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Introduzione
La Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata dall’Assemblea Generale dell’ONU, nel dicembre 1948 è il risultato del lungo cammino dell’uomo nel riconoscimento del proprio diritto alla libertà. L’inalienabilità dei diritti civili, politici, sociali e, nel preambolo dignità umana e l’esercizio della libertà, sono legati indissolubilmente al rispetto della dignità stessa e della giustizia.
L’esercizio dei diritti di libertà, ha quindi innalzato la dignità umana, ma nella storia, la libertà è stata intesa in modi diversi: con l’Illuminismo è stata esaltata, divenendo la condizione universale di tutti gli uomini, in quanto cittadini del mondo, senza alcuna distinzione di razza, sesso, e classe sociale.
Nell’antichità, la libertà era considerata dai Greci, popolo a cui si deve la democrazia , come una condizione essenziale per poter vivere nella «polis» (la città intesa come primo nucleo sociale, come comunità-stato), da cui erano esclusi, però, schiavi, donne e forestieri.
Nel Medio Evo, invece, la libertà, secondo la concezione cristiana, rappresentava la possibilità dell’uomo, in quanto creatura di Dio, di scegliere tra il bene ed il male, in contrapposizione ai sostenitori della Riforma protestante, secondo i quali l’essere umano era completamente subordinato a Dio, quindi sostanzialmente non libero.
Si ravvisa perciò una visione dell’umanità che vive in una dimensione estranea rispetto a quella naturale; da una parte la natura come concepita come priva di finalità e libertà, dall’altra l’uomo, considerato come essere operante in una dimensione di libertà.
La natura ha subito un’evoluzione che trova nell’uomo il suo compimento, mediante il principio della propria razionalità e libertà. Egli, è passato da un primato attribuito alla forza e all’istinto ad uno in cui primeggia l’intelligenza e la sensibilità. Ciò, fa pensare, ad una sorta di finalismo: l’essere umano è sì il fine ultimo della natura, ma questo solo a condizione che egli sappia e voglia attribuire alla natura e a se stesso uno scopo finale.
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Libertà e volontà
Nel momento in cui l’uomo compie un’azione in virtù della propria libertà, essa rientra sia nell’ambito della legalità che in quello della moralità; nella prima, per la sua conformità alla legge, e ciò legittima l’azione ad essere qualificata come giuridica; nella seconda per la natura dei sentimenti e dei motivi che l’hanno determinata, qualificandola in tal modo, ad essere considerata come azione morale.
L’obbligazione è dunque la vera espressione del diritto: non è altro che la necessità di un’azione libera sotto l’impero della legge o come direbbe Kant, sotto l’impero categorico della ragione. Necessità dell’azione e libertà dell’agente sono gli elementi che la caratterizzano. L’azione rappresenta il fatto posto in essere da un uomo libero; l’agente, cioè la persona, è invece, il soggetto suscettivo di imputazione, vale a dire colui che è responsabile delle proprie azioni.
Da queste premesse si evince che il diritto, secondo la concezione kantiana,costituisce l’insieme delle condizioni, che permette alle singole volontà, di rapportarsi le une alle altre, sotto la legge generale della libertà. Quest’ultima rappresenta la radice del diritto, mentre la forma deriva dal fatto che l’uomo, nel corso della propria esistenza, dovrà a sua volta, rapportarsi con altri uomini liberi, i quali, avranno la possibilità di far rispettare il proprio diritto alla libertà.
Dalla teoria della legalità, deriva il diritto di punire: l’uomo deve essere punito perché si è reso colpevole, non già in virtù dell’utilità che egli stesso o la società può risentire dalla sua punizione; non si potrebbe dunque far uso dell’essere razionale come di un mezzo termine per ottenere un risultato: l’uomo è di scopo a se stesso: attraverso la punizione, egli, sarà in grado di riconoscere i propri limiti e di divenire, in tal modo, giusto.
La missione di cui parla Kant, rappresentante il più grande problema alla cui soluzione, la natura costringe la specie umana, consiste nel pervenire ad attuare una società civile che faccia valere universalmente il diritto.
L’essere umano che decide in obbedienza al dovere morale di compiere una determinata azione è consapevole che per quanto la sua decisione possa essere spiegata naturalisticamente, la vera sostanza della sua morale non risiede in questa concatenazione causale bensì in una libertà che coincide con l’essenza razionale del suo essere. L’essere razionale quindi appartiene a due mondi: a quello naturale, in quanto dotato di sensi e, per questo, è sottoposto alle leggi causali; al mondo intellegibile o noumeno, ovvero il mondo considerato in sé, indipendente dalle sensazioni e legami conoscitivi umani, nel quale la libertà, si manifesta nell’obbedienza alla legge morale, all’imperativo categorico.
