L’essere umano nel diritto penale: note su una giusantropologia penale

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Il Diritto è un convertitore: assorbe fatti fisici e li restituisce in forma simbolica. L’essere umano non è un’eccezione: al pari di qualsiasi altro evento storico esso viene assunto nel congegno giuridico e rielaborato in una figura normativa complessa. La fisiologia di quest’ultima si basa su un meccanismo commutatore capace di trasformare un enunciato descrittivo in una rappresentazione prescrittiva, di volgere un’ontologia in una deontologia.

In questo articolo si analizzerà la posizione umana configurata dalla norma penale a partire da una questione fondamentale: quale tipo umano è quello presente in tale branca del diritto pubblico? La risposta verrà tratta dal costituente sostanziale del diritto penale, con riguardo alla parte generale, racchiusa nel Libro primo del Codice omonimo.

1. Norma penale e profili personologici

Il sistema giuspenalistico italiano osserva un essere umano territoriale, fortemente ancorato alla propria autoctonia (artt. 3 e 4 c.p.), nonché vincolato dai modelli comportamentali del proprio tempo e dalle influenze sociali dell’epoca in cui vive (art. 2 c.p.). L’antropologia normativa tratteggiata non è tuttavia Stato-centrica perché ammette e riconosce reciproci rapporti con altre forme di statualità (artt. 12 e 13 c.p.).

L’Uomo penalistico agisce in un contesto caratterizzato dal bisogno di punire chi non uniforma la propria azione a quella costruita e accettata dal gruppo sociale cui esso appartiene. Non tutte le modalità punitive sono ammesse: quelle del sangue sono bandite (art. 21 c.p.); mentre sono approvate dalla comunità le pene che restringono la libertà personale o che nuociono alla ricchezza del delinquente (art. 18 c.p.). A chi commette un atto ostile verso la società di cui fa parte può essere inoltre preclusa, in via temporanea o definitiva, la possibilità di scegliere e essere scelto quale rappresentante della stessa; può essere privato dei titoli, delle dignità, dei gradi e degli onori a lui concessi; può essere dichiarato inidoneo al ruolo di tutore e persino decadere da quello di genitore; possono essergli revocati stipendi, assegni e pensioni; può essergli impedito di relazionarsi con l’amministrazione pubblica; gli può essere interdetto l’esercizio della professione di cui è maestro (artt. 28-38 c.p.).

L’essere umano derivante dall’impianto penalistico è altresì un soggetto gerarchico, ma pur sempre responsabile del proprio comportamento (art. 51 c.p.) nonché un individuo solidale, ovvero chiamato a gesti di altruismo allorquando si renda necessario proteggere la propria o l’altrui incolumità (artt. 52-54 c.p.). Le azioni di particolare valore morale e sociale sono infatti premiate (artt. 62 c.p.). La tutela pubblica nelle situazioni più gravi è percepita come un valore irrinunciabile (art. 131 c.p.) così come la salvaguardia assoluta del vertice dello Stato (art. 127 c.p.). Si accorda clemenza solo nell’ipotesi che il fatto commesso sia di ragguardevole tenuità (art. 131 bis c.p.).

È una persona in grado di autodeterminarsi e controllare le proprie emozioni e stati d’animo (art. 90 c.p.), e ad essa non viene mai perdonata l’impulsività. Tuttavia si comprende come, in determinate circostanze, sia particolarmente arduo mantenere un equilibrio psichico ed evitare azioni disdicevoli. È tale, ad esempio, la condizione di chi agisca perché provocato o in stato d’ira oppure quella di chi sia spinto a commettere gesti azzardati da una folla in tumulto: in queste eventualità si opera con indulgenza. In ogni caso la persona crudele e profittattrice è punita con severità (art. 61 c.p.). L’antropologia penalistica richiede altrettanta inflessibilità verso chi si abbandoni, malignamente o meno, ad un uso irregolare e smodato di sostanze alcoliche e stupefacenti (art. 87 e artt. 92-94 c.p.). La persona deve sempre mantenere la signoria su se stessa e scansare con fermezza quelle situazioni viziose e corruttrici che potrebbero compromettere la propria e l’altrui integrità. Anche simili episodi devianti vanno però giudicati con mitezza se sono il risultato di una intera vita consumata nella dissolutezza, ovvero alle dipendenze della sostanza di elezione. Tali esseri umani infatti hanno totalmente perso il proprio raziocinio e, con questo, l’autonomia del discernimento. Essi sono schiavi di un elemento psicotropo al quale hanno dedicato la loro esistenza; si trovano in permanente condizione di soggezione e senza potenza deliberativa, perciò è opportuno comprenderli e non condannarli (art. 95 c.p.).

