Limite all’aumento di pena per effetto della recidiva

     Indice 

  1. Le questioni
  2. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite
  3. Conclusioni

1. Le questioni

La Seconda Sezione penale della Corte di Cassazione – in relazione ad un ricorso in cui, in particolare, il ricorrente si doleva, con il terzo motivo, che, nella fattispecie in esame, avrebbe dovuto trovare applicazione la disposizione del comma 6 dell’art. 99 c.p., con la conseguenza che per il computo del termine di prescrizione ai sensi dell’art. 157, comma 2, c.p., si sarebbe dovuto tenere conto solo dell’aumento di pena in concreto operato per la recidiva nei riguardi dell’imputato, e che, in ragione degli atti interruttivi, non si sarebbe dovuto tenere conto dell’ulteriore aumento di cui al comma 2 dell’art. 99 c.p., l’unico richiamato (assieme a quello del comma 4 dell’art. 99) dall’art. 161, comma 2, c.p. – ravvisava un contrasto interpretativo nella giurisprudenza di legittimità.

Nel dettaglio, questa Sezione notava che, secondo un orientamento nomofilattico maggioritario, per determinare la durata del termine ordinario o minimo di prescrizione, qualora sia stata contestata e ritenuta una recidiva qualificata, è necessario fare riferimento all’aumento di pena previsto dai commi secondo, terzo e quarto dell’art. 99 c.p., con il temperamento derivante dall’applicazione del limite fissato dal comma 6 dello stesso articolo: limite, si è sostenuto, idoneo ad influire non solo sulla commisurazione della sanzione con la sentenza di merito, ma anche sul calcolo di quel termine, e ciò indipendentemente dal fatto che in concreto l’aumento non sia operato in misura superiore ad un terzo della pena base, perché tanto non modifica la natura qualificata della recidiva ai fini dell’applicazione dell’art. 157, comma 2, c.p. mentre, al contrario, secondo tale indirizzo, l’operatività del limite fissato dall’art. 99, comma 6, c.p., ai fini della determinazione della pena, non ha incidenza sulle modalità di calcolo del termine massimo di prescrizione dovuto alla presenza nel processo di atti interruttivi: computo che avviene “in ogni caso” secondo i criteri fissati dall’art. 161, comma 2, c.p., dunque con aumenti “secchi” rispettivamente della metà o di due terzi (Sez. 5, n. 44099 del 24/09/2019).

Invece, secondo un diverso approdo ermeneutico, laddove l’applicazione in sede di determinazione della pena del limite di temperamento imposto dall’art. 99, comma 6, c.p., dovesse comportare in concreto un aumento della pena base in misura pari o inferiore ad un terzo, la recidiva perderebbe la sua natura di circostanza aggravante ad effetto speciale – giusta quanto stabilito dall’art. 63, comma 3, c.p., per cui sono circostanze aggravanti ad effetto speciale solo quelle che determinano un aumento della pena superiore ad un terzo e di essa non è possibile tenere conto in alcun modo ai fini del computo né del termine minimo né di quello massimo della prescrizione del reato (Sez. 3, n. 34949 del 03/11/2020).

Ciò posto, oltre a tali indirizzi interpretativi, la Sezione rimettente individuava anche una terza opzione ermeneutica secondo la quale la ricorrenza delle condizioni previste dall’art. 99, comma 6, c.p., acquisterebbe una rilevanza solo nel momento della commisurazione in concreto della pena da infliggere all’imputato, mentre non avrebbe alcuna incidenza sulla qualificazione della recidiva in termini di circostanza aggravante ad effetto speciale e neppure sulle modalità di computo dei termini di prescrizione del relativo reato.

2. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite

Fermo restando che la questione posta allo loro scrutinio giurisdizionale veniva enunciata dalle stesse Sezioni Unite nei seguenti termini “Se il limite dell’aumento della pena correlato al riconoscimento della recidiva qualificata previsto dall’art. 99, comma 6, c.p. incida sulla qualificazione della recidiva prevista dal secondo e dal comma 4 dell’art. 99 c.p. come circostanza ad effetto speciale e/o influisca sulla determinazione del termine di prescrizione”, dopo essere ripercorsi i due orientamenti nomofilattici tra essi contrapposti, si notava come siffatta questione si basasse su due profili distinti, tra loro complementari.

In particolare, ad avviso delle Sezioni Unite, il primo profilo atteneva propriamente alla definizione della recidiva laddove, contestata e riconosciuta come qualificata ai sensi del secondo o del comma 4 dell’art. 99 c.p. (disposizioni che prevedono rispettivamente un aumento della pena fino alla metà nel caso di recidiva aggravata, della metà in quello di recidiva reiterata semplice o di due terzi in quello di recidiva reiterata aggravata), venga poi fatta applicazione della specifica disposizione dettata dall’art. 99, comma 6, c.p., e l’aumento della pena dovesse essere in concreto operato in misura pari o inferiore ad un terzo sulla pena base mentre il secondo profilo riguardava, invece, i “riflessi” derivanti da quella scelta definitoria in relazione alla esatta delimitazione dell’ambito di operatività della disciplina del calcolo del termine di prescrizione del reato, qualora in concreto l’imputato dovesse beneficiare del ‘meccanismo di temperamento previsto dal più volte citato comma 6 dell’art. 99 c.p.: con la conseguenza di dover chiarire in che maniera tale “meccanismo” incida sul computo sia del termine di prescrizione così detto “minimo“, a mente dell’art. 157 c.p., sia di quello così detto ‘massimò, dovuto all’ulteriore aumento stabilito dall’art. 161, comma 2, c.p., per effetto dell’accertata presenza nel processo di atti interruttivi.

