Libero accesso al mare tra poteri dell’Amministrazione, one shot temperato e beni comuni

Allegati

Il TAR Campania si è pronunciato in merito alla fruibilità di una parte del litorale di Napoli.

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TAR Campania – Sez. VII – Sent. n. 45 del 01/02/2024

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Indice

1. La vicenda in esame

In data 14.07.2023 il T.A.R. di Napoli si pronunciava in merito al ricorso proposto dal Coordinamento “Mare Libero” avverso una serie di atti amministrativi aventi ad oggetto la fruibilità di una parte del litorale partenopeo e, nello specifico, veniva gravata l’ordinanza n. 83 del 2022 del Presidente della Autorità di Sistema Portuale del Mar Tirreno Centrale.
Il provvedimento amministrativo menzionato prescriveva alla concessionaria  che occupava la porzione di spiaggia prossima a quella libera, le seguenti operazioni: “il cancello [di accesso alla spiaggia] deve essere chiuso mediante apposito lucchetto di sicurezza […] nel periodo luglio-agosto-settembre detto cancello deve essere aperto dalle ore 08.00 alle ore 19.00, per consentire l’accesso alla spiaggia libera ivi esistente alla collettività, in conformità con i protocolli di intesa stipulati con il Comune di Napoli […] le relative operazioni di chiusura e di apertura devono essere effettuate a cura della [concessionaria]”.