Ma se la morale è dovere, quindi obbligatorietà, come potrà questa conciliarsi con l’assoluta libertà formale della scelta? La risposta risiede nel concetto di autonomia. La morale dell’individuo presuppone che sia il soggetto stesso, ad obbedire ad un comando che egli si è autonomamente dato, conformemente alla sua stessa natura razionale.
La differenza tra la libertà e l’autonomia consiste allora, nel fatto, che mentre la libertà delle leggi e delle istituzioni rappresenta l’elemento storico, il lato oggettivo, l’autonomia rappresenta quello soggettivo, ovvero la volontà che l’individuo decide di manifestare, nel momento in cui si rende conto di voler uscire dallo stato di minorità che lo contraddistingue.
Per poter raggiungere tale obiettivo, sarebbe necessario scindere il piano fenomenico da quello noumenico, in modo tale, da introdurre una casualità per libertà distinta da quella naturale; tuttavia in quanto essere razionale, l’uomo è dotato di una volontà libera e deve agire «in base a massime che possano nello stesso tempo valere come leggi universali».
Allora, è attraverso la manifestazione di volontà che il soggetto, determinando l’azione, esprime la libertà, intesa come capacità di sottrarsi ad ogni influsso empirico. Nello stesso essere, perciò, vengono a saldarsi tre caratteristiche: razionalità, libertà e moralità, le quali permettono di prendere coscienza e conoscenza dei propri limiti, e tentare di superarli, sapendo però, di poter fallire. «Affinché la finitezza degli esseri razionali non renda l’imperativo impraticabile, occorre considerarli nel loro rapporto con altri soggetti. Etica e diritto si distinguono per la motivazione soggettiva con cui le azioni vengono compiute, cioè per l’intenzione di seguire il dovere indipendentemente dalla coercizione. Si potrebbe così rileggere la morale kantiana come una percorritrice delle contemporanee etiche della responsabilità».
E’ la convivenza umana che consente all’uomo di progredire, anche se basata sulla paura e sul bisogno, essa permette di scoprire tutto il bene derivante dalla convivenza stessa, oltre l’interesse immediato e personale. Kant afferma che grazie all’ «insocievole socievolezza», la persona è in grado di ammettere che la pace e la legalità sono l’unica via possibile per poter vivere bene, per poter resistere alle sopraffazioni dell’altro.
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Dal diritto naturale al diritto positivo
Il diritto viene definito, secondo la concezione kantiana come «l’insieme delle condizioni per mezzo delle quali la volontà dell’uno può accordarsi con la volontà dell’altro secondo una legge universale della libertà». Con tale esplicazione, il filosofo ha voluto evidenziare l’importanza per ogni soggetto giuridico, di essere portatore di una sfera di libertà d’azione. Il riconoscimento di questa, nonostante sia un diritto innato, cioè un diritto che spetta ad ogni uomo in quanto tale, deve comunque entrare in un sistema di compatibilità reciproca, per cui ognuno deve rispettare il diritto dell’altro, affinché, il proprio sia a sua volta, riconosciuto dagli altri consociati. «Il criterio di questa compatibilità è una legge universale che viene stabilita dalla ragione umana».
Tuttavia, non si intende, descrivere gli ordinamenti realmente esistenti, bensì un sistema giuridico ideale, che possa essere utilizzato come strumento per migliorare e giudicare le istituzioni politiche del tempo. Mediante un’analisi a priori di esse, sarà possibile valutare, secondo criteri razionali, gli assetti esistenti nei diversi sistemi sociali e stabilire la loro corrispondenza o meno ad un dato ordine di giustizia. «L’originalità della nozione kantiana di diritto, non consiste tanto nella considerazione del diritto come un complesso di compatibilità di competenze giuridiche, fondate su prerogative innate dell’uomo, la quale è una dottrina fondamentale nella tradizione del giusnaturalismo, presupponente l’esistenza di un assetto giuridico naturale, previo alla costituzione del diritto positivo, quanto nella diversa determinazione del fondamento dell’ordine naturale».