Più nel dettaglio, con riferimento al primo degli indicati profili che sostanziavano il dubbio interpretativo, gli Ermellini notavano prima di tutto che l’interpretazione letterale della norma in questione non fornisce indicazioni di valenza univoca in quanto, a loro avviso, dall’esame del sintagma contenuto nel comma 6 dell’art. 99 c.p. non si desume alcun dato che permetta con certezza di chiarire se l’operatività della disposizione – destinata a limitare l’esercizio dei poteri discrezionali del giudice al momento della commisurazione della pena da infliggere al condannato – comporti la modifica della natura di quelle forme di recidiva.

Ne’ un aiuto alla esegesi è fornito dall’art. 63, comma 3, c.p., che, nello stabilire che “Sono circostanze ad effetto speciale quelle che importano un aumento (…) della pena superiore ad un terzo”, non offre alcuna indicazione di sicuro ancoraggio esegetico in quanto tale disposizione, se letta isolatamente, non spiega se il riferimento riguardi la previsione generale e astratta dell’aumento superiore ad un terzo rispetto ai limiti edittali di pena stabiliti per un reato ovvero se concerne la concreta commisurazione dell’aumento della pena da infliggere all’imputato, in misura superiore a quella frazione, in sede di adozione della sentenza finale di condanna.

Ne’ va trascurato come la disposizione in argomento, nel regolare quel “meccanismo correttivo di contenimento” della pena, parli genericamente di “aumento della pena per effetto della recidiva”, senza alcuna ulteriore precisazione sulla natura della recidiva contestata ovvero in concreto applicata, dunque senza alcuna pretesa di condizionarne la qualificazione come altrimenti desumibile dalla legge.

Appare, invece, significativo, per la Corte di legittimità, il fatto che il considerato “criterio di temperamento” dell’aumento della pena conseguente al riconoscimento della recidiva può riguardare anche gli effetti della recidiva semplice di cui all’ art. 99 c.p. comma 1, potendosi fondatamente ritenere che l’indeterminata menzione, al plurale, della misura del “cumulo delle pene“, rappresenti un riferimento puramente indicativo: anche perché escludere la operatività di quel criterio nelle ipotesi di recidiva non qualificata potrebbe avere come irragionevole effetto quello di sanzionare in maniera più severa l’imputato cui sia stata addebitata la forma meno grave di recidiva.

Se, dunque, in presenza di un’unica  precedente condanna – capace di integrare gli estremi tanto di una recidiva semplice quanto di una aggravata ma non reiterata – il limite all’aumento finisce per essere determinato sulla base della sola pena inflitta con l’unica precedente condanna subita dal colpevole (in questo senso si sono espresse, tra le tante, Sez. 3, n. 31293 del 08/05/2019; Sez. 2, n. 43768 del 08/10/2013; Sez. 4, n. 29896 del 17/07/2012), se ne potrebbe fondatamente dedurre, per il Supremo Consesso, che, con l’art. 99 c.p., comma 6, il legislatore, facendo riferimento a tutte le forme di recidiva e non solo a quelle qualificate, non abbia avuto alcun intento di incidere ovvero di modificare la natura di ciascuna di quelle circostanze aggravanti.

Ciò posto, era altresì fatto presente che un importante ausilio alla corretta definizione degli effetti applicativi della disposizione in esame è fornito dalla sua interpretazione logico-sistematica posto che, in tale ambito, può essere valorizzata la norma contenuta nel comma 4 dell’art. 63 c.p. (per cui “Se concorrono più circostanze aggravanti tra quelle indicate nel secondo capoverso di questo articolo, si applica soltanto la pena stabilita per la circostanza più grave; ma il giudice può aumentarla”), con la quale il legislatore ha espressamente riconosciuto come la natura di ciascuna quelle circostanza aggravanti, come qualificate dal comma precedente (“Sono circostanze ad effetto speciale quelle che importano un aumento (…) della pena superiore ad un terzo”), non venga meno né subisca un mutamento in ragione del fatto che il giudice, in relazione al riconoscimento di una o più circostanze ulteriori rispetto alla prima, decida in concreto di operare un aumento della pena in misura pari o inferiore ad un terzo; aumento, peraltro, discrezionale, potendo egli persino decidere di non operare alcun incremento della pena come già aumentata in ragione del riconoscimento della prima circostanza aggravante, rilevandosi al contempo come, in sede nomofilattica, sia stato in più occasioni evidenziato che, ai fini dell’applicazione della disciplina della prescrizione del reato, le circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena diversa da quella ordinaria del reato e quelle ad effetto speciale mantengano la loro natura anche se, concorrendo con altra circostanza analoga, non possono comportare un aumento superiore ad un terzo ai sensi dell’art. 63, comma 4, c.p. (così, ex multis, Sez. 6, n. 23831 del 14/05/2019; Sez. 2, n. 47028 del 03/10/2013; Sez. 2, n. 31065 del 10/05/2012).

In particolare, se è vero che la disposizione dettata dall’art. 63, quarto comma, c.p., nel regolare gli effetti pratici del concorso di più circostanze omogenee ad effetto speciale, fissa un criterio di temperamento che, nel limitare il potere discrezionale del giudice, opera in maniera differente da quanto accade con il “meccanismo di contenimento” fissato dall’art. 99, comma 6, c.p., che stabilisce un “tetto massimo” all’aumento di pena, facendo venire meno qualsivoglia margine di discrezionalità decisionale del giudice, è altrettanto vero come sia rinvenibile un palese “parallelismo” tra le due anzidette disposizioni poste a raffronto nelle quali è riconoscibile l’elemento comune della mancata incidenza di quei criteri di contenimento degli aumenti della pena, dunque di determinazione limitata del quantum, sulla natura della circostanza aggravante di cui viene fatta applicazione.

