Un dipendente di una struttura sanitaria privata aveva chiesto al Tribunale del lavoro l’annullamento del licenziamento disciplinare intimatogli dalla datrice di lavoro a seguito di una sentenza di condanna a suo carico per il reato di sostanze stupefacenti.
Il dipendente chiedeva, altresì, il pagamento dell’assegno alimentare per il periodo di sospensione cautelare dal servizio ai sensi dell’art. 41 del CCNL.
Il Tribunale di Roma rigettava la domanda principale concernente la contestata legittimità del recesso e gli riconosceva la somma chiesta a titolo di assegni familiari.
La Corte di appello di Roma con sentenza rigettava l’appello, osservando che il contratto collettivo (che prevedeva il licenziamento per giusta causa per detenzione per uso o spaccio di sostanza stupefacenti all’interno della struttura) offriva solo un elenco di condotte sanzionabili con il recesso per giusta causa a titolo meramente indicativo e non esaustivo come emergeva anche dallo stesso CCNL.
I fatti addebitati, pur estranei all’ambiente ed alla prestazione di lavoro, erano talmente gravi da ledere il rapporto fiduciario, posto che il dipendente era stato condannato per il reato di spaccio di tre grammi di cocaina.
Circa l’elemento della proporzionalità tra fatto commesso e sanzione irrogata i compiti svolti dal ricorrente (pulizia, trasporto infermi, assistenza ai degenti) erano connessi direttamente all’attività dell’appellata e riguardanti essenzialmente la cura e l’assistenza degli anziani, sicchè l’adibizione a tale compiti di persona condannata per spaccio presentava un incontestabile giudizio di disvalore ambientale.
Per la cassazione di tale decisione il dipendente propone ricorso, attraverso due motivi, e la Casa di Cura controricorso.
In questi casi la Cassazione è stata chiamata a compiere uno scrutinio, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, che esige il rispetto di criteri e principi ricavabili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali sino alla disciplina particolare (anche stabilita dai contratti collettivi), in cui si colloca la fattispecie.
In particolare, l’operazione valutativa non è censurabile, se il giudice di merito abbia applicato i principi costituzionali che impongono un bilanciamento dell’interesse del lavoratore, tutelato dall’art. 4, Cost., con l’interesse del datore di lavoro, tutelato dall’art. 41, Cost., bilanciamento che, in materia di licenziamento disciplinare, si riassume nel criterio dettato dall’art. 2106 c.c., della proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto all’infrazione contestata, conformandosi altresì agli ulteriori standard valutativi rinvenibili nella disciplina collettiva e nella coscienza sociale”. (1)
Circa il primo motivo del ricorso, ci si riferisce alla violazione dell’art. 41 CCNL sanità privata, le parti collettive avevano preso in considerazione solo lo spaccio di sostanze stupefacenti all’interno della struttura e quindi escluso la rilevanza di comportamenti tenuti al di fuori di questa.
I Giudici di legittimità hanno ritenuto che il motivo appare infondato.
Come già osservato nella sentenza impugnata l’elencazione delle condotte legittimanti l’irrogazione della sanzione del licenziamento per giusta causa (ultimo capoverso dell’art. 41 CCNL) ha valore puramente indicativo e certamente non tassativo laddove il fondamento del recesso possa essere individuato nella nozione legale di giusta causa e cioè in un comportamento di gravità tale da comportare la lesione del vincolo fiduciario tra le parti. (2)
Contrariamente a quanto si sostiene nel motivo nel caso in esame si ravvisano ulteriori elementi che connotano più gravemente il fatto contestato rispetto all’ipotesi individuata dalla contrattazione collettiva e cioè il fatto che la prestazione di lavoro si svolgeva in una Casa di Cura per degenti che- secondo le prospettazioni della stessa parte ricorrente – opera come Residenza per anziani non autosufficienti.
Certamente il sapere che un dipendente addetto a mansioni che si svolgono in un ambiente così particolare e delicato (riguardino o meno l’assistenza diretta agli anziani) è stato condannato per spaccio di cocaina non può che rompere il vincolo fiduciario tra le parti, apparendo connotato da un particolare disvalore ambientale come ha osservato la Corte territoriale ed espone la stessa Casa di Cura ad eventuali danni e ripercussioni, potenzialmente molto negative, ove la circostanza venisse a conoscenza dei parenti di persone non in condizioni di autosufficienza, che quindi contano sull’assoluta affidabilità del personale complessivamente addetto alla salvaguardia della loro salute e del loro benessere.
Pertanto non può di certo affermarsi che siano state ignorate le clausole contrattuali richiamate, avendo la Corte territoriale correttamente valutato elementi aggiuntivi e specifici che risultavano dalla particolarità del caso di cui è processo, non tipizzati dalla norma contrattuale.
In merito al secondo motivo del ricorso, riguardante la insufficiente motivazione, il motivo per quanto sopra già detto appare infondato in quanto, indipendentemente dalle contestate mansioni di assistenza agli anziani (accertate comunque positivamente dalla Corte di appello), non vi è dubbio che l’attività lavorativa si svolgesse all’interno di una Casa di Cura per anziani non autosufficienti e che quindi vi fosse comunque un contatto tra il dipendente (che comunque non ha contestato il compiti di trasporto infermi) e persone affidate per la gestione quotidiana delle attività più elementari all’efficienza del personale di una struttura con finalità anche di natura pubblica (attestati dal collegamento con il SSN).
