generale nei casi previsti dalla legge e salvo indennizzo.

Nella struttura della Legge Fondamentale, il diritto di proprietà è contemplato nel titolo relativo ai rapporti economici, quale espressione della capacità economica del singolo e prima posta del suo patrimonio.

È proprio tale configurazione del diritto dominicale come diritto patrimoniale che giustifica la limitazione e finanche la compressione dello stesso per finalità di interesse generale.

Dalla lettura dell’art. 42 co. 3 Cost. si ricava che la proprietà privata può essere espropriata al ricorrere di tre condizioni.

Innanzitutto, l’espropriazione è consentita nei soli casi previsti dalla legge.

In secondo luogo, è necessario che l’ablazione avvenga per motivi di interesse generale.

Infine, dev’essere riconosciuto al proprietario un indennizzo, indicato dalla dottrina come il punto di equilibrio tra la compressione del diritto dominicale e l’interesse pubblico sotteso alla vicenda espropriativa.

Al diritto di proprietà fa poi riferimento anche l’art. 1 del Protocollo Addizionale CEDU, il quale lo annovera tra i diritti fondamentali dell’uomo. Tale collocazione, evidentemente, rende il diritto dominicale più “resistente” ad eventuali limitazioni o compromissioni.

Più precisamente, la norma convenzionale in questione detta tre regole fondamentali.

In primo luogo, sancisce il diritto al rispetto dei beni di ognuno: tutela cioè il pacifico godimento del diritto di proprietà.

In secondo luogo, stabilisce che nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nei casi previsti dalla legge. La norma, nell’indicare le condizioni per la legittima ablazione di un bene di proprietà privata, enuncia tra l’altro il principio di legalità.

Si deve tuttavia precisare che, secondo l’elaborazione della Corte europea dei diritti dell’uomo, il principio è rispettato anche in assenza di una legge scritta, bastando anche una norma di fonte giurisprudenziale purchè chiara, accessibile e precisa.

Secondo tesi dominante, dall’impianto convenzionale emergerebbe una concezione “fortissima” del principio di legalità, nel senso che esso impone, in ambito espropriativo, non solo l’esistenza di una legge, ma anche che quest’ultima sia chiara e precisa.

Il comma successivo prevede infine che è facoltà degli Stati disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento di imposte o ammende.

Dal raffronto tra le due disposizioni emerge dunque una diversa collocazione del diritto di proprietà, tutelato nell’ambito dei rapporti economici nella Costituzione italiana e qualificato come diritto fondamentale dalla CEDU. Tale diversa configurazione è all’origine del nutrito confronto giurisprudenziale che, come si vedrà, ha interessato alcuni aspetti dell’istituto in questione.

Tornando alla disciplina interna, si rileva che l’espropriazione di pubblica utilità trova la propria fonte principale nel T.U. delle espropriazioni.

Tale normativa prevede che il procedimento espropriativo ordinario prende avvio con l’apposizione di un vincolo preordinato all’esproprio dell’area all’uopo localizzata nei piani urbanistici, procede con la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e si conclude con l’emanazione del decreto di esproprio. Tuttavia, è possibile evitare il decreto di esproprio, pervenendo ad un accordo di cessione volontaria, soluzione questa incentivata dall’ordinamento in quanto più celere e potenzialmente deflattiva di successivi ricorsi giudiziari.

Come anticipato, è possibile procedere all’espropriazione solo per motivi di interesse generale, nei soli casi previsti dalla legge e dietro pagamento di un indennizzo.

L’elaborazione giurisprudenziale circa l’obbligo di indennizzo

Come già anticipato, al privato spogliato del bene di sua proprietà spetta un’indennità che l’amministrazione è tenuta a corrispondere. L’obbligo di indennizzo funge da punto di equilibrio tra l’interesse generale che giustifica l’espropriazione e la tutela del diritto di proprietà del privato.

Senonchè, a fronte di una sostanziale unanimità di vedute circa la spettanza dell’indennizzo al privato, dubbi interpretativi sono sorti circa la corretta determinazione del quantum di detta indennità.