Precisato ciò, i giudici di piazza Cavour evidenziavano oltre tutto come non potesse essere nemmeno trascurato quanto sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità in sede di esegesi dell’art. 278 c.p.p. che, come noto, prevede che, agli effetti dell’applicazione delle misure cautelari personali, “si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato”, senza tenere conto delle circostanze del reato fatta eccezione “delle circostanze per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale”.

Orbene, nel considerare l’incidenza che ai fini cautelari possono avere eventuali disposizioni che regolano gli effetti del concorso di più circostanze del reato, le Sezioni Unite hanno avuto modo di porre in luce come, nel caso concorrano più circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato o circostanze ad effetto speciale, si debba tener conto, ai sensi dell’art. 63, comma 4, c.p., della pena stabilita per la circostanza più grave, aumentata di un terzo, e come tale aumento costituisca cumulo giuridico delle ulteriori pene e limite legale dei relativi aumenti per le circostanze meno gravi del tipo già detto, che tuttavia mantengono la loro natura (in questo senso Sez. U, n. 16 del 08/04/1998).

In pratica, si è posto in luce come “la natura della circostanza, comune o ad effetto speciale, non p(ossa) derivare dal meccanismo relativo all’aumento della pena previsto dall’art. 63 citato per le circostanze ulteriori rispetto a quella più grave, perché esso è ispirato al criterio del cumulo giuridico, tant’e’ che se così non fosse la medesima circostanza muterebbe natura, da circostanza ad effetto speciale a circostanza comune, a seconda che fosse contestata da sola ovvero dalla posizione assunta nell’ordine di gravità delle circostanze concorrenti (…) ogni circostanza mantiene la sua natura perché è irragionevole ritenere che la muti a seconda della sua collocazione nell’ordine di gravità delle circostanze che concorrono, ma anche e soprattutto che la regola dell’aumento fino ad un terzo posta dalla norma codicistica costituisce certo un cumulo giuridico delle pene per le ulteriori circostanze, ma assolve anche alla funzione di limite legale della pena per la particolare ipotesi considerata (…) Quindi, la natura della circostanza è sempre la stessa, e perché ciò sia evidente è sufficiente considerare che i dati normativi sostanziali, sia costitutivi di reato sia di circostanze, rilevano sempre in due momenti, quello edittale in cui si considera a certi effetti la pena stabilita in modo vincolato dalla legge e quello giudiziale in cui quella stessa pena è valutata nella sua discrezionale applicazione da parte del giudice” (Sez. U, n. 16 del 08/04/1998).

Tale regula iuris – che ha una portata argomentativa che, per quanto innanzi esposto, per la Suprema Corte, può avere riflessi anche nell’analisi che era effettuata nella fattispecie in esame – la cui validità è stata ribadita da una successiva sentenza delle Sezioni Unite nella medesima materia (Sez. U, n. 38518 del 27/11/2014), è importante proprio perché indicativa di una chiara tendenza del legislatore a differenziare il momento della qualificazione di una circostanza nel contesto della sua incidenza astratta sulla determinazione della pena edittale di un determinato reato, rispetto al momento della determinazione degli effetti del relativo riconoscimento al momento della commisurazione della pena in relazione al caso concreto.

Da ciò se ne faceva conseguire come sia possibile ragionevolmente affermare che l’art. 63 c.p., comma 3, allorquando stabilisce che vanno qualificate come circostanze aggravanti ad effetto speciale quelle che comportano un aumento della pena superiore ad un terzo, fa riferimento alla oggettiva idoneità di quella circostanza a determinare “in astratto” un aumento della pena base edittale in misura percentuale superiore alla frazione indicata e ciò indipendentemente dalla operatività, in sede di successiva commisurazione della pena nel caso concreto, di “criteri di temperamento” fissati dalla stessa legge.

E’ fondato, perciò, ritenere che – al contrario di quanto sostenuto dalle pronunce che aderiscono al secondo orientamento giurisprudenziale delineato in premessa – l’aumento della pena in conseguenza della applicabilità del limite fissato dall’art. 99, comma 6, c.p., in misura in concreto pari o non superiore ad un terzo della pena base, non incida sulla natura della recidiva qualificata contestata ai sensi dell’art. 99 c.p., secondo, terzo o comma 4, la cui natura di circostanza aggravante ad effetto speciale resta – ad ogni effetto di legge – immutata atteso che, diversamente ragionando, non solo si arriverebbe a far derivare la definizione della natura della recidiva da un fattore individualmente variabile, perché soggettivamente condizionato dalla misura del cumulo delle pene risultante dalle precedenti condanne, che è entità contingente differente per un imputato rispetto ad un altro; ma soprattutto si finirebbe per far dipendere la definizione della natura della recidiva dal diverso momento in cui se ne dovessero considerare gli effetti poiché, nei riguardi di un medesimo imputato l’entità del cumulo delle pene derivanti dalle sue precedenti condanne potrebbe risultare non superiore ad un terzo se rapportata alla pena massima edittalmente fissata per il reato contestato e, al contrario, diventare superiore a quella frazione percentuale se raffrontata alla pena in concreto determinata dal giudice al momento della definizione del trattamento sanzionatorio con la sentenza di condanna.

Si avrebbe, così, una natura di quella circostanza aggravante “a geometria variabile“: soluzione che, per le Sezioni Unite, oltre a risultare contraria all’esigenza di certezza che deve ispirare ogni scelta di attribuzione di una qualificazione giuridica di un istituto giuridico e di delimitazione dei relativi effetti, potrebbe tradursi in irragionevoli applicazioni pratiche e, perciò, in inammissibili disparità di trattamento nei confronti di soggetti che si trovano in situazioni sostanzialmente assimilabili.

