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Il divieto di analogia nel diritto penale.
Il principio di frammentarietà del diritto penale impone al Legislatore di selezionare quelle sole condotte effettivamente meritevoli di pena e di esporre a sanzioni amministrative ovvero civili tutte quelle altre condotte meno riprovevoli ed offensive. Ciò spiega il principio di tassatività insieme alla consequenziale scelta di vietare in materia penale il ricorso all’applicazione analogica delle norme incriminatrici, ai sensi e per gli effetti dell’art. 14 delle Disposizioni sulla legge in generale. La giurisprudenza, a seguito di un acceso e lungo dibattito, ad oggi ritiene che la portata del divieto di analogia nel diritto penale non sia assoluta, dal momento che il principio cardine del settore, quale quello del favor rei, consentirebbe di derogarvi ogni qualvolta in cui sussistono lacune normative involontarie del Legislatore che potrebbero essere colmate da norme penali favorevoli prescritte per fattispecie analoghe, salvo i casi in cui queste ultime abbiano carattere eccezionale. Pertanto, esigenze di giustizia e di tutela pongono spesso la giurisprudenza nella condizione di celare un intervento analogico, formalmente con consentito dalla legge, sotto la dicitura di interpretazione estensiva, quando il divieto di analogia riservi trattamenti diversi, ingiustamente discriminatori, a fattispecie simili avvinte dalla medesima ratio. Quello dell’estensione analogica delle cause di non punibilità ai conviventi more uxorio ne è un esempio, che è, attualmente, al centro di un dibattito giurisprudenziale, che le Sezioni Unite sono state chiamate a ricomporre.
Il divieto di analogia, di cui all’art. 14 delle Preleggi, rappresenta una deroga al principio generale dell’ordinamento giuridico che ammette il ricorso all’analogia legis ovvero iuris, sancito dall’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, nella consapevolezza che i rapidi cambiamenti delle dinamiche sociali lungo la linea del tempo rendono impossibile per il Legislatore riuscire a prevedere ed a disciplinare tutti i fatti, atti ed attività che si manifestano nel contesto sociale. Viene, dunque, invocato l’intervento dell’interprete laddove ci siano fattispecie, alle quali non sia stata dedicata una disciplina puntuale, ma che risultano essere ad ogni buon conto meritevoli di tutela. Come già brevemente precisato nell’incipit del presente elaborato, nel diritto penale, invece, il principio di frammentarietà delle condotte meritevoli di pena richiedono che l’azione penale rappresenti l’extrema ratio con cui il Legislatore decide di rispondere in chiave repressiva e, al contempo, rieducativa a condotte lesive di beni giuridici costituzionalmente protetti, connotate da particolare disvalore sociale. Ciò posto, limitatamente alle norme penali opera, il divieto di analogia, la cui portata applicativa è stata soggetta a temperamenti giurisprudenziali.
Analogia in bonam partem e limite delle norme eccezionali.
Il superamento della tesi della portata assoluta del divieto di analogia delle norme penali, sostenuto da un orientamento evolutivo della giurisprudenza, muove dalla considerazione secondo cui il sistema penale sia fondato sul principio del favor rei, da cui, dunque, devono essere prese le mosse ai fini della corretta interpretazione ed applicazione dei principi di legalità e, dunque, dei suoi corollari, tra cui quello di tassatività e non, come erroneamente taluni sostengono, viceversa.
Tali presupposti consentono di marginalizzare l’ambito applicativo del divieto di cui all’art. 14 delle Preleggi nelle sole ipotesi in cui l’intervento analogico riguardi norme incriminatrici ovvero, più in generale, norme penali sfavorevoli per il reo[1]. Questi risultati si basano, ancor prima che sul sopracitato divieto, sul principio di legalità delle norme incriminatrici, sancito all’art. 25, co. 1, Cost., che ostacola qualsiasi intervento della giurisprudenza volto a creare nuove fattispecie penalmente rilevanti ovvero ad estendere l’applicazione di norme incriminatrici.
Diversamente, la giurisprudenza, attualmente, ammette il ricorso all’analogia in bonam partem, allorquando ciò consenta l’estensione a fattispecie analoghe di norme penali di favore per il reo. Sicché, in siffatte ipotesi, riemerge la validità dello strumento analogico secondo il principio generale dell’ordinamento di cui all’art. 12 delle Preleggi, che porta, però, con sé il limite operativo dato dalle norme eccezionali.