Secondo un indirizzo giurisprudenziale costituzionale, consolidato almeno fino alla metà degli anni ’90, ha ritenuto che l’indennizzo non dovesse necessariamente coincidere con il valore venale del bene, ma che non potesse nemmeno essere meramente irrisorio o simbolico, dovendosi sostanziare in un serio ristoro del pregiudizio patito dal privato per effetto della compressione del suo diritto di proprietà.

Nel T.U. espropri si individuano così differenti criteri di determinazione dell’indennizzo, a seconda dell’area che di volta in volta viene in rilievo.

Si distinguono, in particolare, le aree edificabili da quelle non edificabili e queste ultime, a loro volta sono distinte in aree coltivate e non coltivate. Ancora, si individuano diversi criteri per le aree legittimamente edificate e per quelle abusivamente realizzate, nonché per quelle destinate ad opere private di pubblica utilità.

Tanto premesso, per quel che qui interessa, deve rilevarsi che, anche a fronte delle indicazioni provenienti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dei criteri di determinazione dell’indennizzo precedentemente previsti per le aree edificabili e per le aree non edificabili non coltivate.

Quanto al primo profilo relativo alle aree edificabili, una precedente legge del 1992, poi trasfusa nell’art. 37 del T.U. espropri, prevedeva che l’indennizzo dovesse quantificarsi nella semisomma tra valore venale del bene e il decuplo del reddito dominicale, decurtato del 40%. A tale decurtazione tuttavia non si faceva luogo nel caso si pervenisse ad un accordo di cessione volontaria.

Tale disposizione è stata però dichiarata incostituzionale dalla Consulta nel 2007.

In particolare, secondo la Corte costituzionale, la norma così formulata si poneva in evidente contrasto con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale pretende che vi sia un ragionevole legame tra il quantum dell’indennizzo e il valore venale del bene. Sicchè, erano da ritenersi convenzionalmente illegittimi eventuali indennizzi che si discostassero eccessivamente da tale valore.

È evidente che tale approdo giurisprudenziale, in un’ottica riequilibratrice, intende garantire ampia tutela al proprietario espropriato, il quale, altrimenti, vedrebbe  ingiustificatamente compresso un proprio diritto fondamentale, senza adeguato ristoro.

Alla luce di tali premesse, dunque, atteso che la CEDU integra il dettato costituzionale quale parametro interposto rilevante ai sensi dell’art. 117 Cost., secondo la Corte costituzionale, l’art. 37 del T.U. espropri è da ritenersi costituzionalmente illegittimo perché viola le coordinate tracciate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Allo stesso tempo, peraltro, secondo la Consulta, il parametro dettato dalla suddetta norma si pone in contrasto già con la stessa giurisprudenza costituzionale, ferma nel pretendere la serietà del ristoro garantito al privato.

Più in particolare, la serietà doveva essere rapportata al diverso contesto in cui la norma previgente e quella successiva andavano a collocarsi. Così, la Corte costituzionale ha ritenuto che, nella precedente legge del ’92, tale criterio si giustificava alla luce della crisi economica congiunturale di quegli anni, mentre non era più accettabile alla luce del nuovo contesto socio-economico vigente all’epoca del T.U. espropri.

Alla luce di quanto sopra, dunque, tra gli argomenti valorizzati dalla Consulta per la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 37 T.U., rivestono un’indubbia rilevanza gli approdi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, più rigorosa nell’esigere un indennizzo parametrato al valore venale del  bene.

Successivamente, recependo le indicazioni della Consulta, il legislatore ha modificato l’art. 37 T.U. espropri prevedendo quale criterio per la determinazione dell’indennizzo delle aree edificabili quello del valore venale del bene. Si è però prevista una riduzione dell’indennità nel caso di espropriazione finalizzata a realizzare interventi di riforma economico-sociale e un incremento del 10% della stessa in caso di cessione volontaria.

Questa nuova disposizione ha per la verità sollevato numerose voci critiche in dottrina. In particolare, alcuni autori hanno ritenuto che l’incremento del 10% per il caso di cessione volontaria realizzasse una sorta di over-compensation in favore del privato e che il riferimento alle riforma economico-sociali fosse eccessivamente generico.

Al primo intervento della Consulta del 2007 ne è seguito immediatamente un altro, avente questa volta ad oggetto il criterio dettato dall’art. 40 co. 2 T.U. espropri per la determinazione dell’indennizzo relativo ad aree non edificabili e non coltivate.