2. Il primo giudizio

In via preliminare, il Giudice amministrativo, nell’affrontare la questione sottoposta alla sua cognizione, precisa come non sussista alcun difetto di giurisdizione della vicenda in rilievo, dacché non si verte in materia di servitù di passaggio o di diritto d’uso (così come eccepito da una delle parti in giudizio) ma, più correttamente, dell’esercizio di poteri di variazione del regime concessorio, ex art. 24 del Regolamento per la navigazione marittima, così come manifestati dall’Autorità portuale. Pertanto, il sindacato sugli atti amministrativi relativi a rapporti di concessione di beni pubblici non possono che essere sottoposti alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo, presupponendo, tra l’altro, il sindacato sul corretto esercizio di un potere pubblico e sulla sua estrinsecazione.
Ad abundantiam, occorre precisare come per il dato stesso in virtù del quale si verte in materia di beni pubblici demaniali, il cui godimento è regolamentato dall’Autorità amministrativa, le posizioni private vantate nei riguardi del bene oggetto del giudizio non possono che qualificarsi come interessi legittimi.
Ritornando alla questione sostanziale eccepita con il ricorso amministrativo, veniva evidenziato nell’atto introduttivo del giudizio come “il cancello posto all’unico varco da cui si ha accesso a quella spiaggia libera [i.e. la spiaggia pubblica del litorale di Posillipo compresa tra Palazzo Donn’Anna e lo stabilimento X], ubicato in Napoli alla via X, veniva  reiteratamente trovato chiuso da chi volesse raggiungere quel tratto del litorale posillipino non affidato in concessione a privati per fruire gratuitamente e liberamente della risorsa naturale di proprietà del demanio pubblico[1].  L’obiettivo della parte si sostanziava nel voler “denunciare le difficoltà e gli ostacoli che si frappongono ad un accesso davvero libero e gratuito per tutti al tratto balneabile del litorale di Napoli” e sindacare “le modalità di gestione del varco di accesso alla spiaggia pubblica del litorale di Posillipo compresa tra Palazzo Donn’Anna e lo stabilimento balneare denominato X[2].
In merito alla legittimità dell’ordinanza dell’Autorità portuale menzionata, il Tribunale Amministrativo ha rilevato la presenza di vizi provvedimentali sia in relazione allo sviamento di potere che in relazione al difetto di istruttoria e alla motivazione dell’atto.
Nello specifico, il Giudice adito ha ricordato come le regioni, nel predisporre i piani di utilizzazione delle aree del demanio marittimo devono individuare un corretto equilibrio tra le aree concesse a soggetti privati e gli arenili liberamente fruibili; devono inoltre individuare le modalità e la collocazione dei varchi necessari al fine di consentire il libero e gratuito accesso e transito, per il raggiungimento della battigia antistante l’area ricompresa nella concessione, anche al fine di balneazione [3].
Non solo, si ricorda pure come l’attività normativa debba essere adottata con rispetto di principi e criteri quali l’individuazione di aree omogenee suscettibili di affidamento in concessione, assicurando l’adeguato equilibrio tra le aree demaniali in concessione e le aree libere o libere attrezzate, nonché la costante presenza di varchi per il libero e gratuito accesso e transito per il raggiungimento della battigia antistante l’area ricompresa nella concessione, anche al fine di balneazione, con la previsione, in caso di ostacoli da parte del titolare della concessione al libero e gratuito accesso e transito alla battigia, delle conseguenze delle relative violazioni [4].
