La Corte di Cassazione, con sentenza n. 35066 del 14 dicembre 2023, si è pronunciata sul licenziamento per molestie extralavorative a colleghe.
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Indice
1. Il caso
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 35066 del 2023, si è pronunciata su una vicenda molto particolare che vede sullo sfondo un licenziamento per ragioni disciplinari a un dipendente per fatti che, seppur extralavorativi, sono stati ritenuti gravemente pregiudizievoli per il datore di lavoro.
Quali condotte sono state addebitate al dipendente?
Nei fatti, stando alla contestazione disciplinare ed al conseguente licenziamento per giusta causa irrogato dal datore di lavoro (una banca), il dipendente (ruolo di team leader presso alcuni uffici della società con mansioni di coordinamento e supporto di colleghi in rapporto diretto con la clientela), ha:
“intrattenuto, in tempi diversi, rapporti extralavorativi con due donne dipendenti della stessa società, gravemente pregiudizievoli sia per queste che per la comune datrice di lavoro”;
“abusivamente compiuto negli ultimi due anni molteplici e immotivate interrogazioni, accedendo, mediante le proprie credenziali attraverso il sistema informatico, alle schede di clienti e colleghi per estrarne informazioni e dati esulanti dai suoi compiti di ufficio”.
È stato ritenuto che gli elementi probatori fossero esaustivi e idonei a sorreggere gli addebiti relativi al primo punto e ciò sufficiente a ledere irrimediabilmente il rapporto di fiducia tra le parti, senza necessità di procedere ad accertamenti relativi all’addebito sub secondo punto.
Il lavoratore ha proposto impugnazione – (ex) rito Fornero – avverso il licenziamento irrogatogli ma dalla fase sommaria al giudizio d’appello (passando per il reclamo in primo grado), sono sempre state respinte le relative contestazioni avverso il provvedimento espulsivo.
Il lavoratore ha dunque proposto ricorso per Cassazione cui la banca (ex datrice di lavoro) ha resistito.
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2. Licenziamento per molestie extralavorative a colleghe: la sentenza della Cassazione
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dal lavoratore.
La sentenza della Corte di Cassazione è interessante sotto diversi profili.
Il primo, attiene sicuramente agli aspetti formali e, precisamente, alle dinamiche processuali in campo nella formazione del convincimento dei giudicanti.
Il lavoratore ha lamentato che la Corte territoriale avesse erroneamente ritenuto la formazione di un giudicato sull’addebito al lavoratore di “(presunte) molestie verbali alla collega benché non trattato dal Tribunale né in fase sommaria, né di opposizione a cognizione piena, avendo esso fondato il proprio convincimento esclusivamente sui fatti occorsi in relazione all’altra in quanto di per se idoneo a giustificare il recesso della banca datrice”.
A parer della Cassazione, questa doglianza non merita apprezzamento. Infatti, nel caso di specie, la Corte territoriale ha puntualmente ricostruito il percorso argomentativo della sentenza del Tribunale, a definizione del giudizio di opposizione ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 57, “da cui risulta l’accertamento anche delle molestie verbali addebitate al lavoratore nei confronti della collega, rispetto alle quali essa ha rilevato la mancata formulazione, da parte del ricorrente, di <<alcuna critica sui punti della sentenza dedicati a tale vicenda>>, cosi concludendo per <<la formazione sul punto di un giudicato che a rimasto del tutto immune da critiche>>”.
Peraltro, proseguono i Giudici di Cassazione, la Corte d’appello “anche sull’addebito in questione ha svolto un articolato e argomentato ragionamento probatorio, fondato sulle risultanze istruttorie ad esso specificamente relative … ed applicato in via conclusiva il principio di non contestazione, non avendo il lavoratore <<contestato radicalmente gli episodi addebitatigli nella lettera di contestazione>>, proponendone a ben vedere… un diverso inquadramento per via delle varie particolarità circostanziali palesatesi…”.
L’operato della Corte d’Appello è dunque frutto di corretta applicazione dei principi di legge, posto che, nel rito del lavoro, come affermato in giurisprudenza (Cass. 27 giugno 2018, n. 16970), la parte convenuta ha l’onere di contestare in termini specifici – e non può dirsi sufficiente una generica negazione – le circostanze di fatto dedotte a fondamento della domanda, ai sensi dell’art. 416 c.p.c., comma 3 e avendo l’attore, sempre nel rito del lavoro, “l’onere di specifica e tempestiva contestazione, entro l’udienza di cui all’art. 420 c.p.c., dei fatti estintivi specificamente dedotti dal convenuto in comparsa di risposta e rientranti nella sua sfera di conoscibilità, salvo il potere del giudice di accertarne, d’ufficio, l’inesistenza in base alle risultanze ritualmente acquisite” (Cass. 17 febbraio 2023, n. 5166).
