- Dopo la riforma Fornero
- Il campo di applicazione del d.lgs.. n. 23/2015
- L’art. 2 e la parziale riproposizione dell’art. 18 comma 1 dello Statuto dei Lavoratori
- Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, oggettivo e per giusta causa. L’apporto della giurisprudenza costituzionale e di legittimità
- Vizi formali e procedurali
- Considerazioni conclusive
1. Dopo la riforma Fornero
A titolo prolusivo è doveroso significare che il d.lgs. n. 23/2015 trova applicazione per i lavoratori di cui all’art.1 del medesimo decreto, di cui si farà cenno a breve, alle dipendenze delle imprese aventi requisito dimensionale stabilito dai commi 8 e 9 della legge 20 maggio 1970, n. 300.[1] La disciplina di riferimento per i lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti, ossia il d.lgs. n. 23/2015 sopra richiamato, è stata promulgata a distanza di 3 anni dalla c.d. riforma Fornero. Quest’ultima – come noto – aveva rivisitato, modificandolo, il regime statutario dei licenziamenti individuali di cui all’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300. Di talché, il legislatore, non potendo ulteriormente correggere il predetto regime statutario, è intervenuto introducendo, ex novo, una regolamentazione ad hoc in tema di licenziamenti individuali. È per questo, quindi, che il d.lgs. n. 23/2015 si pone quale evoluzione della legge n. 92/2012. Di fatti, “la contiguità tra i due interventi normativi si rinviene nella prosecuzione dell’opera di delimitazione della discrezionalità dell’organo giudicante, che vede nel decreto legislativo rigidamente definite le ipotesi di tutela reintegratoria, ma anche automatizzato il calcolo dell’indennità risarcitoria per i casi di tutela obbligatoria”.[2] Ad ogni modo, tra le due discipline vige una soluzione di continuità nel capovolgimento del rapporto tra tutela reintegratoria e tutela indennitaria: la prima circoscritta ad ipotesi residuali ed espressamente contemplati della norma; la seconda quale regola generale, dunque elevata a sistema.. [3]
2. Il campo di applicazione del dl.lgs. n. 23/2015.
Il campo di applicazione del d.lgs. n. 23/2015 è stabilito all’art. 1 dello stesso decreto. Esso recita quanto segue: “1. Per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo è disciplinato dalle disposizioni di cui al presente decreto.
- Le disposizioni di cui al presente decreto si applicano anche nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del presente decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato.
- Nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del presente decreto, integri il requisito occupazionale di cui all’articolo 18, ottavo e nono comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, il licenziamento dei lavoratori, anche se assunti precedentemente a tale data, è disciplinato dalle disposizioni del presente decreto”.
L’articolo in disamina, orbene, enuncia due profili, uno di natura soggettiva, l’altro di natura temporale. La disciplina in esame, secondo il profilo soggettivo, trova applicazione per i lavoratori appartenenti, ex art. 2095 c.c., alle seguenti categorie legali: operai, impiegati e quadri. I dirigenti sono esclusi dall’ambito di applicazione della riforma. Sotto il profilo temporale, invero, la fattispecie legislativa interviene nei confronti dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato a far fede dal 7 marzo del 2015, data di entrata in vigore del decreto. Ancora. Essa opera nei confronti dei lavoratori a termine il cui rapporto di lavoro viene trasformato a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo del 2015 o per gli apprendisti attestati dall’anzidetta data. La dottrina ha avuto modo di asserire che “avuto specifico riguardo alle ipotesi di conversione del contratto a tempo determinato o dell’apprendistato, si ritiene che la disposizione si riferisca a contratti genuini e legittimi e, comunque, alla conversione operata in via consensuale dalle parti”.[4]
Infine, il decreto legislativo n. 23/2015 costituisce la fonte di riferimento, dei licenziamenti in parola, per tutte quelle imprese che, a seguito di ulteriori assunzioni disposte dal 7 marzo del 2015, integrino il requisito occupazionale ex. art. 18 commi 8 e 9 della legge 20 maggio 1970, n. 300.