Il diritto ha un fondamento naturale perché le azioni dell’uomo sono giuste o ingiuste, buone o cattive, in base alla loro conformità o difformità rispetto alla ragione. Ma Kant sviluppa una diversa concezione di quest’ultima, che fino ad allora, rispecchiava un ordine oggettivamente presente nel mondo, mentre ora, è in grado di determinare la conoscenza, in base a condizioni indipendenti dall’esperienza, le quali «ordinano secondo principi soggettivi i dati della sensibilità e, sul piano della conoscenza pratica, producono norme che riflettono il modo di operare della ragione».
L’ordine giuridico, che presenta le caratteristiche della sistematicità e dell’universalità non è altro che il riflesso della costruzione organizzata della ragione e riesce, così, ad attribuire validità universale ai suoi principi.
Ci si chiede, a questo punto, se il diritto sia concepito essenzialmente come positivo o piuttosto come naturale, nel senso di una struttura razionale non necessariamente coincidente con le norme di un ordinamento storicamente vigente. La risposta può essere ricercata, esaminando l’opera La Metafisica dei costumi, la quale presenta una divisione tra la dottrina del diritto (iurisprudentia), suscettibile di essere tradotta in leggi esterne e la dottrina della virtù (ethica), che sfugge invece, a ogni legislazione di questo genere.
«Nelle introduzioni, Kant manifesta la volontà di circoscrivere il concetto di diritto, rispetto a quello dell’etica e fissarne le condizioni di possibilità. Attraverso la delimitazione della volontà o ragione pratica, rispetto all’arbitrio, è possibile porre in evidenza la specificità della legislazione etica rispetto a quella giuridica. Mentre la prima fa dell’azione un dovere e del dovere un movente della volontà, la seconda ammette altri moventi per le azioni, tra i quali, oltre all’inclinazione e repulsione, anche l’idea di una coazione esterna che unita alla legalità delle azioni, cioè del semplice accordo con le leggi, sia in grado di fondare il diritto in senso stretto.
A differenza dell’etica, nell’ambito del diritto non si esige che l’idea di dovere sia motivo determinante soggettivo dell’arbitrio.
La nozione di dovere include già il concetto di obbligazione, intesa come costrizione esercitata dalla legge sul libero arbitrio; se la costrizione è imposta dall’uomo, sarà l’imperativo morale a dover essere rispettato; tuttavia, gli uomini, quali enti naturali ragionevoli e liberi, spesso sono inclini, cioè provano desiderio nel violare la legge morale. L’unico modo infatti, che la ragione legislatrice ha di resistere alle inclinazioni, consiste nell’opporre a sua volta un fine morale, che deve essere dato a priori indipendentemente da ogni inclinazione.
«L’uso della ragione, comprende quindi, un uso etico-morale e giuridico. Il primo investe la dimensione interiore dell’individuo, determinandone non solo l’intenzione che presiede al comportamento ma anche l’azione esterna; per essere buona, questa volontà deve essere pura ovvero libera da ogni influenza della sensibilità e condizionata soltanto alla legge della ragione: si tratta di agire per il dovere. L’uso giuridico della ragione ha invece per oggetto solo le azioni esterne
all’uomo; infatti, non si va ad indagare sulle motivazioni interiori in base a cui si agisce, ma esclusivamente la conformità esteriore dell’azione alla legge.
Per un verso, la legalità è contrapposta alla moralità, poiché può realizzarsi anche sulla base di moventi non morali: ad esempio si può decidere di non rubare, non perché lo proibisce la legge, ma perché si può temere di essere arrestati». Il diritto: svolge la funzione di coordinare quelle volontà che pur buone, nella loro estrinsecazione presentano una difformità rispetto all’ ordinamento giuridico. La norma dovrebbe essere fondata sulla ragione invariabile ed infallibile, che per Kant costituisce l’essenza ultima dell’uomo e l’assolutezza del precetto, dovrebbe essere il risultato di «quei principi immutabili che, per ogni legislazione positiva, il giusperito sarebbe tenuto a fornire».
Dalle considerazioni svolte sino a qui, si può dedurre che il diritto naturale venga considerato da Kant come diritto razionale; tuttavia esso presenta un limite: mostra la caratteristica di essere imperativo soltanto per chi ascolta la ragione, ma non dispone però, di alcun strumento coercitivo per imporsi a quei soggetti che la disattendono. Allora, affinché l’ordinamento giuridico riesca ad assicurare il rispetto dei diritti da parte di tutti i consociati, è necessario che dall’unione del diritto naturale con la ragione, si ottenga la trasformazione in un diritto pubblico, capace di imporsi con la forza della legge positiva.