Ciò posto, passando all’esame del secondo profilo summenzionato – e cioè se il limite dell’aumento della pena correlato al riconoscimento della recidiva qualificata, previsto dall’art. 99, comma 6, c.p., influisca sulla determinazione dei termini di prescrizione del reato – veniva rilevato innanzitutto che le norme di riferimento sono costituite da quelle dettate dagli artt. 157, primo e comma 2, e 161, secondo comma, c.p., per poi subito dopo postulare che l’interpretazione letterale di tali disposizioni non offre dati di univoca valenza dimostrativa.

In particolare, era fatto presente che, con riferimento alle modalità di calcolo del termine ordinario o minimo della prescrizione di ciascun reato, l’art. 157, comma 1, c.p., nel prevedere che “La prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge”, dunque stabilendo che è il limite massimo della “pena legale” a scandire cronologicamente le diverse possibili fasi di durata del termine di prescrizione, potrebbe indurre a ritenere che il “tetto” in questione non possa che coincidere con quello oltre il quale il giudice non può comunque andare nel determinare la pena da infliggere all’imputato.

Tuttavia, per il Supremo Consesso, la disposizione del successivo comma 2 dello stesso art. 157, nel precisare i criteri da seguire per il calcolo del “tempo necessario a prescrivere”, impone senza riserve di tenere conto “dell’aumento massimo di pena previsto per l’aggravante” speciale o ad effetto speciale.

Dunque, nel caso di contestazione di una recidiva qualificata (aggravata, pluriaggravata o reiterata) sembrerebbe che l’aumento della pena base, ai fini del computo del termine minimo di prescrizione del relativo reato, debba essere sempre operato con l’incremento massimo stabilito dall’art. 99 c.p., dunque della metà nel caso di contestazione della recidiva aggravata, pluriaggravata o reiterata semplice (ex art. 99, secondo, terzo e comma 4, prima parte, c.p.) o di due terzi nel caso di contestazione della recidiva reiterata pluriaggravata (ex art. 99, comma 4, seconda parte, c.p.).

L’esegesi formale delle norme in analisi consentirebbe, perciò, per i giudici di piazza Cavour, di affermare che sul computo del termine minimo di prescrizione di un reato non dovrebbe avere alcuna incidenza il “criterio moderatore” dell’aumento della pena fissato dall’art. 99, comma 6, c.p.: d’altro canto se, come si è detto, l’operatività di tale disposizione non modifica la natura della recidiva qualificata come circostanza ad effetto speciale, si sarebbe conseguentemente indotti a confermare come quel “criterio” sia ininfluente sugli effetti applicativi della disposizione contenuta nell’art. 157, comma 2, c.p., restando però il dubbio se, con l’inciso finale contenuto nel comma 2 dell’art. 157 c.p., il legislatore abbia voluto far riferimento all’”aumento massimo di pena” previsto per una di quelle aggravanti dunque, anche per effetto della contestazione di una recidiva qualificata – in astratto oppure all’aumento che in concreto può essere operato in relazione alla posizione di ciascun specifico imputato.

Precisato ciò, all’opposto, ad avviso della Corte di legittimità, l’interpretazione letterale dei sintagmi contenuti nell’art. 161, comma 2, c.p., è più agevole dal momento che la formula lessicale non aiuta direttamente a comprendere se il “criterio di temperamento” dell’aumento della pena previsto dall’art. 99, comma 6, c.p., influisca o meno sulla determinazione del termine massimo di prescrizione di un reato: vale a dire di quel termine che noci è possibile in ogni caso superare, anche tenendo conto del compimento nel processo di quegli alti interruttivi che comportano una nuova decorrenza del termine ordinario di prescrizione.

La disposizione in parola, invero, nello stabilire che “in nessun caso l’interruzione della prescrizione può comportare l’aumento (…) del tempo necessario a prescrivere (…di più…) della metà (…) nei casi di cui all’art. 99, comma 2 (o) di due terzi nel caso di cui all’art. 99, comma 4”, non facendo menzione del comma 6 dello stesso articolo, non chiarisce se quella omissione sia manifestazione di una scelta consapevole o il frutto di un involontario difetto di coordinamento.

Ebbene, premesso che è chiaramente ininfluente il fatto che l’art. 161, comma 2, c.p., non parli del comma 3 dell’art. 99 c.p. – perché il caso della recidiva pluriaggravata, che comporta un aumento della pena della metà, ai fini del computo dei termini di prescrizione è sostanzialmente assimilabile a quello della recidiva aggravata, per il quale è previsto l’aumento della pena fino alla metà – si osservava come l’esplicito richiamo delle due categorie tipologiche di recidiva qualificata in quanto tali, il mancato impiego di formule riecheggianti i “limiti massimi edittali” di pena e la valorizzazione del riferimento ad aumenti “secchi” della pena (della metà o di due terzi), siano elementi che inducono fondatamente a ritenere che l’aumento del termine per la prescrizione dovuto alle interruzioni del decorso dell’iniziale termine ordinario, non possa essere in alcun modo condizionato dal “criterio di temperamento” del calcolo finale della pena di cui al comma 6 dell’art. 99 c.p., al cui rispetto e’, invece, tenuto il giudice della cognizione al momento della commisurazione finale della pena da irrogare all’imputato.

E’ quindi l’interpretazione logico-sistematica che accredita la correttezza della ricostruzione per cui l’omesso richiamo, in entrambe le disposizioni in argomento, dell’art. 99, comma 6, c.p., risponda ad una logica unitaria, in base alla quale il momento del computo della pena ai fini del calcolo del termine di prescrizione, da effettuarsi secondo parametri oggettivi, generali e astratti, va tenuto distinto dal momento della determinazione della pena da irrogare al condannato, nel quale vanno seguiti criteri concreti e soggettivamente più specifici sui quali possono incidere le esaminate regole limitatrici del potere discrezionale del giudice di quantificazione della sanzione.