3. L’art. 2 e la parziale riproposizione dell’art. 18 comma 1 dello Statuto dei Lavoratori
L’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, al primo comma, detta le regole in tema di licenziamento, valevoli per tutti i datori di lavoro, a prescindere dal numero di prestatori assunti. In particolare, secondo il suddetto articolo, va applicata la tutela restitutoria, con obbligo di risarcimento non inferiore a 5 mensilità, dedotto il c.d. aliunde perceptum,[5] nei seguenti casi: licenziamento discriminatorio; licenziamento comminato per motivo illecito ex art. 1345 c.c.; licenziamento comminato in concomitanza di matrimonio; licenziamento in violazione dell’art. 54, commi 1,6,7,9 del d.lgs. n. 151/2011 (t.u. in materia di salute e sostegno della maternità e paternità); licenziamento intimato in forma orale.
Orbene, sulla falsariga di quanto previsto per il già menzionato dettame, il legislatore riscrive l’art. 2 del d.lgs. n. 23/2015. Pur tuttavia, tra le due discipline vi sono alcune modifiche, rectius elementi di difformità. In primis, scompare il riferimento dell’applicabilità della reintegra al dirigente nelle ipotesi sopra elencate. Per i lavoratori testé richiamati, i cosiddetti alter ego dell’imprenditore, continuerà a trovare spazio l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Scompaiono, inoltre, i riferimenti alla nullità del licenziamento per motivo illecito ex art. 1345 c.c. . Sotto il profilo sostanziale, altresì, viene ricondotta sotto l’egida della tutela reale con indennizzo pieno l’ipotesi del difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi dell’art. 4, c. 4, e dell’art. 10, c. 3, l. n. 68/1999, la quale – nel regime statutario – gode della tutela reale attenuata (reintegrazione nel posto di lavoro e risarcimento sino a 12 mensilità).A tal proposito, recente giurisprudenza comunitaria ha affermato che l’inciso “disabilità fisica o psichica del lavoratore” deve essere interpretato in senso atecnico, ovverosia come sinonimo di sopravvenuta non idoneità allo svolgimento delle attività caratterizzanti la mansione di assegnazione e, più in generale, del lavoro.[6]
Per quanto attiene ai fattori discriminazione, non v’è dubbio che, sulla scorta del tenore letterale della norma e sul principio di tipicità vigente nell’ordinamento giuslavoristico, essi corrispondano ai medesimi fattori di cui all’art. 18 della legge n.300/1970.[7]
Per ultimo, come sostenuto da autorevole dottrina, benché la norma non lo citi testualmente, pare inopinabile l’applicazione della tutela reintegratoria di cui all’art. 3 del decreto in esame al lavoratore illegittimamente licenziato per motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., giacché detta fattispecie rappresenta un’ipotesi espressa di nullità secondo l’art. 1418 c.c. .[8]
In sintesi, dunque, la tutela reale con indennizzo pieno (reintegra e risarcimento del danno non inferiore a 5 mensilità), trova inconfutabile applicazione per i lavoratori di cui all’art. 1 del decreto de quo, allorquando ricorrano i seguenti licenziamenti illegittimi: licenziamento discriminatorio; licenziamento comminato in concomitanza del matrimonio; licenziamento comminato in violazione dell’art. 54 del d.lgs. n . 151/2001; licenziamento avente motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c. ; licenziamento intimato in forma orale; licenziamento affetto da difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi dell’art. 4, c. 4, e dell’art. 10, c. 3, l. n. 68/1999.