«Il diritto, perciò per essere considerato tale, deve tradursi in un diritto dello Stato, con un potere costituito al di sopra delle parti e con un apparato di leggi imposte coattivamente».
E’ attraverso l’uscita dallo stato di natura, che «l’uomo decide di sottomettersi a una costrizione esterna pubblicamente legale», al fine di ottenere la garanzia del rispetto dei propri diritti. Per raggiungere questo scopo, è necessario che il potere di disporre del diritto, venga attribuito dalla volontà generale a un Medio in grado di conciliare la relazione giuridica.
Essendo il diritto, per Kant, sostanzialmente indisponibile, in quanto nessun individuo è capace di giudicare se una norma positiva sia o meno contrastante con i fondamenti metafisici del diritto stesso, la formalità del principio sarà essenzialmente attribuita per un principio d’ordine, al soggetto che detiene di fatto il potere, che sarà così, capace di imporre positivamente la regola.
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Conclusioni
Nel legiferare è comunque possibile commettere un’ingiustizia contro qualcuno. Per cercare di scongiurare tale possibilità, bisognerà ammettere che tutto ciò che viene deciso dalla volontà pubblica, e da cui, pertanto, deriva il diritto, garantisca la certezza che non venga fatto «torto a nessuno».
Infatti: «Obbligare ogni legislatore ad emanare le sue le leggi così come sarebbero potute nascere dalla volontà riunita di un intero popolo, e considerare ogni suddito, in quanto voglia essere cittadino, come se avesse dato il suo assenso ad una tale volontà. Questa è la pietra di paragone della legittimità di ogni legge pubblica. Perché se questa è fatta in modo che per un intero popolo sia impossibile darle il suo assenso (come ad esempio che una certa classe di sudditi debba avere per eredità la prerogativa di ceto di signori), allora non è giusta; se però è solo possibile che un popolo le dia il suo assenso, è un dovere ritenere giusta la legge: anche posto che il popolo fosse in una situazione o in una disposizione del suo atteggiamento di pensiero tali che se fosse interpellato su di essa rifiuterebbe probabilmente il suo voto».
Conseguentemente, è la natura stessa, che costringe gli esseri umani a costruire un ordinamento giuridico, in vista del soddisfacimento del bisogno di sicurezza, il quale non potrebbe essere raggiunto in una «condizione selvaggia» : mediante la costituzione di una società civile, rappresentante la forma di convivenza, capace di garantire una uguale espressione della libertà dei suoi membri, congiunta con un potere irresistibile, sarà infatti, possibile realizzare una convivenza regolata dalla legge.
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Ricercatore e critico dei sistemi di soluzione delle controversie alternativi al giudizio ha preso parte a numerosi convegni e gruppi di lavoro in tema di alternative dispute resolution.Paola VenturaAvvocato mediatrice familiare e civile; è formata alla Pratica Collaborativa, nonché al metodo della Coordinazione Genitoriale. All’interno dello Studio Legale LA SCALA S.T.A.P.A. (di cui è fondatrice), svolge attività professionale nell’ambito del diritto di famiglia, family office e quale esperta ADR in generale. Da oltre vent’anni si occupa di gestione del conflitto, di mediazione e A.D.R., sia come mediatore che come formatore. È docente accreditato al Ministero di Giustizia per la formazione dei mediatori ai sensi del DM 180/10. È membro del comitato scientifico dell’Associazione dei professionisti collaborativi – AIADC. Ha svolto attività di formazione per numerosi enti (Università e Associazioni Forensi) nell’ambito della mediazione civile e familiare, e, più in generale degli strumenti ADR.Marzia BrusaPsicologa Esperta in Psicologia Giuridica. Consulente Tecnico d’Ufficio per il Tribunale di Varese e Consulente Tecnico di Parte sul territorio nazionale. Formata al metodo della Coordinazione Genitoriale. Socio fondatore dell’Associazione Italiana Coordinatori Genitoriali e membro del Consiglio Direttivo. Ha esperienza decennale all’interno dei Servizi Tutela Minori, dove ha gestito casi di famiglie con minori su provvedimento dell’Autorità Giudiziaria in ambito civile e penale. È una delle socie fondatrici dello studio Teseo – Centro di Consulenza per la Famiglia, dove lavora in collaborazione ad altre figure professionali (sociali, psicologiche e legali) per la presa in carico integrata dei nuclei familiari in situazioni di crisi. 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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
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