Tale impostazione, invero, ad avviso delle Sezioni Unite, garantisce una lettura non disgiunta e congruente di due norme strettamente connesse tra loro, quali sono quelle dettate dagli artt. 157 e 161 c.p. e risulta, in ogni caso, più coerente con la natura della recidiva, che è circostanza caratterizzata da una “marcata ambivalenza” desumibile dalla stessa sistematica del codice penale atteso che, dal complesso delle disposizioni codicistiche, si evince come tale istituto possa esplicare una duplice funzione, potendo servire a determinati fini “a condurre la sanzione finale oltre i tetti di pena fissati dalla comminatoria edittale, e, al contempo, (ad) assolve(re) alla funzione di commisurazione della pena, fungendo (al di là di ogni automatismo, contrario ai valori della Carta fondamentale) da strumento di adeguamento della sanzione al fatto, considerato sia nella sua obiettiva espressione che nella relazione qualificata con il suo autore” (così Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, in motivazione; conf., in seguito, Sez. U., n. 42414 del 29/04/2021, in motivazione; Sez. U, n. 3585 del 24/09/2020, in motivazione); in altri termini, i presupposti operativi dell’istituto sono diversi a seconda che gli effetti della contestazione di una forma recidiva qualificata vengano considerati nel corso del procedimento oppure ai fini della commisurazione della pena, in sede di adozione della sentenza finale di condanna.

Durante lo sviluppo del processo, è pertanto sufficiente che la recidiva qualificata sia stata contestata all’imputato e riconosciuta (e come tale dichiarata) sussistente dal giudice nei suoi requisiti formali, e ciò avviene – oltre che per poter determinare il termine di prescrizione del reato addebitato (v. Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011; Sez. 5, n. 35852 del 07/06/2010; Sez. 5, n. 22619 del 24/03/2009) – ad esempio ai sensi dell’art. 444, comma 1-bis, c.p.p., per stabilire l’ammissibilità del rito dell’applicazione della pena su richiesta delle parti nella sua forma “allargata” laddove sia stata ascritta all’imputato una recidiva reiterata (in questo senso Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010; conf. in seguito, tra le tante, Sez. 2, n. 23548 del 30/04/2019; Sez. 1, n. 23643 del 11/02/2014) oppure per definire, sia pur sulla base di una contestazione provvisoria, l’esistenza di una condizione di procedibilità del reato (Sez. U, n. 3585 del 24/09/2020).

Al contrario, al termine del processo, nel momento della adozione della sentenza di merito di condanna e della definizione del trattamento sanzionatorio, la recidiva qualificata, oltre ad essere riconosciuta, deve essere motivatamente applicata dal giudice, previa verifica della sussistenza dei suoi presupposti sostanziali costituiti dalla maggiore colpevolezza e dalla più elevata capacità a delinquere del reo, da accertarsi in via discrezionale (Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011; Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010) con la conseguenza che, una volta che il giudice non ravvisi la sussistenza di una relazione qualificata fra i precedenti dell’imputato e il fatto di reato della nuova condanna, la circostanza perde ogni suo rilievo anche ai fini del computo del tempo necessario a prescrivere il reato (in questo senso, tra le tante, Sez. 6, n. 54043 del 16/11/2017; Sez. 2, n. 48293 del 26/11/2015; Sez. 3, n. 9834 del 17/11/2015; Sez. 2, n. 2090 del 10/01/2012; Sez. 6, n. 43771 del 07/10/2010).

Una visione sistematica delle norme de quibus porta, dunque, a ritenere la Corte di Cassazione che lo statuto inerente alle modalità di computo dei termini di prescrizione, in ragione della sua peculiare proiezione finalistica, impone al giudice di applicare la relativa disciplina secondo canoni differenti da quelli che governano lo statuto della commisurazione in concreto della pena al momento della emissione della sentenza di merito e, di conseguenza, per tali ragioni, non appare condivisibile, per le Sezioni Unite, quanto sostenuto nelle pronunce che aderiscono al primo orientamento giurisprudenziale maggioritario considerato nella parte introduttiva secondo cui il giudice dovrebbe tenere conto del limite dell’aumento della pena previsto dall’art. 99, comma 6, c.p., sia pur ai soli fini del computo del solo termine minimo e non anche di quello massimo di prescrizione.

D’altronde, l’interpretazione teleologica delle disposizioni in argomento fornisce, per la Corte di legittimità, ulteriori argomenti che permettono di confermare la fondatezza della lettura unitaria della disciplina della prescrizione che in questa sede si ritiene di dover preferire.


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Prima delle modifiche introdotte dalla L. n. 251 del 2005, le disposizioni del codice penale regolavano le modalità di computo del termine di prescrizione prevedendo sei fasce di reati, ordinate secondo un parametro di gravità decrescente, ciascuna delle quali era qualificata da una relazione tra limiti edittali massimi di pena e diversi termini minimi di prescrizione, rilevandosi al contempo che in quel sistema normativo era evidente la volontà del legislatore di far tendenzialmente coincidere (sia pur con taluni correttivi) i criteri di computo della pena edittale massima, ai fini della individuazione del termine di prescrizione del reato, con i criteri che avrebbero poi indirizzato le scelte giudiziali in sede di commisurazione finale della pena: il giudice era chiamato a verificare il decorso del termine di prescrizione tenendo conto, nella individuazione “del massimo della pena stabilita dalla legge per il reato”, degli effetti del riconoscimento di circostanza attenuanti, comprese di quelle generiche; degli esiti del giudizio di bilanciamento di circostanze di segno diverso ai sensi dell’art. 69 c.p.; nonché, per individuare la data della decorrenza di quel termine, del risultato dell’applicazione della disciplina del reato continuato o, ai fini della delimitazione delle conseguenze della sospensione o dell’interruzione del decorso, di eventuali cause di connessione tra reati. In quel contesto poteva, perciò, avere un senso considerare anche il “criterio di temperamento” fissato dall’art. 99 c.p., comma 6, per il caso di riconoscimento e di applicazione di una recidiva qualificata.

Le novità introdotte dalla L. n. 251 del 2005, quindi, oltre a determinare una riscrittura dei parametri di ripartizione delle differenti categorie di reati in ragione della loro gravità e delle modalità di collegamento con i distinti termini di prescrizione – con modifiche, basate sulla equiparazione del tempo necessario a prescrivere al massimo della pena edittale stabilita per ogni singolo reato, che hanno comportato non poche aporie di sistema, sulle quali in questa sede non è utile soffermarsi – sono state sicuramente influenzate dal dichiarato intento di oggettivizzare i criteri di computo del termine di prescrizione, valorizzando rigidi fattori ed evitando che quel calcolo potesse essere condizionato dagli esiti di scelte discrezionali dell’autorità giudiziaria, che – si legge nei testi dei lavori parlamentari – in precedenza si erano talora tradotte in forme di incontrollato “clemenzialismo” giudiziario, capaci di minare l’efficacia del principio costituzionale di uguaglianza.

Orbene, in tale rinnovato quadro normativo – qualificato dalla scomparsa di ogni tendenziale “parallelismo” tra i poteri valutativi in ordine alla operatività dell’istituto della prescrizione del reato e i poteri esercitati dal giudice ai fini della commisurazione della pena finale – si è inserita all’evidenza l’opzione di cancellare, in sede di verifica del decorso del termine prescrizionale, l’incidenza del riconoscimento di diminuenti, di circostanze attenuanti e di circostanze aggravanti diverse da quelle speciali o ad effetto speciale, con la considerazione di queste ultime solamente nel loro effetto astratto di possibile aumento massimo della pena (art. 157, comma 2, c.p.); nonché la scelta di escludere ogni qualsivoglia rilevanza agli esiti del giudizio di comparazione in caso di concorso di circostanze di segno diverso (art. 157, comma 3, c.p.).

Con la disciplina ora vigente (sulla quale sono intervenute altri successivi provvedimenti legislativi, ma su aspetti che in questa sede non rilevano) è la legge, si potrebbe dire, a pre-stabilire la durata cronologica necessaria per la maturazione di quella causa di estinzione di ciascun reato: il ruolo del giudice è stato in tal modo “affievolito” perché, fermo restando il suo compito di dare in forma motivata la corretta qualificazione giuridica ai fatti contestati all’imputato dalla pubblica accusa, egli è stato, a quei fini di computo, privato della titolarità di poteri discrezionali di riconoscimento di attenuanti ovvero di valutazioni comparative di circostanze di segno contrario: cioè di quei poteri il cui esercizio, sotto la vigenza della precedente disciplina, aveva spesso consentito di “declassare” il reato, facendolo confluire in una fascia più favorevole all’imputato ai fini del computo di un diverso e più ridotto termine di prescrizione.

Se, dunque, la volontà del legislatore della novella è stata quella di assicurare che il calcolo del termine minimo di prescrizione venga indirizzato solamente dall’applicazione di parametri generali, oggettivi e astratti, anziché essere influenzato dal risultato dell’esercizio di quei poteri discrezionali che il giudice è chiamato ad esercitare solo nel momento in cui egli è chiamato a definire il trattamento sanzionatorio riservato specificamente a ciascun imputato, è fondato ritenere che alla medesima logica risponda la riscrittura dell’art. 161, comma 2, c.p., operata dalla novella del 2005.

Di talché la scelta di non richiamare, in tale disposizione, il comma 6 dell’art. 99 c.p., non può dirsi il frutto di un difettoso coordinamento, ma l’espressione di una consapevole scelta diretta ad escludere che il calcolo del termine di prescrizione possa essere condizionato da uno dei criteri mutevoli legati alle peculiarità soggettive del caso concreto ovvero alle particolarità della biografia criminale dell’autore del reato, qual è appunto il criterio, fissato dal più volte citato comma 6 dell’art. 99 c.p., “di temperamento” nella determinazione della pena da irrogare al recidivo.

In altri termini, per le Sezioni Unite, con la profonda riscrittura della disciplina codicistica da parte della L. n. 251 del 2005, il legislatore ha voluto considerare su piani diversi le regole concernenti le modalità di commisurazione individuale della pena da irrogare a ciascun specifico imputato con la sentenza finale di condanna, valide in un momento nel quale il trattamento sanzionatorio va definito nel rispetto del vincolo costituzionale che impone di determinare una pena funzionalmente coerente con l’obiettivo primario di rieducazione del reo; rispetto alle regole, oggettive, generali ed astratte, da impiegare per il calcolo del termine di prescrizione del reato, e cioè del periodo di tempo superato il quale l’ordinamento perde l’interesse alla repressione del reato commesso, che valorizzano i parametri edittali della pena per poi seguire criteri di ulteriore computo predeterminati dalla legge, che sfuggono alla logica del trattamento sanzionatorio individuale, deducendosi contestualmente che un riscontro a sostegno della opzione ermeneutica innanzi esposta è riconoscibile nello sviluppo motivazionale della sentenza con la quale le Sezioni Unite hanno puntualizzato quali siano le conseguenze della decisione del giudice, in fase di commisurazione della pena finale, di riconoscere una recidiva qualificata ma di non farne applicazione, giudicandola subvalente ad una circostanza attenuante. Situazione in relazione alla quale si è affermato come con la valutazione della “recidiva subvalente rispetto alle concorrenti attenuanti (il giudice) esprim(a) una valutazione di disfunzionalità della recidiva rispetto a quel programma di trattamento che comincia a delinearsi con la fissazione della pena da infliggere”: ne consegue che “ove il giudizio di bilanciamento di cui all’art. 69 c.p. si concluda con una valutazione di subvalenza della recidiva, di questa non può tenersi conto ad alcuno effetto, salvo che nelle ipotesi in cui sia espressamente previsto che deve tenersi conto della recidiva senza avere riguardo al giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p.”.

Il riferimento è stato operato in maniera esplicita alla differente disciplina del calcolo del termine di prescrizione del reato dato che l’art. 157 c.p. comma 3, espressamente esclude l’operatività in tale materia della disposizione dell’art. 69 dello stesso codice: “la disciplina della prescrizione offre un nitido punto di ancoraggio” “per la tesi della rilevanza della recidiva anche quando il giudizio di bilanciamento l’abbia vista subvalente; l’art. 157 c.p. comma 3, esclude espressamente che possa tenersi in considerazione il giudizio di cui all’art. 69 c.p. ai fini della determinazione della pena massima del reato di cui trattasi, fattore di riferimento per il computo del termine di prescrizione. E poiché l’art. 161 c.p. richiama talune ipotesi di recidiva coordinando la regola al tempo necessario a prescrivere, definito secondo quanto previsto dall’art. 157 c.p., resta confermato che anche ai fini del computo del termine di prescrizione in caso di sospensione e di interruzione del corso dello stesso la recidiva assume rilievo solo che sia stata riconosciuta” (Sez. U, n. 20808 del 25/10/2018, dep. 2019, p. 11.1 e 11.2).

In buona sostanza, sempre secondo il Supremo Consesso, risulta altrimenti acclarato come le regole di commisurazione della pena da parte del giudice della sentenza di merito operino su un piano concreto, calibrato sulla specifica posizione soggettiva del condannato, che è diverso da quello generale e astratto che il giudice è tenuto a seguire ai fini del computo del termine di prescrizione, nel senso che, nel momento della definizione del trattamento sanzionatorio, il giudice tiene conto della “storia criminale” del condannato e, così come è tenuto a rispettare il “criterio di contenimento di cui all’art. 99, comma 6, c.p., laddove dovesse operare un aumento della pena, può arrivare a riconoscere sussistente ma a non applicare la recidiva qualificata, giudicandola subvalente rispetto a una circostanza attenuante, con una valutazione di disfunzionalità di quella circostanza rispetto al delineando programma di tale trattamento; al contrario” il riconoscimento della recidiva qualificata anche con un giudizio finale di subvalenza rispetto ad una attenuante continua a produrre in maniera piena i suoi effetti indiretti sul calcolo del termine di prescrizione, giusta la statuizione contenuta nell’art. 157 c.p. comma 3.

Oltre a ciò, si rilevava come non conduca a differenti conclusioni il fatto che il legislatore del 2005, ridefinendo il contenuto dell’art. 161, comma 2, c.p., abbia modificato la disciplina degli effetti della interruzione del decorso del termine di prescrizione del reato, valorizzando condizioni di natura tipicamente soggettiva quali sono quelle sottostanti le forme di recidiva aggravata o reiterata di cui al secondo e al comma 4 dell’art. 99 c.p. e, in tal modo, realizzando quella che una preoccupata dottrina aveva qualificato come il frutto di una “inedita” operazione di “connessione funzionale“, in base alla quale si è consentito che un istituto come la recidiva, nel quale è ravvisabile “l’embrione del diritto penale d’autore”, potesse contagiare “un istituto dalle solide radici oggettive, qual è per l’appunto quello della prescrizione, in quanto imperniato sul mero decorso del tempo e sul conseguente diritto all’oblio” posto che la recidiva è circostanza del reato sicuramente di natura soggettiva perché inerisce alla persona del colpevole, ma nel rinnovato impianto normativo di quella causa di estinzione del reato è stata legittimamente intesa come espressione di un maggiore disvalore del fatto di reato in senso oggettivo, tanto da giustificare un regime globalmente più severo nel computo del decorso dei termini prescrizionali ed è per tale ragione che le recidive qualificate, intese come circostanze aggravanti ad effetto speciale – a differenza di quanto accade per la dichiarazione di delinquenza abituale o di professionalità nel reato, valorizzabili solo per l’eventuale individuazione del termine massimo di prescrizione – sono state significativamente considerate rilevanti anche ai fini del calcolo del termine minimo della prescrizione ai sensi dell’art. 157 c.p., comma 2.

Infatti, se è ben vero che il risultato finale della riscrittura della disciplina della prescrizione operata nel 2005 ha comportato una forma di irrigidimento del sistema e una incidenza oltremodo rigorista della contestazione di una delle forme di recidiva qualificata sulla determinazione dei tempi per la maturazione di quella causa di estinzione del reato e ciò anche per l’effetto “duplicatorio” del riconoscimento di quelle recidive, considerate dapprima come circostanze ad effetto speciale ai fini del calcolo del termine ordinario o minimo della prescrizione e poi incidenti sul computo del termine massimo invalicabile in caso di pluralità di atti interruttivi, trattandosi di un impianto normativo la cui portata applicativa è eventualmente valutabile, caso per caso, ai fini della verifica di compatibilità con i principi della Carta fondamentale laddove dovesse comportare irragionevoli conseguenze distorsive, ma che non vi è dubbio sia stata proprio l’espressione della innanzi delineata volontà di politica criminale del legislatore della novella.

Come noto, la Corte costituzionale è già reiteratamente intervenuta in materia per attenuare talune conseguenze pratiche troppo rigorose con riferimento al momento della determinazione finale della pena, perché ritenute in contrasto con il principio di proporzione tra quantità e qualità della sanzione rispetto all’offesa, di cui all’art. 27, comma 3, Cost. (cfr., tra le altre, Corte Cost., sent. n. 143 del 2021; Corte Cost., sent. n. 55 del 2021; Corte Cost., sent. n. 73 del 2020; Corte Cost., sent. n. 205 del 2017; Corte Cost., sent. n. 74 del 2016; Corte Cost., sent. n. 185 del 2015; Corte Cost., sent. n. 106 del 2014; Corte Cost., sent. n. 105 del 2014; Corte Cost., sent. n. 251 del 2012; e Corte Cost., sent. n. 183 del 2011).

Nella più specifica ottica che rilevava nel caso di specie, era rilevato come nei passaggi argomentativi di alcune pronunce della giurisprudenza costituzionale vi sia stato modo di riconoscere affermazioni che indirettamente forniscono un riscontro alla correttezza della scelta ermeneutica che si è inteso privilegiare nel definire la questione sottoposta all’odierno esame dalle Sezioni Unite.

In particolare, la Corte costituzionale, nel dichiarare la infondatezza o la inammissibilità di una serie di questioni di legittimità aventi ad oggetto le novità normative introdotte dalla L. n. 251 del 2005, ha non solo sottolineato come la scelta di considerare, ai fini del calcolo del termine di prescrizione dei reati, basata sulla “tendenziale correlazione, già accolta nel codice del 1930, tra il tempo necessario a prescrivere e la gravità del reato”, possa rispondere ad un ragionevole esercizio discrezionale del potere legislativo laddove vengano ponderati “i vari interessi coinvolti dalla complessa disciplina della prescrizione e, ciò facendo…(escludendo)… la considerazione di alcuni fattori, pure suscettibili di incidere sull’entità della pena…”; ma soprattutto ha posto in risalto come non possa ritenersi “irragionevole che il legislatore (abbia) ritenuto che la rinuncia a perseguire i fatti criminosi debba essere rapportata alla gravità del reato nella sua massima ipotizzabile esplicazione sanzionatoria prevista per la fattispecie base e sul massimo aumento di pena previsto per quelle circostanze aggravanti – quelle a effetto speciale e quelle che comportano un mutamento qualitativo della pena che, cogliendo elementi del fatto connotati da una maggiore idoneità a incidere sull’ordinaria fisionomia dell’illecito, comportano una eccezionale variazione del trattamento sanzionatorio: così disegnando una disciplina della prescrizione non irragionevole “in quanto volta a stabilire tempi certi e predeterminati di prescrizione dei reati” (Corte Cost., sent. n. 324 del 2008).

In seguito la Corte costituzionale, nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità dell’art. 161, comma 2, c.p. – sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui prevede un sistema di computo dei termini prescrizionali collegato anche allo status dell’imputato, prevedendo un più lungo termine di prescrizione in caso di atti interruttivi riguardanti delinquenti recidivi – perché posta dal giudice rimettente in un processo penale nel quale era stato effettuato in maniera non corretta il calcolo del termine di prescrizione, ha espressamente riconosciuto un “parallelismo” tra le disposizioni dettate dagli artt. 157, comma 2, e 161, comma 2, c.p.: in particolare sottolineando come il giudice a quo avesse trascurato “che la recidiva reiterata infraquinquennale contestata all’imputato sottoposto al suo giudizio, prima ancora di determinare un allungamento del termine massimo, incide già sul termine ordinario di prescrizione del reato” (Corte Cost., ord. n. 34 del 2009).

Conclusa anche tale disamina, in conclusione, alla luce delle argomentazioni fin qui esposte, la questione oggetto di rimessione veniva risolta enunciando i seguenti principi di diritto:

“Il limite all’aumento di cui alla previsione dell’art. 99 c.p., comma 6:

– non rileva in ordine alla qualificazione della recidiva, come prevista dal secondo e dal comma 4 del predetto articolo, quale circostanza ad effetto speciale;

– non influisce sui termini di prescrizione determinati ai sensi degli artt. 157 e 161 c.p.p., come modificati dalla L. n. 251 del 2005″.

3. Conclusioni 

Con la decisione in esame, le Sezioni Unite, componendo un pregresso contrasto giurisprudenziale, hanno postulato che il limite all’aumento di cui alla previsione dell’art. 99, co. 6, c.p., che, come è noto, dispone che in “nessun caso l’aumento di pena per effetto della recidiva può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo delitto non colposo”, da un lato, non rileva in ordine alla qualificazione della recidiva, come prevista dal secondo e dal comma 4 del predetto articolo, quale circostanza ad effetto speciale, e, di conseguenza, ai fini degli incrementi di pena previsti per la recidiva specifica o infraquinquennale o, nel caso in cui sia commesso un nuovo delitto non colposo commesso durante o dopo l’esecuzione della pena, ovvero durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena, oppure, ancora, nell’ipotesi di recidiva reiterata, dall’altro, non rileva nemmeno sui termini di prescrizione determinati ai sensi degli artt. 157 e 161 c.p.p., come modificati dalla L. n. 251 del 2005 e, quindi, per quanto concerne il tempo necessario a prescrivere (secondo quanto disposto dall’art. 157 c.p.) e per quanto riguarda gli effetti della sospensione e della interruzione (secondo quanto enunciato dall’art. 161 c.p.), in riferimento alle modifiche apportate a tali precetti normativi dalla legge n. 251/2005.

Il limite di cui al comma sesto dell’art. 99 c.p., di conseguenza, per effetto di questa pronuncia, è stato ampiamente circoscritto nella sua portata applicativa rispetto a quanto consentito in precedenza (perlomeno alla stregua di uno degli orientamenti nomofilattici che erano stati elaborati prima che venisse emessa la decisione qui in commento).

Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché ha fatto chiarezza su siffatta tematica giuridica sotto il profilo giurisprudenziale, quindi, non può che essere positivo.

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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