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4. Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, oggettivo e per giusta causa. L’apporto della giurisprudenza costituzionale e di legittimità
La riforma del 2015 ha notevolmente ridotto la tutela restitutoria, ponendo come regola generale del licenziamento individuale illegittimo la tutela risarcitoria. La tutela reale con indennizzo attenuato osserva un duplice requisito: il primo attiene all’insussistenza del fatto materiale contestato; il secondo riguarda la diretta dimostrazione di tale insussistenza direttamente in giudizio. In siffatta ipotesi, il giudice condanna il datore di lavoro alla reintegra e al risarcimento del danno, in misura comunque non superiore a 12 mensilità, dedotto l’aliunde perceptum e l’aliunde percipiendum. La fattispecie dell’insussistenza del fatto contestato deve essere ricondotta ai casi in cui il giudice accerta che il fatto a rilevanza giuridica e disciplinare non sussiste o che il lavoratore licenziato non lo ha commesso o che, comunque, non è a questi imputabile.[9]
Sulla rilevanza giuridica e disciplinare del fatto materiale contestato, la giurisprudenza è intervenuta, a più riprese, confortando quanto autorevolmente asserito dalla dottrina.[10]
Più problematica, di converso, è l’individuazione della portata dell’inciso “direttamente dimostrata in giudizio”. Esso farebbe propendere per una scissione processuale – con ricadute sostanziali – tra il piano del sindacato sulla legittimità del licenziamento e quello dell’individuazione della sanzione che può conseguire al licenziamento viziato.[11]
Infine, attesa l’estraneità di ogni valutazione circa la sproporzionalità del licenziamento,[12] nel testo della norma non viene citata la tutela reale con indennizzo attenuato per tutti quei comportamenti rientranti in sanzioni conservative del contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro.[13]
Orbene, salvo nella specifica ipotesi di insussistenza del fatto materiale direttamente dimostrato in giudizio, nel caso in cui risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, soggettivo o per giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio,[14] e comunque non inferiore a sei e non superiore a 36 mensilità”.[15]
La giurisprudenza costituzionale, con sentenza n. 194/2018, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 1 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23/2015, sia nel testo originario, sia in quello modificato dal c.d. decreto dignità, limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, e comunque non inferiore a sei e non superiore a 36 mensilità”.
Tanto sopra significato, pare evidente che quanto oggetto di tutela reintegratoria con indennizzo attenuato di cui all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, fatta eccezione per l’insussistenza del fatto materiale direttamente dimostrata in giudizio, non trova applicazione per i lavoratori citati dall’art. 1 del d.lgs. n. 23/2015.[16] Chi scrive si riferisce al licenziamento irrogato per comportamento manchevole annoverabile in una delle sanzioni conservative del CCNL; al licenziamento per insussistenza del giustificato motivo oggettivo. In questi casi, dunque, al lavoratore spetterà una mera indennità economica.[17]
Per quanto concerne, di contro, il licenziamento comminato in violazione dell’art. 2110 co. 2, benché la fattispecie non venga letteralmente riportata nel testo della norma, in ossequio a giurisprudenza ormai consolidata in punto, è da ritenersi che il lavoratore vada protetto con una tutela di tipo restitutoria.[18]
5. Vizi formali e procedurali
Sullo stesso orientamento della riforma del 2012, il legislatore del 2015 ha ridotto a rango di tutela indennitaria dimidiata il licenziamento affetto da vizi formali e procedurali. L’autore si riferisce, precisamente, alla violazione del requisito di motivazione di cui all’art. 2, c. 2, l. n. 604/1966, all’inosservanza della procedura dell’art. 7, l. n. 300/1970 e al mancato esperimento del tentativo di conciliazione ex art. 7. l. n. 604/1966.[19] In questi casi, il datore di lavoro è condannato al pagamento in favore del lavoratore di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata – in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro – tra un minimo di due e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Si deve ritenere che le procedure della contrattazione collettiva, ancorché non contemplate nel testo della norma, in linea con la ratio legis dell’istituto, vadano applicate alla stessa stregua di quelle legali.
La norma, in ogni caso, ha generato perplessità in ragione delle possibili ripercussioni della violazione delle procedure ivi considerate;[20] il dettame che ontologicamente assume connotato di residualità, deve ritenersi – appunto – residuale rispetto all’impianto sin qui delineato. D’altro canto, l’art. 4 del d.lgs. n. 23/2015, epurando il precetto da timori di sorta, chiarisce il rapporto che intercorre con la fattispecie del difetto di giustificazione del licenziamento, garantendo in quest’ultimo caso l’applicazione delle tutele previste dagli art. 2 e 3 del decreto in commento.