In particolare, tale norma commisurava l’indennità al valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura prevalente nella zona ed al valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati.

Secondo la Corte costituzionale, neppure tale norma è compatibile con le indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale, come detto, impone un ragionevole legame tra l’indennizzo e il valore venale del bene, anche in relazione alle caratteristiche essenziali dell’area e alle sue concrete potenzialità di utilizzo. Sicchè, la previsione di un valore medio, scollegato da qualsiasi riferimento al bene, non può che ritenersi contrastante con le indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo e, in forza dell’art. 117 Cost., costituzionalmente illegittima.

Senonchè, a fronte di tale dichiarazione di incostituzionalità, si pone il problema di verificare la sorte delle diverse norme del T.U. espropri che si riferiscono al sopra citato valore medio. Sotto tale punto di vista, secondo la dottrina, sarebbe necessario un intervento di razionalizzazione ad opera del legislatore, anche al fine di specificare la rilevanza in punto di determinazione dell’indennizzo di eventuali espropriazioni finalizzate a realizzare interventi di riforma economico-sociale, analogamente a quanto previsto nell’art. 37.

La Corte costituzionale ha invece ritenuto esente da censure l’art. 40 co. 1 T.U. espropri relativo alle aree coltivate, per via del riferimento in esso contenuto alle colture concretamente praticate e ai manufatti effettivamente realizzati.

Alla luce delle suesposte considerazioni, è dunque evidente come la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo abbia dunque svolto un importante ruolo di impulso per l’evoluzione giurisprudenziale e normativa sopra illustrata in punto di determinazione dell’indennizzo di esproprio.

Leggi l’articolo:”L’espropriazione per pubblica utilità, definizione e caratteri”

Uno sguardo all’evoluzione normativa e giurisprudenziale sulle c.d. espropriazioni indirette

L’analisi dell’impatto della CEDU nel nostro ordinamento in tema di espropriazione non può dirsi tuttavia esaurito. Dev’essere infatti ora ricostruita l’evoluzione giurisprudenziale e normativa in tema di occupazione appropriativa.

Com’è noto, l’occupazione appropriativa è un istituto di creazione giurisprudenziale, con il quale la Cassazione ha di fatto legittimato la prassi amministrativa di occupare aree private in assenza di un provvedimento legittimante, realizzando sulle stesse operazioni di irreversibile trasformazione.

In particolare, con la storica sentenza delle Sezioni Unite del 1983, s’è previsto che con la trasformazione irreversibile dell’area da parte della Pubblica Amministrazione, si estingue il diritto di proprietà del privato sul bene, che viene dunque acquistato a titolo originario dalla Pubblica Amministrazione.

Sorge però al contempo in capo al privato proprietario un diritto risarcitorio.

Per giustificare l’istituto, la Corte di Cassazione ha fatto riferimento alla disciplina civilistica dell’accessione ex art. 934 c.c. e ss. Tanto che l’occupazione appropriativa è stata denominata anche accessione invertita, mutuando una terminologia utilizzata con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 938 c.c.

La giurisprudenza successiva ha poi chiarito che l’occupazione appropriativa deve distinguersi da quella c.d. usurpativa. Quest’ultima infatti, a differenza della prima, si connota per l’assenza di una dichiarazione di pubblica utilità che rende del tutto illegittimo l’agere amministrativo, considerato alla stregua di un mero comportamento.

La ricostruzione in parola ha però suscitato numerose critiche in dottrina.

Si è in particolare sostenuta l’assoluta inconferenza del richiamo alla disciplina civilistica dell’accessione invertita, volta a disciplinare fattispecie affatto diverse.

S’è inoltre censurata la totale assenza di garanzie procedurali e sostanziali per il privato, nonché, soprattutto, il sostanziale svuotamento del principio di legalità.

Per motivi in parte simili, l’istituto in questione è stato poi censurato anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale vi ha ravvisato una sostanziale violazione del principio di legalità sostanziale dettato dall’art. 1 del Protocollo Addizionale CEDU.

La Corte europea ha poi obiettato che l’acquisto della proprietà trova comunque origine in un fatto illecito – cioè l’illegittima deprivation of posssion – e che l’istituto presenta nel nostro ordinamento confini alquanto incerti, peraltro oggetto di diversi contrasti interpretativi.