Si legga anche:”Art. 384 c.p.: la non punibilità del convivente di fatto”
Le cause di esclusione della punibilità: natura giuridica.
Ciò posto, è necessario approfondire la questione giuridica inerente l’estensione analogica delle cause di non punibilità in senso stretto per poi, nel prosieguo, meglio comprendere le argomentazioni poste a fondamento di ciascuno dei due orientamenti che, attualmente, ancora si contrappongono in giurisprudenza sull’applicazione estensiva delle cause di non punibilità ai conviventi more uxorio.
Le cause di non punibilità in senso stretto, parimenti definite cause di esclusione della pena, rappresentano circostanze di carattere oggettivo ovvero soggettivo sulla base delle quali il Legislatore, secondo discrezionali scelte di politica legislativa in materia criminale, sceglie di non punire il reo.
Queste circostanze fanno emergere l’esigenza di tutelare interessi giuridicamente rilevanti per l’ordinamento al punto rendere più opportuno rinunciare all’irrogazione della pena, prevalendo, dunque, sulle istanze di tutela dell’ordine pubblico negativamente inciso dalla condotta incriminata e della persona offesa, vittima del reato. In tali casi, il reato si è perfezionato in tutti i suoi elementi strutturali, oggettivi e soggettivi, richiesti dalla norma incriminatrice. Ciò posto, sussiste una condotta antigiuridica e colpevole, che è stata però adottata in presenza di circostanze che il Legislatore, eccezionalmente, decide di valorizzare, consentendo l’esenzione dalla pena. Ciò spiega la natura eccezionale, accordata e riconosciuta in dottrina ed in giurisprudenza, alle norme che disciplinano le cause di esclusione della pena.
Sulla scorta di quanto sin qui esposto, dunque, le cause di non punibilità in senso stretto non sono suscettibili di estensione analogica, in considerazione della loro natura eccezionale, sebbene ne deriverebbero effetti favorevoli per il reo.
Le scelte di politica legislativa non sono sindacabili, a meno che esse non appaiano manifestamente irragionevoli.
Nozione di “prossimi congiunti” ex art. 307, co. 4, c.p. e portata applicativa delle cause di esclusione della pena di cui agli artt. 384 e 649 c.p.: orientamenti giuridici a confronto.
Queste sono state le argomentazioni che hanno sostenuto la tesi, condivisa dalla giurisprudenza costituzionale, della non estensione analogica ai conviventi more uxorio di quelle cause di non punibilità, che, tutelando il sentimento familiare, consentono al reo non essere punito, allorquando abbia commesso il reato per necessità di difendere un suo prossimo congiunto.
Ai sensi dell’art. 307, co. 4, c.p., “agli effetti della legge penale si intendono per prossimi congiunti”, ai fini che in tal sede ci occupano, solo i coniugi, non anche i conviventi more uxorio.
La giurisprudenza ha dibattuto sulla sussumibilità dei conviventi more uxorio nella nozione di prossimi congiunti. A tal proposito, vengono in rilievo le cause di esclusione della pena di cui all’art. 384 e 649 c.p. che operano rispettivamente a favore dei reati commessi contro l’Amministrazione della Giustizia e contro il patrimonio. Si pensi, nel primo caso, al reato di falsa testimonianza, di intralcio alla giustizia ovvero di favoreggiamento e, nel secondo caso, invece, ai reati di rapina, estorsione ovvero furto.
Alla tesi della impossibilità dell’estensione analogica in ragione della natura eccezionale delle cause di non punibilità in senso stretto[2], come sin qui argomentato, c’è chi invece ne sostiene l’ammissibilità ricorrendo allo strumento dell’interpretazione convenzionalmente conforme delle sopracitate norme del codice penale.