Sulla base di quanto dianzi passato in rassegna, è corretto affermare che, in egual misura rispetto alle procedure di natura legale, la violazione del termine per l’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento disciplinare, stabilito dalla contrattazione collettiva, è idonea a integrare una violazione della procedura disciplinare, tale da rendere operativa la tutela prevista dal sesto comma.[21]
6. Considerazioni conclusive
La lettura del presente contributo porta ad una chiara e apodittica conclusione: il legislatore, specie quello più recente – nel solco dell’arco repubblicano – si è viepiù orientato verso una tutela risarcitoria. Operazione legittima se considerassimo (e siamo obbligati a farlo) l’assunto della giurisprudenza Costituzionale sul punto.[22] Effettivamente la scelta del tecnico delle leggi di orientarsi verso un tipo di tutela piuttosto che un’altra corrisponde ad un’operazione assolutamente legittima. Pur tuttavia, detto orientamento deve considerarsi, secondo chi scrive, non una scelta deliberata, ma una mera presa di posizione di fronte a un mercato del lavoro sempre più globalizzato e proteso ad una maggiore “flessibilità in uscita”. Non solo. Dietro lo schema del tanto discusso jobs act vi è indubbiamente la “mano invisibile” del mondo imprenditoriale, il quale – da tempo – invoca una rivisitazione delle riforme del diritto del lavoro.
È chiaro che il tema che ci occupa deve ritenersi un risultato a valle della progressiva desocializzazione del diritto del lavoro per le cause contingenti di cui siamo pienamente edotti. Desocializzazione tanto più evidente se si considera la derogabilità delle stesse norme cui è sottoposto il diritto del lavoro in virtù delle sempre più consistenti norme di rinvio introdotte dalle novelle legislative. Il diritto del lavoro, diritto incontrovertibilmente protettivo, in origine enunciava la quasi totalità di norme di stampo cogente. Oggi assistiamo ad una progressiva inversione di tendenza.
Andando oltre, taluni definiscono la riforma c.d. Jobs act una rivoluzione. Ne siamo davvero convinti? L’autore crede che l’operazione di graduale desocializzazione del diritto del lavoro, ovvero del rafforzamento della flessibilità in uscita, sia un’operazione del tutto ingiustificata, specie se si considerano gli strumenti di flessibilità offerti all’imprenditore nell’ambito dell’organizzazione del lavoro. Mi riferisco, senza pretesa di esaustività, ai contratti di prossimità dell’art. 8 del d.l. n. 138/2011, nonché alla nuova disciplina dello ius variandi dell’articolo 2103 c.c..[23]Per quanto d’interesse, non intendo minimamente accennare alla vituperante riforma Biagi che ha, financo, introdotto due fattispecie di interposizione lecita di manodopera, così derogando anche quella impostazione originaria codicistica per la quale era previsto un generale divieto di interposizione di manodopera rinvenibile nel disposto di cui all’art. 2127.
Quanto sin qui enucleato, sarebbe sufficiente a giustificare la contrarietà dell’autore sulla riforma del c.d. Jobs act, sicché risulterebbe pleonastico l’impianto normativo, limitatamente al tipo di tutela introdotta sin dal 2012, riferito ai licenziamenti individuali (e collettivi).
In ogni caso, suggerendo interventi di de iure condendo, chi scrive – onde preservare il carattere segnatamente sociale del diritto del lavoro, quindi la sua genesi – consiglia l’adozione di misure volte squisitamente a ridurre il cuneo fiscale. Il contemperamento degli interessi tra capitale e lavoro, in altri termini la collaborazione tra i fattori della produzione, oggi non può concretizzarsi attraverso un brutale depauperamento delle guarentigie in capo ai lavoratori. Ciò che il mondo del lavoro chiede è l’abbattimento del costo del lavoro e riforme finalizzate a garantire la flessibilità dell’organizzazione del lavoro che sicuramente devono anch’esse essere contenute entro determinati limiti.
In conclusione: la dignità del lavoro si realizza con il posto di lavoro stabile, quella del capitale con il mantenimento della forza lavoro senza timori di sorta.
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Note
[1] Il d.lgs. n. 23/2015 si applica “al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell’ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all’impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti”.
[2] R. Del Punta, F. Scarpelli (a cura di), Codice commentato del lavoro, Wolters Kluwer, I edizione, pag. 2681, cit.
[3] DI PAOLA, Le varie forme di tutele avverso il licenziamento illegittimo, in DI PAOLA (a cura di), Il licenziamento. Dalla Legge Fornero al JobsAct, Milano 2016; GAMBERINI-PELUSI-TIRABOSCHI, Contratto a tutele crescenti e nuova disciplina dei licenziamenti, in TIRABOSCHI (a cura di), Le nuove regole del lavoro dopo il Jobs Act, Milano 2016
[4] MAGNANI, Correzioni e persistenti aporie del regime sanzionatorio dei licenziamenti: il cd. contratto a tutele crescenti, in WP CSDLE, 256/2015, pag. 7, cit.