In sostanza, la Corte europea ha ritenuto che l’istituto in questione realizzi una sorta di indirecte expropriation, incompatibile con il principio convenzionale di legalità di cui all’art. 1 del Protocollo Addizionale, avente l’effetto di svuotare, senza adeguate garanzie, il fondamentale diritto di proprietà consacrato dalla stessa CEDU.

La CEDU poi, in diverse pronunce rese in tema di indirecte expropriation, tra cui la nota Scordino contro Italia, ha censurato i criteri impiegati dai giudici italiani per liquidare l’indennità dovuta ai soggetti passivi dell’espropriazione, la cui applicazione dava luogo a indennizzi insufficienti.

Nello specifico, con una legge del ’96 si era previsto che, per le occupazione appropriative di aree edificabili realizzate anteriormente al 30 settembre 1996, il criterio di liquidazione dell’indennizzo fosse quello della semisomma tra valore venale del bene e decuplo del reddito dominicale, con un’integrazione del 10%. Per le occupazioni successive, si applicava invece il parametro del valore venale del bene.

Tale norma, anche a fronte delle indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, è stata dichiarata incostituzionale dalla Consulta, la quale ha ritenuto che l’indennizzo debba essere rapportato all’effettivo pregiudizio subito dal privato e che debba, dunque, coincidere con il valore venale del bene.

Anche questo approdo ha suscitato numerose perplessità in dottrina, specie se rapportato all’incremento del 10% previsto dall’art. 37 in caso di cessione volontaria. Dal raffronto di tali disposizioni, secondo tali autori, sembrerebbe quasi emergere un’irragionevole logica volta a incentivare la Pubblica Amministrazione a porre in essere illecite occupazioni, a fronte della previsione per queste ultime di un minore indennizzo rispetto a quello dovuto in caso di legittima cessione volontaria del bene.

In questo frastagliato quadro è intervenuto il legislatore introducendo all’art. 43 TU espropri la c.d. acquisizione sanante, che consentiva alla Pubblica Amministrazione che avesse illecitamente occupato un’area privata di sanare detta occupazione con un successivo provvedimento.

Per la verità, anche tale previsione è stata oggetto di censura da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. In particolare, ad avviso dei giudici sovranazionali, l’elemento censurabile risiedeva nel fatto che l’acquisto della proprietà da parte della pubblica amministrazione trovava pur sempre fonte in un’illegittima deprivation of possession, cioè in un fatto illecito.

In sostanza, secondo la Corte, non importava che il meccanismo fosse giustificato a valle dalla giurisprudenza o a monte dalla legge, risultando comunque pur sempre illegittimo un acquisto di proprietà sulla base di un fatto illecito.

L’art. 43 TU espropri è stato così successivamente dichiarato incostituzionale dalla Consulta, la quale, tuttavia, non ha preso posizione sul problema, limitandosi a dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma per eccesso di delega ex art. 76 Cost.

Tale mancata presa di posizione da parte della Consulta è stata definita da alcuni autori, secondo un suggestivo ossimoro, come un “assordante silenzio”, in quanto volta a eludere il problema, senza chiarire una volta per tutte i profili più controversi.

In tale contesto, è allora nuovamente intervenuto il legislatore introducendo l’art. 42-bis del T.U. espropri.

Tale norma si applica sia alle ipotesi di occupazione appropriativa, sia alle fattispecie di occupazione usurpativa e prevede che la Pubblica Amministrazione possa adottare un provvedimento acquisitivo di un’area precedentemente occupata.

Tale provvedimento determina un acquisto della proprietà dell’area non già retroattivamente, ma ex nunc. Non si ha quindi una sanatoria della precedente condotta illecita, ma un successivo acquisto ex nunc della proprietà del bene.

Si prevede tuttavia che detto provvedimento debba essere adeguatamente motivato.

In particolare, la Pubblica Amministrazione deve, innanzitutto, far riferimento alle eccezionali e attuali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, tenendo anche conto dei contrapposti interessi privati.

In secondo luogo, l’Amministrazione deve evidenziare l’assenza di ragionevoli alternative all’adozione dell’atto in questione.