L’informazione pubblica della comunità, svolta con onestà e autentico spirito di servizio, riveste primaria importanza nella società penalistica; per questa ragione chi abusa di tale potere, o chi omette di effettuare i controlli necessari sulle pubblicazioni, riceve una punizione esemplare (artt. 57-58 bis c.p.).


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2. L’uomo delinquente secondo il Codice penale

Un’attenzione speciale è posta verso coloro che reiterano indefessamente la delinquenza, ovvero che si mostrano resistenti alla deterrenza. Qui si offre un’ampia gamma tipologica: il recidivo, il delinquente abituale, il delinquente professionista e il delinquente per tendenza (artt. 99-108 c.p.).

La prima figura fa riferimento ad un soggetto che, dopo essere stato condannato, torna a commettere un illecito suscettibile di pena: è renitente, anarchico, oppositivo e refrattario a qualsiasi regola sociale.

Nella seconda specie rientra una persona dedita al delitto, vale a dire che ha strutturato il proprio modus vivendi sul crimine.

La terza soggettività è una variante del delinquente abituale: descrive chi trae profitto dalla propria opera criminosa, chi vive grazie ai frutti illegali prodotti da questa. Se il delinquente abituale è un amatore che agisce per vocazione, qui si rinviene di contro un’attività svolta per professione e con spiccata maestria.

Infine si incontra un sottotipo personologico residuale, ma ciò nondimeno il più terrificante di tutti. Questa categoria include un soggetto i cui reati denotano una peculiare predisposizione al delitto, un’indole oscura e malvagia che avvolge ogni aspetto della vita di detta persona. Un’incontenibile inclinazione criminale con cui bisogna confrontarsi e che va arginata con ogni mezzo.

La persona del diritto penale è ingegnosa, e può pensare di accordarsi con altri per agevolare o ingigantire i propri disegni criminosi (artt. 110-119 c.p.). La società è comunque in grado di apprezzare lo scorrere del tempo e di conferire valore alla dimenticanza e al perdono anche di fatti molto gravi (artt. 151-152 c.p.; artt. 157 e 174 c.p.). Il pentimento sincero e la conseguente riabilitazione sociale sono elementi strutturali dell’antropologia penalistica (artt. 176 e 178 c.p.).

Ai più giovani si concede maggiore fiducia e speranza di ravvedimento (art. 169 c.p.) nonché un’estesa facoltà di compiere errori: i più piccoli non vanno mai toccati e sono immuni da qualsiasi punizione (art. 97 c.p.). L’anagrafe non è però una scusante universale: bisogna infatti aver riguardo all’età (art. 98 c.p.) e alle finalità rieducative e di risocializzazione che essa impone.

In funzione della gravità del fatto commesso e della condotta perpetrata (art. 133 c.p.), l’Uomo penale può essere poi considerato socialmente pericoloso e sottoposto a misura di sicurezza: la comunità si impegna in ogni caso a contemperare esigenze securitarie e bisogni sociali dell’individuo. Persino i beni patrimoniali che sono il risultato o lo strumento del delitto sono sottomessi a rigide restrizioni amministrative (artt. 199-240 bis c.p.).

3. Conclusioni

Da questo ridotto affresco normativo emergono i tratti essenziali di un tipo umano che, secondo i dettami del diritto penale italiano, trova nella responsabilità collettiva la ragione della propria libertà personale e nel sacrificio della condotta individuale lo scopo dell’attività comunitaria.

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Francesco Gandolfi

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