[5] Con l’espressione “alliunde perceptum” si fa riferimento a quanto il lavoratore ha percepito, presso altro datore, tra la data di licenziamento e quella della sua reintegra sul posto di lavoro.
[6] Sulla nozione di disabilità si vede la sentenza CGUE 4.7.2013, causa C-312/2011
[7] BIASI, Il licenziamento nullo: chiavistello o grimaldello del nuovo sistema “a tutele crescenti”?, in ZILIO GRANDI-BIASI (a cura di), Commentario breve alla riforma Jobs Act, Milano 2016
[8] BALLESTRERO, Tra discriminazione e motivo illecito: il percorso accidentato della reintegrazione, DLRI 2016, 15; M.T. CARINCI, Il licenziamento nullo perché discriminatorio, intimato in violazione di disposizioni di legge o in forma orale, in M.T. CARINCI-TURSI (a cura di), Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, Torino 2015
[9] F.CARINCI, Ripensando il “nuovo” art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, ADL 2013; DEL PUNTA, La riforma italiana: i problemi del nuovo art. 18, in PEDRAZZOLI (a cura di), Le discipline dei licenziamenti in Europa. Ricognizioni e confronti, Milano 2014; GALARDI, Il licenziamento disciplinare, in CINELLI-FERRARO-MAZZOTTA (a cura di), Il nuovo mercato del lavoro dalla Riforma Fornero alla legge di stabilità 2013, Torino 2013; MAZZOTTA, I molti nodi irrisolti del nuovo art. 18 St. Lav., in CINELLI-FERRARO- MAZZOTTA (a cura di), Il nuovo mercato del lavoro dalla Riforma Fornero alla legge di stabilità 2013, Torino 2013; SANTORO PASSARELLI, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e l’ambito della tutela risarcitoria, ADL 2013; TULLINI, Riforma della disciplina dei licenziamenti e nuovo modello giudiziale di controllo, RIDL 2013,
[10] C. 8.5.2019, n. 12174,
[11] R. Del Punta, Codice commentato del lavoro, op. cit.
[12] Secondo l’art. 2106 c.c.: “L’inosservanza degli articoli 2104 e 2105 c.c. può dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’infrazione”
[13] Nel regime statutario, di contro, è prevista la reintegra e il risarcimento del danno in misura non superiore a 12mensilità.
[15] Art. 3 co. 1 così come modificato d.l. 87/2018 (c.d. decreto dignità).
[16] Vedi supra § 2
[17] La scelta del legislatore risulta essere in linea con l’art. 24 della Carta sociale Europea secondo il quale i lavoratori licenziati senza un valido motivo hanno diritto “ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”.
[18] Da ultimo si veda la sentenza n. 19661 del 22.07.2019 della Corte di Cassazione. Durante il periodo di comporto, considerato il preminente interesse alla tutela della salute del lavoratore, anche sulla base dell’art. 32 della Carta Costituzionale, si verifica la c.d. traslazione del rischio in capo al datore di lavoro. È sulla scorta di questo principio che la giurisprudenza, unanime, ritiene verosimilmente applicabile, a prescindere dal requisito dimensionale datoriale, la tutela restitutoria, allorché il licenziamento venga comminato in costanza del periodo di comporto.
[19] Nelle imprese con più di 15 dipendenti, secondo l’art. 7 della legge n. 604/1966, allorché ricorra un licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, è necessario esperire il preventivo tentativo di conciliazione ivi descritto dall’articolo de quo
[20] GALANTINO, La riforma del regime sanzionatorio dei licenziamenti individuali illegittimi: le modifiche all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, in PELLACANI (a cura di), Riforma del Lavoro. Tutte le novità introdotte dalla legge 28 giugno 2012, n. 92, Milano 2012; MARESCA, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori, RIDL 2012, I,
[21] C. 16.8.2016, n. 17113; contra, C. 3.9.2018, n. 21569, DeJure
[22] Sent. Cort. Cost. n. 194/2018
[23] Per un approfondimento della disciplina dello ius variandi, vedi D. Giardino, Mansioni lavorative, ius variandi e novità introdotte dal decreto legislativo n. 81/2015, in Diritto.it
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