Licenziamento orale e onere della prova sul lavoratore

“Il lavoratore che impugni il licenziamento allegandone l’intimazione senza l’osservanza della forma scritta ha l’onere di provare, quale fatto costitutivo della domanda, che la risoluzione del rapporto è ascrivibile alla volontà datoriale, seppure manifestata con comportamenti concludenti, non essendo sufficiente la prova della mera cessazione dell’esecuzione della prestazione lavorativa; nell’ipotesi in cui il datore eccepisca che il rapporto si è risolto per le dimissioni del lavoratore e all’esito dell’istruttoria – da condurre anche tramite i poteri officiosi ex art. 421 c.p.c. – perduri l’incertezza probatoria, la domanda del lavoratore andrà respinta in applicazione della regola residuale desumibile dall’art. 2697 c.c.”.

     Indice

  1. La vicenda
  2. La censura
  3. La pronuncia della Suprema Corte

1. La vicenda

Il giudice di prime cure respingeva il ricorso proposto da Tizia nei confronti di Caia, titolare della società Alfa, con il quale era richiesto l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato intercorso tra le parti dal 12 marzo al 5 settembre 2009 e l’inefficacia del licenziamento intimato a Tizia il 5 settembre 2009, con condanna della datrice di lavoro al risarcimento dei danni. I giudici di merito accoglievano l’appello di Tizia dichiarando l’inefficacia del licenziamento e condannando Caia al pagamento delle retribuzioni maturate dalla notifica del ricorso alla data di pronunzia della sentenza, oltre al pagamento delle dovute differenze retributive. Nell’accertare la natura subordinata del rapporto di lavoro, i giudici di secondo grado rilevavano che, in ragione del carattere elementare, ripetitivo e predeterminato delle mansioni pacificamente svolte dalla ricorrente, non risultasse particolarmente rilevante l’assoggettamento all’esercizio del potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro quanto, invece, l’accertamento secondo i criteri cosiddetti sussidiari, quali, innanzitutto, l’effettività e la continuità della prestazione secondo orari fissi, l’esistenza di una retribuzione con cadenza periodica e continuativa. Tali elementi erano stati confermati dalle dichiarazioni testimoniali raccolte, nonché dalle ricevute di pagamento prodotte da Tizia, attestanti l’effettuazione di prestazioni costanti e dall’esito dell’interrogatorio formale della datrice, la quale aveva dichiarato che era stata la lavoratrice a rifiutare la regolarizzazione del rapporto, sostenendo l’occasionalità delle prestazioni “a chiamata”.


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2. La censura

Caia si rivolgeva alla Suprema Corte lamentando, in particolare, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2967 c.c. e dell’art. 2 della Legge 606/1966 in ordine alla mancata prova del licenziamento, dal momento che i giudici d’Appello avevano posto a carico della ricorrente l’onere di provare le dimissioni della lavoratrice, nonostante non vi fosse prova certa dell’avvenuta intimazione in forma orale del licenziamento.

3. La pronuncia della Suprema Corte

La Cassazione, nel ritenere la censura infondata, ribadiva consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui “Il lavoratore che impugni il licenziamento allegandone l’intimazione senza l’osservanza della forma scritta ha l’onere di provare, quale fatto costitutivo della domanda, che la risoluzione del rapporto è ascrivibile alla volontà datoriale, seppure manifestata con comportamenti concludenti, non essendo sufficiente la prova della mera cessazione dell’esecuzione della prestazione lavorativa; nell’ipotesi in cui il datore eccepisca che il rapporto si è risolto per le dimissioni del lavoratore e all’esito dell’istruttoria – da condurre anche tramite i poteri officiosi ex art. 421 c.p.c. – perduri l’incertezza probatoria, la domanda del lavoratore andrà respinta in applicazione della regola residuale desumibile dall’art. 2697 c.c.”.

Difatti, nel caso in esame, la Corte distrettuale aveva ritenuto provata l’intimazione da parte della datrice alla lavoratrice di non presentarsi più al lavoro, accertando in tal modo la volontà datoriale di porre fine al rapporto lavorativo.

Pertanto, la Suprema Corte rigettava il ricorso.

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Avv. Giuseppina Maria Rosaria Sgrò

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