Ebbene, ritiene il Giudice amministravo che, nel caso in esame, l’ordinanza dell’Autorità portuale fosse stata adottata esclusivamente per far fronte al degrado ambientale dell’area, non anche al prospettato rischio idrogeologico. Tant’è che la medesima Autorità, con l’ordinanza gravata, procedeva alla chiusura del tratto di spiaggia destinata al libero godimento per il periodo da ottobre a giugno “nelle more della definizione del piano di gestione del sistema costiero” così da tutelare la collettività “da eventuali rischi di natura idrogeologica[5].
A dire dell’Autorità impugnata la motivazione risultava giustificata dalla comunicazione della concessionaria che aveva disposto la sospensione dell’attività, in ottemperanza a quanto disposto dal Comune di Napoli che consentiva da SCIA l’apertura dello stabilimento solo da luglio a settembre per il rischio evidenziato; il presupposto riconoscimento dell’area quale a rischio idrogeologico da parte di Enti pubblici; la valutazione dei fenomeni naturali atti ad incidere sulla sicurezza dell’area; così come il degrado ambientale dell’area e numerose altre condizioni.
Purtuttavia, il Giudice adito ha ritenuto che l’Autorità portuale non abbia e invece avrebbe dovuto motivare diversamente l’adottato assunto del rischio idrogeologico, non limitandosi a richiami generici ed indicando, precisamente, le fonti che avrebbero determinato la valutazione anzidetta.
Pertanto, il ricorso veniva accolto e, per l’effetto, si dichiarava l’annullamento della ordinanza impugnata.
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A cura di Marzia De Donno, Gianluca Gardini e Marco Magri | Maggioli Editore 2022

3. Il giudizio cautelare successivo alla riedizione del potere amministrativo

Ciò che poteva apparire come una vicenda in parte conclusasi ha visto, invece, un suo proseguo.
Con ordinanza cautelare del 1.1.2024 il Tribunale Amministrativo partenopeo si interessava nuovamente della questione.
Ancora una volta, il Coordinamento Nazionale per il Mare Libero procedeva ad impugnare un nuovo provvedimento dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Tirreno Centrale [6] ed una serie di altri atti amministrativi che incidevano sulla medesima vicenda.
Il novello provvedimento impugnato emanato dall’Autorità di Sistema Portuale del Mar Tirreno Centrale prescriveva che  “stante il rappresentato timore per la pubblica incolumità riguardo l’assenza della pianificazione comunale di difesa della costa e di sistemi di allerta e protezione civile” la società concessionaria si rendeva “onerata della chiusura ed apertura del cancello pubblico di accesso all’arenile di Posillipo disciplinato con ordinanza AP n. 6/99, ad astenersi, a decorrere dal 31 ottobre p.v., dall’apertura del predetto cancello fino all’esito della emanazione della pianificazione” [7].
Così, il T.A.R. procedeva ad accogliere l’istanza cautelare ai fini del riesame dell’impugnato provvedimento, fissando a tal fine il termine di 20 giorni dalla comunicazione o notificazione della ordinanza sulla scorta di una lapidaria motivazione che contemplava la visione di come “la giurisprudenza [abbia] sancito la riconducibilità del demanio marittimo alla categoria dei beni pubblici il cui  libero godimento afferisce alla tutela della personalità umana e del suo corretto svolgimento nell’ambito dello Stato sociale, e l’esigenza interpretativa di guardare al tema dei beni pubblici oltre una visione prettamente patrimoniale-proprietaria per approdare a una prospettiva personale-collettivistica, alla luce degli articoli 2, 9 e 42 della Costituzione (ex multis, Consiglio di Stato, sezione sesta, ordinanza n. 2543 del 2015; Sezioni Unite civili, sentenza n. 3665 del 2011; Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana, sentenza n. 990 del 2022[8].

5. Brevi considerazioni a margine della questione

Ebbene, la vicenda in esame appare rilevante sotto svariati fronti d’indagine.
Innanzitutto, come risulta agevolmente percepibile a primo impatto, in riferimento a problematiche più amministrativistiche che costituzionali, bisognerebbe interrogarsi su come e in che modo si possibile, in casi siffatti, immaginare un effetto conformativo pieno ed efficace della statuizione resa dal Giudice amministrativo.
È necessario rammentare come, nel nostro ordinamento, non sia concepibile, alla luce della disciplina vigente, un principio c.d. di one shot secco. Pertanto, non ogni annullamento dichiarato dal Giudice amministrativo impone all’Autorità procedente l’impossibilità di riadottare l’atto annullato, ma semplicemente alla Pubblica Amministrazione è consentito, in fase di riedizione del potere amministrativo successivo alla pronuncia giudiziale, adottare il nuovo provvedimento con motivazione o valutazione differente.  Ad ogni buon conto, il nuovo provvedimento amministrativo deve tener  conto della pronuncia invalidante senza eluderla o inottemperarla: pena la frustrazione del giudicato amministrativo e il vizio genetico del nuovo atto.
Tuttavia, se il c.d. one shot puro non può essere teorizzato, appare evidente come la riedizione del potere amministrativo e, dunque, il suo riesercizio, sia temperato dalla fattispecie in rilievo, in uno, come già appena sopra ricordato, alla pronuncia giudiziale amministrativa che ha dichiarato viziato il precedente provvedimento.
Difatti, secondo costante giurisprudenza amministrativa, qualora residui un potere discrezionale, come nella fattispecie, deve ritenersi che: a) il giudicato non si estende a situazioni nuove e non contemplate in
precedenza (le cd. sopravvenienze); b) il giudicato si estende anche al fatto, ossia alla sussistenza di determinati presupposti relativi alla pretesa del ricorrente la cui esistenza sia stata accertata in giudizio; c) l’amministrazione nell’eseguire la regola del giudicato deve ispirarsi alla buona fede e alla leale collaborazione [9].
La regula iuris rappresentata dall’art. 10 bis della l. 241/1990 allora è chiara.
Allo stesso modo però, nel caso in esame, non appare (almeno prima facie) chiara la residua discrezionalità dell’Amministrazione nella nuova fase di esercizio del suo potere discrezionale e il suo recinto applicativo o, per lo meno, tale discrezionalità risulta essere decisamente limitata.
È qui allora che il terreno muta e si muove dalle considerazioni amministrative a quelle costituzionalizzanti, tanto efficacemente espresse dal Giudice partenopeo, le quali chiariscono la portata della vicenda.
Se come avallato dalla giurisprudenza amministrativa richiamata “il godimento dei beni appena citati, come il mare, è funzionale a consentire il compiuto sviluppo della persona umana […] proprio in tale materia assume ancora maggiore rilievo normativo l’assunto che debba essere la pubblica amministrazione a farsi carico, con gli strumenti che l’ordinamento mette a disposizione, di individuare le modalità con cui la fruizione del mare possa essere accessibile a tutti, garantendo contemporaneamente la tutela del paesaggio e dell’ambiente” [10] divenendo rilevante la tutela di un bene costituzionalmente inviolabile, ex art. 2 Cost. e non più il mero garantismo di un interesse legittimo o di un diritto soggettivo degradabile.
L’irraggiamento dei principi costituzionali nel mondo dei codici prerepubblicani ha sicuramente determinato la necessità di rileggere, soprattutto in tempi prossimi al nostro, gli istituti civilisti come serventi alla funzione solidaristica che pregna il nostro Stato sociale di diritto.
La Costituzione repubblicana, infatti, pretende che la si integri con le disposizioni presenti all’interno dei vari gradi dell’ordinamento e si finisca per immaginare una visione giuridica complessiva che tenga conto della tutela dei bisogni sociali dell’essere umano e della sua personalità all’interno della società di appartenenza.
Seppur la Costituzione non costruisca al suo interno una esatta categoria di bene pubblico è possibile ricavare, attraverso l’applicazione diretta ed immediata dei principi costituzionali fondamentali, una serie di paradigmi utili per la tutela della personalità individuale e ritenere soddisfatto l’obbligo statale di protezione.
A questo proposito, già da tempo si era ricostruito (anche in chiave giurisprudenziale) come, attraverso l’applicazione dei principi di cui agli artt. 2,3,42 e 9 Cost. “si ricava il principio della tutela della umana personalità e del suo corretto svolgimento nell’ambito dello Stato sociale, anche nell’ambito del “paesaggio”, con specifico riferimento non solo ai beni costituenti, per classificazione legislativa – codicistica, il demanio e il patrimonio oggetto della “proprietà’” dello Stato ma anche riguardo a quei beni che, indipendentemente da una preventiva individuazione da parte del legislatore, per loro intrinseca natura o finalizzazione risultino, sulla base di una compiuta interpretazione dell’intero sistema normativo, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività[11].
Sul tema, successivamente alla riforma dell’art. 9 della Costituzione, che ha visto la novella del principio supremo con l’inserimento della previsione della tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi anche nell’interesse delle future generazioni, sarebbe possibile immaginare un rafforzamento del diritto al libero godimento del mare e alla sua costante preservazione sia in ottica di progressiva sottrazione alle logiche di mercato sia in chiave di garantismo.
Tale rimedio di protezione avrebbe riguardo non solo di quei diritti inviolabili della personalità collegati alla fruizione del bene demaniale di noi individui presenti in questo tempo, ma anche di coloro i quali  nasceranno in futuro.
Da ciò potrebbe discendere un obbligo conseguenziale alla piena conservazione, con divieto di inalterabilità, ma anche un diritto di altri, pro-futuro, a dover/poter godere del bene della vita in questione allo stesso modo di coloro che lo hanno potuto fare in tempi precedenti.
In ogni caso, ciò che emerge dagli ultimi arresti giurisprudenziali, sovrannazionali e della più attenta dottrina è l’esigenza ormai improcrastinabile di guardare con occhi differenti alla categoria dei beni pubblici in generale ed al loro regime specifico.
A voler più correttamente intendere tale affermazione,  si costruisce nel tempo una visione che sposta il baricentro dalla singola classificazione del bene verso la sua idoneità a soddisfare l’adempimento degli obblighi di solidarietà da parte dello Stato.
Pertanto, ciò che appare evidente è il superamento del dualismo tra patrimonio e individualismo nella funzione satisfattiva del bene, per una dichiarazione più apertamente sociale e irrinunciabile che ponga l’attenzione dalla sua staticità alla sua dinamicità funzionale.
Per dirle in altre parole, come bene ha fatto il giudice di legittimità “Cio’ comporta che, in relazione al tema in esame, più che allo Stato – apparato, quale persona giuridica pubblica individualmente intesa, debba farsi riferimento allo Stato –collettività, quale ente esponenziale e rappresentativo degli interessi della cittadinanza (collettività) e quale ente preposto alla effettivi realizzazione di questi ultimi; in tal modo disquisire in termine di sola dicotomia beni pubblici (o demaniali) – privati significa, in modo parziale, limitarsi alla mera individuazione della titolarità dei beni, tralasciando l’ineludibile dato della classificazione degli stessi in virtu’ della relativa funzione e dei relativi interessi a tali beni collegati[12].
Non a caso, la commissione guidata da Stefano Rodotà, interessatasi alla modifica della disciplina dei beni contenuta all’interno del codice civile, aveva proposto di definire i beni comuni come “cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona”.
Il fondamento costituzionale di tale teorizzazione risiederebbe, per molti, nell’art. 42 della Costituzione, in particolare nel suo comma secondo. Ed è ancora una volta Rodotà ad immaginare un forte principio di funzione sociale, addivenendo ad un’enucleazione della proprietà privata diversa e rendendola, nei fatti, accessibile a tutti.
In tale maniera verrebbero giustificati interventi normativi finalizzati da un lato ad aumentare i singoli proprietari del bene e, dall’altro, a modellare la proprietà in modo da garantire funzione e godibilità collettiva in termini sociali.  
Per questa via, allora, percorrendo un passo indietro nelle brevi considerazioni fino a qui svolte, nonostante la possibilità per l’Amministrazione all’atto del ri-esercizio del potere amministrativo di poter adottare un provvedimento simile, ma retto da diversa motivazione, risulta difficile poter suppore uno spazio ancora rilevante di discrezionalità a quadro fattuale invariato. Se non altro perché, banalmente, il sacrificio di un diritto costituzionalmente rilevante non può che essere realizzato, in un bilanciamento certosino, solo per un altro di pari grado e che risulti da tutelare, nello specifico, in maniera maggiore.
Questo dato testimonia come l’irraggiamento dei valori costituzionali all’interno dei vari settori dell’ordinamento finisca per fungere da argine al potere pubblico in ogni sua modalità di esercizio e che, aumentando lo spazio dei diritti costituzionalmente garantiti si restringe, in maniera più che proporzionale, la possibilità di intervento dell’Autorità pubblica. Ciò almeno a paradigma giuridico invariato rispetto alle premesse assunte.
Tuttavia, appare improbabile immaginare che la giurisprudenza possa, in questo caso, produrre arresti cedevoli sul punto, essendo ormai costante nelle statuizioni giurisdizionali la cultura della garanzia dei diritti pubblici finalizzati al corretto adempimento dei doveri sociali da parte dello Stato.

Note

  1. [1]

    Cfr. Tar Campania – Napoli, sez. VII,  sentenza del 14.7.2023 n. 4282.

  2. [2]

    Ibidem

  3. [3]

    V. L’articolo 1, comma 254 della legge n. 296 del 2006

  4. [4]

    V. L’articolo 4, comma 2, della legge n. 118 del 2022

  5. [5]

    Cfr. Ordinanza n. 83 del 2022 del Presidente della Autorità di sistema portuale del Mar Tirreno Centrale

  6. [6]

    V. Autorità di Sistema Portuale del Mar Tirreno Centrale, prot. n. U.0028791 del 30 ottobre 2023

  7. [7]

    idem

  8. [8]

    V. Tar Campania – Napoli, ordinanza n. 242/2024 dell’1.02.2024

  9. [9]

    Cfr. sul punto Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 2/2013 e n. 11/2016.

  10. [10]

    V. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana, sentenza n. 990 del 2022

  11. [11]

    Cfr. Cass. civ. sez. uu.  sentenza n. 3665 del 14/02/2011

  12. [12]

    idem

Andrea Eugenio Chiappetta

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