Il pregiudizio subito dal privato è inoltre compensato dalla previsione di un indennizzo, parametrato nella misura del 10% del valore del bene, oltre ad un’ulteriore somma dovuta per il periodo di occupazione illegittima, determinata in via forfettaria, salvo prova del maggior danno.

La disposizione in esame è stata recentemente oggetto di una pronuncia della Corte costituzionale, che ne ha salvato la legittimità costituzionale.

In particolare, la Consulta nel 2015 ha ritenuto che l’acquisto non retroattivo della proprietà non tragga origine dall’illecita occupazione, ma dal successivo provvedimento acquisitivo emanato dalla Pubblica Amministrazione. In sostanza, dunque, la precedente illegittima occupazione è solo un presupposto di fatto dell’emanazione del successivo provvedimento acquisitivo, attraverso la cui adozione la Pubblica Amministrazione torna a muoversi nell’alveo della legalità amministrativa, esercitando un potere legittimamente attribuito dalla legge.

Si tratterebbe, in definitiva, di un procedimento espropriativo semplificato.

È alla luce di tali argomentazioni che, secondo la dottrina, si giustifica l’utilizzo del termine indennizzo da parte del legislatore: l’obbligo di indennità non sorgerebbe dal fatto illecito dell’occupazione, ma dal fatto lecito dannoso del provvedimento acquisitivo.

La Corte costituzionale, dunque, ha salvato la legittimità dell’agere amministrativo sul presupposto di una sostanziale autonomia del provvedimento acquisitivo rispetto all’azione illecita precedentemente posta in essere dalla Pubblica Amministrazione.

Inoltre, la Corte costituzionale valorizza l’obbligo motivazionale che sorregge l’atto e a cui s’è fatto cenno sopra. Così, la necessità di indicare puntualmente le eccezionali ragioni che ne giustificano l’emanazione, insieme all’impossibilità di pervenire a soluzioni alternative, ad avviso della Corte, relega il nuovo istituto ad una strada percorribile dall’Amministrazione solo in via di extrema ratio.

Tanto chiarito, si tratta ora di  verificare se la ricostruzione della Consulta basterà a salvaguardare il meccanismo in questione dalle censure della Corte europea dei diritti dell’uomo oppure se quest’ultima continuerà a configurare tale meccanismo come una indirecte expropriation incompatibile coi principi convenzionali e con il carattere fondamentale del diritto di proprietà riconosciuto dalla CEDU stessa.

Conclusioni

Alla luce di tutto quanto sopra considerato, si può dunque concludere che l’espropriazione per pubblica utilità è istituto controverso nel nostro ordinamento.

Esso ha da sempre dato luogo ad un acceso contrasto tra operatori del diritto, anche e soprattutto a fronte della diversa configurazione che il diritto di proprietà assume nella Costituzione italiana e nel sistema CEDU: nella prima è infatti disciplinato tra i rapporti economici, mentre nella seconda è qualificato come diritto fondamentale dell’uomo, come tale maggiormente “resistente” ad una sua limitazione e compressione.

Il confronto giurisprudenziale tra giudici interni e sovranazionali ha condotto a rilevanti innovazioni in tema di espropriazione di pubblica utilità.

Così, in primo luogo, esso ha condotto ad una modifica dei criteri legislativamente previsti per la determinazione dell’indennità di esproprio, in un’ottica di maggior tutela del proprietario del bene ablato.

In secondo luogo, l’impulso della Corte europea dei diritti dell’uomo è stato fondamentale nella frastagliata evoluzione normativa e giurisprudenziale che ha riguardato l’istituto dell’occupazione appropriativa e che ha portato all’introduzione dell’art. 42 bis T.U. espropri.

Tale ultima norma è stata salvata dalla scure della Consulta, la quale ha configurato il neo-introdotto provvedimento acquisitivo come atto autonomo rispetto al comportamento illegittimo alla base.

Tuttavia, il dibattito non può certo dirsi sopito, dovendosi attendere le pronunce sul punto della Corte europea dei diritti dell’uomo, alla quale spetterà il compito di verificare se l’espediente cui la Consulta ha fatto ricorso sia sufficiente a salvare la legittimità convenzionale dell’istituto di recente introduzione.

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