Fermi restando gli aspetti formali, agevolmente risolti dai Giudici di legittimità, ulteriori profili d’interesse riguardano gli aspetti sostanziali e, precisamente, quelli caratterizzanti gli addebiti disciplinari ed il provvedimento sanzionatorio espulsivo.
A parere di chi scrive, data la forza della vicenda e gli interessanti spunti ricavabili dalla decisione, si ritiene di esporre i fatti con ordine, evidenziando dapprima le contestazioni del lavoratore per poi focalizzarsi sulle posizioni assunte dalla Corte di Cassazione con la sentenza in commento.
Il lavoratore ha dedotto in sostanza quanto segue:
– violazione e falsa applicazione dell’art. 2105 c.c., per l’irrilevanza disciplinare dei comportamenti tenuti dal medesimo nei confronti di una collega in quanto “di natura privata e pertanto riguardanti la sfera extralavorativa, senza alcun comprovato riflesso sull’oggettiva compromissione della fiducia datoriale sul puntuale adempimento della prestazione lavorativa del proprio dipendente”;
– violazione e falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 c.c., perché, a suo dire, la Corte d’Appello avrebbe condotto valutazioni “su una fattispecie astratta e non sul fatto concretamente contestato, ravvisando irrilevanti i mezzi istruttori dedotti in funzione del suo puntuale accertamento, alla luce delle divergenti versioni delle parti”.
– violazione e falsa applicazione degli artt. 610 c.p. e 115 c.c., “per la qualificazione, da parte della Corte d’appello, alla stregua di violenza privata, della ravvisata volontà del lavoratore di costringere una collega a “proiettarsi sul divano”, in assenza di prove a fronte della sua ferma contestazione della circostanza (ed esclusa per irrilevanza la puntuale deduzione istruttoria in merito) e per motivazione apparente sul punto”.
La Corte di Cassazione ha analizzato congiuntamente i motivi, offrendo una visione d’insieme sui punti sollevati dal lavoratore e rigettandone la fondatezza.
Con il supporto di copiosa giurisprudenza espressasi sul tema, i Giudici di legittimità sono partiti dai principi generali di diritto ove, in tema di licenziamento per giusta causa, è noto che il lavoratore deve astenersi dal porre in essere “non solo i comportamenti espressamente vietati ma anche qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con gli obblighi connessi al suo inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa, dovendosi integrare l’art. 2105 c.c. con gli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono l’osservanza dei doveri di correttezza e di buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, sì da non danneggiare il datore di lavoro” (giurisprudenza in supporto richiamata: Cass. 9 gennaio 2015, n. 144; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2550; Cass. 15 ottobre 2021, n. 28368).
A parer della sentenza in commento, il giudizio d’appello è stato compiuto in esatta applicazione dei su enunciati principi di diritto e v’è stato l’accertamento specificamente riservato al giudice di merito, ove:
– è stato sviluppato “un ragionamento probatorio congruamente argomentato, pertanto insindacabile in sede di legittimità”;
– tale ragionamento è stato “puntualmente calibrato sul contegno del lavoratore, “tradotto” si “in azioni moleste”, ancorché non chiaramente contrassegnato da “prevalenti spunti psichici di ordine sessuale”;
– ed è stato – sempre il ragionamento della Corte – “ulteriormente approfondito nei suoi “aspetti negativi e allarmanti della relazione” con le due colleghe per approdare quindi alla valutazione dei suoi riflessi sul rapporto di lavoro e sulla conseguente “reazione disciplinare della Banca””.
In tale ampia disanima il riferimento alla violenza privata è parso del tutto incidentale e avulso da qualunque riferimento a profili o sviluppi penalistici della vicenda (configurando una sorta di obiter dictum, che non ha lo scopo di sorreggere la decisione e improduttivo di effetti giuridici).
Ferma tale precisazione, la Cassazione ha intravisto la necessità di soffermarsi sulla nozione di molestie sul lavoro, “nel solco dei principi enunciati da questa Corte”, da intendersi quelle “ricorrenti in quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni anche connesse al sesso e aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo” e differenziandole dalle molestie sessuali, “invece ricorrenti in quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona, in particolare, creando un clima intimidatorio, ostile, degradante umiliante o offensivo”.
La nozione di molestia risulta integrata dal carattere comunque indesiderato della condotta, pur senza che ad essa conseguano effettive aggressioni fisiche a contenuto sessuale. È dunque rilevante l’oggettività del comportamento tenuto e dell’effetto prodotto ed irrilevante l’effettiva volontà di recare offesa (Cass. 31 luglio 2023, n. 23295).
