- Le ragioni che hanno portato la Suprema Corte ad esprimersi ancora
- Il revirement delle Sezioni Unite del 2018
- Il recepimento del nuovo orientamento da parte dei Tribunali ordinari
1. Le ragioni che hanno portato la Suprema Corte ad esprimersi ancora
Se si ripercorrono i mutamenti interpretativi che ha subito negli anni l’art. 5 l. div., ben si comprende il motivo per il quale, nel 2018, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno deciso di intervenire con una nuova pronuncia.
I due orientamenti, rispettivamente del 1990 e del 2017, seppur nascendo con presupposti diversi, riconoscendo entrambi una natura meramente assistenziale all’assegno di divorzio, non solo ne avevano sminuito la sua vera funzione ma avevano portato anche ad una implicita abrogazione della norma, posto che il parametro al quale ancorare l’an dell’assegno veniva ricercato all’esterno della stessa.
L’assegno di divorzio non era nato quale mero aiuto economico a favore del coniuge economicamente più debole, nell’intento di garantirgli il mantenimento del pregresso tenore di vita o il raggiungimento di un’indipendenza economica. L’assegno divorzile era stato ideato dai suoi padri fondatori quale strumento attraverso il quale riconoscere al coniuge non economicamente autosufficiente per via di scelte dettate dalla comunione matrimoniale una ricompensa per tutti quei sacrifici e compiti accettati durante il rapporto di coniugio per amore della coppia.
Ebbene, questo vero volto dell’assegno divorzile non sarebbe potuto mai emergere se si fosse continuato a ragionare solo sul concetto di adeguatezza dei mezzi, senza valorizzare i criteri di cui alla prima parte della norma.
Più tecnicamente, erano maturi i tempi per abbandonare la pratica interpretativa che voleva divise le fasi dell’an e del quantum dell’assegno: valutare il diritto all’assegno sulla base del solo criterio dei “mezzi adeguati” significava continuare a svuotare di senso lo stesso istituto.
Si era caduti nello stesso errore per già due volte, dapprima parametrando l’assegno al tenore di vita e poi al criterio dell’autosufficienza economica. L’inadeguatezza dei mezzi non poteva essere ancora considerata come un parametro relativo, vuoto, da rapportare a idee astratte di agiatezza economica.
L’intenzione del legislatore non era stata quella di vagliare “i mezzi” del coniuge divorziato con il pregresso tenore di vita o con le sue personali capacità di auto-mantenersi bensì di valutare, proprio attraverso quei criteri di cui all’incipit della disposizione legislativa che per lungo tempo erano stati messi sullo sfondo, se l’eventuale inadeguatezza dei mezzi fosse derivata da scelte di vita matrimoniale che avessero privato uno dei due coniugi delle sue concrete possibilità di realizzazione e affermazione, con il perseguimento delle sue ambizioni e l’inseguimento dei suoi sogni. In una tale situazione, l’assegno di divorzio avrebbe avuto lo scopo di garantire una compensazione allo squilibrio, riconoscendo le scelte fatte e il lavoro svolto nel periodo del matrimonio, con la quantificazione di un premio che potesse avere non solo natura assistenziale, quale aiuto di un coniuge nei confronti dell’altro, ma per di più funzione perequativa e soprattutto compensativa.
D’altronde, posto il silenzio della norma, nulla impediva di parametrare “i mezzi adeguati”, da cui finora era stata tratta la natura meramente assistenziale dell’assegno, a tutti gli altri criteri di cui all’art. 5 l. div.: “adeguati [cioè] a ciò che appare equo alla luce dei criteri indicati nella parte centrale della norma e soprattutto al contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o quello comune e alla durata del matrimonio”.
Anzi era proprio questa la “più ovvia (e piana) lettura della disposizione […] che collega strettamente i criteri elencati nella sua prima parte, attraverso la relativa valutazione da operare alla luce della durata del matrimonio, con l’adeguatezza dei mezzi disponibili”.
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2. Il revirement delle Sezioni Unite del 2018
Così ragionando, le Sezioni Unite del 2018 affermarono che “ai sensi dell’art. 5, comma 6, della l. n. 898 del 1970, dopo le modifiche introdotte con la l. n. 74 del 1987, il riconoscimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi o comunque dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive attraverso l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione”.
Si abbandona dunque sia la prospettiva propria dell’impostazione del 1990, secondo cui i criteri elencati nella prima parte dell’art. 5 l. div. avrebbero potuto funzionare solo quali elementi moderatori del tetto massimo dell’assegno divorzile calcolato sulla base del parametro del tenore di vita, sia quella introdotta nel 2017 che, diversamente, abrogava implicitamente gli stessi criteri, per evitare ingiuste disparità di trattamento tra i beneficiari e non dell’assegno individuati sulla base del più relativo parametro dell’autosufficienza economica. Le Sezioni Unite lamentavano, infatti, proprio il fatto che “così facendo gli orientamenti [precedenti avevano tratto] il parametro cui riferire l’adeguatezza dei mezzi al di fuori degli indicatori contenuti nell’incipit della norma, così relegando ad una funzione residuale proprio le caratteristiche dell’assegno di divorzio fondato su principi di libertà, auto-responsabilità e pari dignità desumibili dai parametri costituzionali”.
Di conseguenza viene meno la distinzione tra un momento attributivo dell’assegno e un altro, eventuale e successivo, meramente quantificativo, in virtù di una lettura dell’art. 5 l. div. più coerente al quadro costituzionale individuato dagli artt. 2, 3 e 29 della Costituzione.
Cade anche l’idea di assommare i criteri di cui alla prima parte dell’art. 5 l. div. nel più generale concetto del tenore di vita, richiedendosi piuttosto una valutazione singola degli stessi da rapportare di volta in volta al caso concreto in quanto, diversamente, si genererebbero “forti rischi di locupletazione ingiustificata dell’ex coniuge richiedente in tutte quelle situazioni in cui egli possa godere comunque non solo di una posizione economica autonoma, ma anche di una condizione di particolare agiatezza oppure quando non abbia significativamente contribuito alla formazione della posizione economico-patrimoniale dell’altro ex coniuge”.
È ciò a chiaro vantaggio delle istanze perequative e compensative al fine di non mortificare proprio il lavoro di chi, nel periodo della convivenza coniugale, avesse anteposto i bisogni della famiglia ai propri, sobbarcandosi in modo esclusivo o predominante rispetto all’altro coniuge gli oneri che il ménage familiare richiede.
E anche considerato che nel nostro ordinamento “un’adeguata compensazione patrimoniale delle conseguenze negative legate alla decisione di dedicarsi al lavoro domestico e, più in generale, di creare un contrappeso sul piano patrimoniale rispetto alle scelte operate dai coniugi in ordine all’indirizzo della vita familiare, trova nel dato normativo una risposta solo parziale”. L’istituto della comunione legale, invero, può compensare l’apporto economico dato ai fini della formazione del patrimonio comune o dell’altro coniuge ma non anche quello personale richiesto dai bisogni familiari e realizzato mediante privazioni e sacrifici.
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3. Il recepimento del nuovo orientamento da parte dei Tribunali ordinari
Questo nuovo orientamento introdotto dalle Sezioni Unite non deve, tuttavia, far pensare che il ripristino di una funzione composita dell’assegno di divorzio riporti in vita l’idea di matrimonio quale “sistemazione definitiva”. Semplicemente si tratta “di non lasciare al singolo l’arbitrio di cancellare senza tracce l’impegno di vita assunto con il matrimonio e di abbandonare alla sua sorte chi su tale impegno aveva costruito la propria famiglia […]. L’estinzione del vincolo coniugale e dei doveri che vi ineriscono non cancella il fatto che i due coniugi sono stati marito e moglie. La realtà dell’unione realizzata pone un’esigenza di solidarietà postconiugale tanto più intensa quanto maggiore è stata l’attuazione dell’impegno di vita matrimoniale”. In altri termini, se la scelta di sciogliere il matrimonio è libera, le sue conseguenze possono non essere a costo zero. Può esserci un prezzo da versare all’altro coniuge tanto più da quest’ultimo si è ricevuto nel periodo di convivenza matrimoniale o in proporzione alle rinunce che lo stesso ha fatto per amore della coppia: l’assegno di divorzio non può cioè ridursi solo ad “un’elemosina graziosamente elargita a mezzo del giudice”.
Ebbene, le indicazioni della Suprema Corte sono state immediatamente recepite dai Tribunali ordinari, come si evince dalle prime pronunce successive al nuovo revirement: “l’assegno di divorzio non ha funzione di consentire al coniuge economicamente più debole di (tendere a) conservare il tenore di vita di cui godeva in costanza di matrimonio, ma una funzione mista assistenziale-compensativa- perequativa, alla luce dei principi di pari dignità dei coniugi, solidarietà, libertà di scelta, reversibilità della decisione ed autoresponsabilità su cui è fondato il modello costituzionale del matrimonio.
Il giudice del divorzio […] è tenuto ad effettuare una valutazione di adeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente l’assegno in relazione a tutti i parametri di cui all’art. 5, 6° comma (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi, durata del matrimonio).
Al fine di accertare se il coniuge richiedente abbia diritto all’assegno è quindi necessario in primo luogo verificare se vi sia una rilevante disparità tra le rispettive situazioni economico-patrimoniali degli ex coniugi; in secondo luogo, è necessario accertare (e il relativo onere probatorio incombe sul coniuge richiedente l’assegno, che potrà assolverlo anche mediante presunzioni) se questa disparità sia stata causata da scelte condivise durante la gestione del ménage familiare e ai rispettivi ruoli all’interno della famiglia, e se il coniuge economicamente più debole non abbia la effettiva e concreta possibilità di superare (o quanto meno ridurre) il divario esistente, sotto il profilo delle concrete, effettive ed attuali possibilità di trovare un lavoro o di ottenere una più remunerativa occupazione, in considerazione della sua età, delle pregresse esperienze professionali, delle condizioni del mercato del lavoro e così via.
L’entità dell’assegno, poi, non dovrà essere liquidata in misura corrispondente alla somma di denaro necessaria a mantenere (sia pur in via solo tendenziale) il pregresso tenore di vita, bensì in misura adeguata a colmare il divario, avendo riguardo al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell’età del richiedente”.
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Note
1. Cfr. C. Rimini, Verso una nuova stagione per l’assegno divorzile dopo il crepuscolo del fondamento assistenziale, in Nuova giur. civ. comm., 2017, p. 1281.
2. Così C. Rimini, Verso una nuova stagione per l’assegno divorzile dopo il crepuscolo del fondamento assistenziale, cit., p. 1282.
3. Così già E. Quadri, La natura dell’assegno di divorzio dopo la riforma, in Giust. civ., 1989, p. 829.
Non la pensa allo stesso modo, invece, L. Balestra, L’assegno divorzile sotto la lente delle Sezioni Unite, in giustiziacivile.com, 2018, n. 7, secondo cui la giurisprudenza, qualora così interpretasse, oltrepasserebbe i propri confini realizzando una scelta di politica del diritto.
4. Così Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n. 18287, in Corr. Giur., 2018, p. 1186.
5. Così Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n. 18287, cit., p. 1187.
6. Così Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n. 18287, cit., p. 1189.
7. Il rilievo appartiene a E. Al Mureden, Le rinunce nell’interesse della famiglia e la tutela del coniuge debole tra legge ed autonomia privata, in Familia, 2002, p. 991.
8. V. nota n. 26.
9. Così C. M. Bianca, op. cit., p. 337.
10. In questi termini, Cass., Sez. I, 1° febbraio 1974, n. 263, in Foro Italiano, 1974, p. 1246.
11. Così Trib. Nuoro, 23 agosto 2018, n. 424, in Cass. civ. on line.
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