L’orientamento favorevole[3], infatti, richiama l’art. 8 della CEDU che sancisce il rispetto della vita privata e familiare di ogni persona. Tale principio induce a riconoscere ed a tutelare tutti i consorzi simil-familiari, basati sulla condivisione di affetti, sull’assistenza morale e materiale, benché non fondati sul vincolo del matrimonio[4]. La giurisprudenza di legittimità ha sostenuto tale tesi sulla scorta di siffatte argomentazioni, precisando che trattasi di principi sovrannazionali, cui l’ordinamento giuridico interno è vincolato a conformarsi, ai sensi dell’art. 117, co. 1, Cost. Sicché un’interpretazione convenzionalmente conforme degli artt. 307, 384, 649 c.p. è necessaria e dovuta, non operando alcun principio costituzionale come “controlimite” a questo risultato ermeneutico.
La necessità di riconoscere e di tutelare nuove forme di consorzi sociali, infatti, è stata la ratio che ha spinto il Legislatore con la l. 76 del 2016, nota come Legge Cirinnà, a riconoscere e a disciplinare le unioni civili, formate da individui dello stesso sesso, in tendenziale e parziale conformità con la disciplina del matrimonio, e le convivenze “contrattualizzate”. Tale intervento normativo, nonostante i buoni propositi ed i considerevoli esiti cui è giunto, ha, tuttavia, lasciato ai margini della sfera del giuridicamente rilevante le convivenze more uxorio, non regolate da contratto e, dunque, non “qualificate”.
Infatti, sebbene la Legge Cirinnà abbia delegato il Governo a modificare, in armonia con lo spirito della riforma, le norme penali, resta irrisolta la questione interpretativa della equiparazione dei conviventi more uxorio ai prossimi congiunti. Infatti, ad oggi, nel testo normativo di cui all’art. 307, co. 4, c.p. sono espressamente ricompresi nella nozione di prossimi congiunti le parti di un’unione civile tra persone dello stesso sesso.
Il Governo, su delega del Legislatore della L. n. 76 del 2017, è intervenuto nello stesso senso anche sull’art. 649 c.p., estendendo gli effetti della causa di non punibilità ivi prevista, anche quando l’unione sia cessata.
Questione di legittimità costituzionale dell’art. 384 c.p. ed applicazione estensiva art. 307, co. 4, c.p. ai conviventi more uxorio: il sì della Consulta e la possibile ratio della decisione in attesa del deposito delle motivazioni.
Questi interventi riformatori non hanno sopito il dibattito, che, anzi, è proseguito, consolidando le argomentazioni della tesi favorevole all’estensione degli effetti delle norme penale previsti per i prossimi congiunti ai conviventi more uxorio. I sostenitori di tale orientamento non hanno, però, fatto riferimento all’analogia. Hanno, piuttosto, fatto leva sul diritto al rispetto della vita privata e familiare, riconosciuto dalla CEDU all’art. 8, e sull’obbligatoria interpretazione convenzionalmente conforme dell’art. 307, co. 4, c.p. e delle norme di richiamo, che diversamente sarebbero incompatibili con le disposizioni sovranazionali.
Pertanto, le critiche emerse in dottrina, che hanno tacciato la giurisprudenza di legittimità di effettuare un’illegittima estensione analogica di norme eccezionali, in spregio al limite sancito dall’art. 12 delle Preleggi.
Siffatte obiezioni hanno reso necessario rimettere la risoluzione del dibattito alle Sezioni Unite, che sono, quindi, state chiamate[5] a risolvere in chiave nomofilattica la questione relativa all’applicabilità al convivente more uxorio della specifica norma di cui all’art. 384 c.p., ponendo le medesime nelle condizioni di dover analizzare la questione in chiave esaustiva, finanche risolvendo il problema nozionistico di prossimo congiunto. L’esame della questione in oggetto ha condotto le Sezioni Unite della Corte di Cassazione a fornire risposta affermativa al quesito innanzi esplicato, come desumibile dalle informazioni provvisorie diramate dall’ufficio stampa della Suprema Corte, su cui si attende l’esplicazione delle motivazioni in diritto.
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Note
[1] C. Cass. sentt. n. 35511/2010; n. 12372/2003.
[2] C. Cost. sentt. n. 352/2000, n. 232/2018; C. Cass. sentt n. 32190/2009, n. 39480/2015.
[3] C. Cass. sentt. n. 34147/2015, n. 37873/2019.
[4] C. EDU “Marckx c. Belgio” del 1979, “Emonet e altri c. Svizzera” del 2007.
[5] C. Cass., sez. VI, ord. n. 1825/2020.
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