Ed è in questo percorso argomentativo che i Giudici di legittimità richiamano la Convenzione OIL n. 190 sull’eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro, adottata a Ginevra il 21 giugno 2019 e ratificata dall’Italia con la L. 15 gennaio 2021, n. 4.
“La Convenzione e la relativa Raccomandazione del 21 giugno 2019 n. 206 hanno, infatti, arricchito il codice internazionale 11 del lavoro e promosso il rafforzamento della legislazione, delle politiche e delle istituzioni nazionali al fine di rendere effettivo il diritto ad un luogo di lavoro libero da violenza e da molestie. E ciò per avere riconosciuto l’inaccettabilità e l’incompatibilità della violenza e delle molestie con il lavoro dignitoso”.
La Convenzione ha il particolare merito di aver dettato la prima definizione – riconosciuta a livello internazionale – di violenza e molestie legate al lavoro, includendo la violenza e le molestie basate sul genere.
Come ultimamente messo sempre più in evidenza, la violenza e le molestie (siano esse fisiche e/o psicologiche) sono un fenomeno ormai diffuso ed il luogo di lavoro non è certo un’area esente da problematiche simili.
La Convenzione n. 190 e la Raccomandazione n. 206 riconoscono il diritto affinché vi sia un mondo del lavoro libero da violenza e molestie e che ciò sia strettamente connesso con i principi e le garanzie fondamentali nei luoghi del lavoro.
Con tale obiettivo, l’impianto strutturale della Convenzione n. 190 vede un significativo punto di partenza nell’art. 1, lettere a) e b) ove vengono fornite – per la prima volta a livello internazionale – le definizioni universali di violenza e molestie e nel mondo del lavoro e violenza e molestie e di genere nel mondo del lavoro.
Testualmente:
a) l’espressione “violenza e molestie” nel mondo del lavoro indica un insieme di pratiche e di comportamenti inaccettabili, o la minaccia di porli in essere, sia in un’unica occasione, sia ripetutamente, che si prefiggano, causino o possano comportare un danno fisico, psicologico, sessuale o economico, e include la violenza e le molestie di genere;
b) l’espressione “violenza e molestie di genere” indica la violenza e le molestie nei confronti di persone in ragione del loro sesso o genere, o che colpiscano in modo sproporzionato persone di un sesso o genere specifico, ivi comprese le molestie sessuali.
Tale richiamo alla Convenzione, oltre a rappresentare uno spunto di riflessione davvero importante nell’attualità che ci circonda, viene in grande aiuto altresì per la definizione della questione sottoposta a giudizio.
Infatti, dalle definizioni sopra riportate evidenziano il concetto per cui la violenza e molestia si estrinseca in “un insieme di pratiche e di comportamenti inaccettabili” che “si prefiggano, causino o possano comportare un danno fisico, psicologico, sessuale o economico” e si estende a tutti gli “aderenti” al mondo del lavoro.
Veniamo ora al punto nodale della vicenda: l’assolvimento dell’onere probatorio in relazione alle vicende ascritte.
La Corte di Cassazione ha ritenuto precisamente che “l’onere di allegazione dell’incidenza, irrimediabilmente lesiva del vincolo fiduciario, del comportamento extralavorativo del dipendente sul rapporto di lavoro, esso assolto dal datore di lavoro con la specifica deduzione del fatto in sé, quando lo stesso abbia un riflesso, anche solo potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto compromettendo le aspettative di un futuro puntuale adempimento”.
E nel caso di specie, “la banca datrice ha tratto un particolare e giustificato allarme dal”Io stampo dei contegni del proprio dipendente, che rendendosi oltre modo petulante e per giunta violento in pregiudizio di altre due dipendenti, aveva mostrato di essere immune da limiti e discipline – una connotazione assai grave per colui the esprimeva il ruolo di team leader – nella gestione dei rapporti extraprofessionali coi colleghi anche nei rapporti di svago…”.
Pertanto, sulla scorta di ciò, la Corte territoriale ha valutato – correttamente stando alle valutazioni dei Giudici di legittimità – che le condotte contestate fossero “idonee alla definitiva perdita di fiducia della banca nei confronti del sottoposto”.
3. Conclusioni
Dunque, può agevolmente rilevarsi come l’iter argomentativo della Cassazione attraversi principalmente 3 fasi: la prima, concentrata sul rilievo probatorio accertato nelle fasi di merito, la seconda, sull’identificazione della tematica delle molestie, e la terza sul valore da affidare a comportamenti “indesiderati” (anche se esplicati su in piani extra-lavorativi) alla luce di convenzioni internazionali.
Fermo restando che, come rilevato anche dalla medesima Cassazione, gran parte delle contestazioni del lavoratore vertevano su aspetti pienamente di merito e propri di fasi processuali diverse, non certo del giudizio di legittimità.
Al giudice di merito “spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando cosi libera prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti”.
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