Il fatto addebitato al dipendente, benchè commesso al di fuori dell’ambiente di lavoro, necessariamente è elemento idoneo ad incrinare il rapporto fiduciario tra le parti posto che l’azienda intimata avrebbe dovuto continuare ad attribuire compiti del genere, implicanti cioè rapporti stretti con anziani non autosufficienti, a soggetto condannato per spaccio di cocaina.
Sussistono pertanto i presupposti per l’intimato licenziamento per giusta causa, apparendo la motivazione sul punto della sentenza impugnata congrua e logicamente coerente.
La Cassazione (3) reputa che nel giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione del licenziamento per giusta causa all’illecito commesso – da effettuare sulla base della valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in tutti i suoi connotati oggettivi e soggettivi – si deve tenere conto del fatto che, a tutela del lavoratore, il suo inadempimento deve essere vagliato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicchè l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto. (4)
In materia di licenziamento disciplinare, ai fini della configurabilità della violazione da parte del dipendente del dovere di diligenza, di cui all’art. 2104 c.c., è necessaria una specifica allegazione e valutazione (5), che può essere implicita solo in presenza di comportamenti manifestamente contrari agli interessi dell’impresa o dei lavoratori, come quei comportamenti per i quali non è necessaria la specifica inclusione nel codice disciplinare aziendale, in quanto per essi il potere sanzionatorio datoriale – che può tradursi anche nell’intimazione del recesso per giusta causa o giustificato motivo soggettivo – deriva direttamente dalla legge. (6)
Il dovere di fedeltà, sancito dall’art. 2105 c.c., si sostanzia nell’obbligo del lavoratore di tenere un comportamento leale verso il datore di lavoro e di tutelarne in ogni modo gli interessi.
Ai fini della sussistenza, nel caso concreto, di una giusta causa di licenziamento il giudice di merito deve valutare, avendo a mente il parametro posto dalla norma pattizia, il reale contenuto del motivo posto a base del licenziamento e, quindi, la proporzionalità del provvedimento rispetto all’infrazione. (7)
E’ determinante, quindi, tracciare una linea di confine tra sanzioni di tipo conservativo (es. sospensione dal servizio con mancato versamento della retribuzione) e sanzioni di tipo estintivo (es. risoluzione del contratto) che caratterizzano l’esito del procedimento disciplinare.
La valutazione – compiuta dai giudici nelle varie fasi di giudizio – della condotta addebitata al lavoratore ai fini del licenziamento per giusta causa deve avvenire prendendo adeguatamente in considerazione il complessivo comportamento del prestatore di lavoro sia nel suo contenuto oggettivo sia nella sua portata soggettiva e senza, conseguentemente, motivare in modo adeguato e corretto la propria decisione sulla ritenuta idoneità del comportamento stesso a giustificare la massima sanzione espulsiva.
Dott. Giovanni Modesti
Incaricato di Diritto del Lavoro presso la Università “G. D’Annunzio” di Chieti al Corso di Laurea in Tecniche di Laboratorio Biomedico
________
(1) Cfr. Cass. 4 dicembre 2002, n. 17208.
(2) Cass. civ. sez. lav., 25 giugno 2013, n. 15926 ha stabilito che in tema di giusta causa di licenziamento, l’operazione valutativa del giudice di merito è censurabile ove non siano stati applicati i principi costituzionali che impongono un bilanciamento dell’interesse del lavoratore, tutelato dall’art. 4 Cost., con l’interesse del datore di lavoro, tutelato dall’art. 41 Cost. (nella specie, relativa al licenziamento, confermato dai giudici del merito, di un lavoratore che aveva accettato da un fornitore, in occasione delle festività natalizie, un’agenda contenente, al suo interno, cinque buoni di benzina, per un valore complessivo di 50 euro, la Corte ha cassato la sentenza della corte territoriale, ritenendo che la stessa non avesse motivato in modo corretto ed adeguato la propria decisione in ordine alla ritenuta idoneità del comportamento contestato a giustificare la massima sanzione espulsiva).
(3) Cfr. Cass. civ., sez. lav., n. 15926/13
(4) Cfr. Cass., 14 gennaio 2003, n. 444; Cass., 10 dicembre 2007, n. 25743; Cass., 24 luglio 2006, n. 16864; Cass., 25 febbraio 2005, n. 3994; Cass., 22 marzo 2010, n. 6848.
(5) Cfr. Cass., 7 aprile 2004, n. 6813; Cass., 14 marzo 1995, n. 2951.
(6) Cfr. Cass., 23 agosto 2006, n. 18377; Cass., 18 giugno 1996, n. 5583; Cass., 18 settembre 2009, n. 20270; Cass., 14 settembre 2009, n. 19770.
(7) Cfr. Cassazione civile, sez. lavoro, sentenza 20.03.2008, n. 7600.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento