SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Evoluzione storica della giurisdizione amministrativa – 3. Analisi esegetica dei termini lessicali utilizzati dal legislatore – 4. La giurisdizione amministrativa: il sindacato sui limiti esterni svolto dalle SS.UU. – 5. L’interpretazione “dinamica o funzionale” dei principi costituzionali ed il superamento dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa – 6. La conferma del Giudice delle leggi al pluralismo delle giurisdizioni.
1. Premessa
Un tema, tra i più discussi e controversi del diritto processuale amministrativo, riguarda gli strumenti giuridici che il legislatore ha previsto per assicurare forme di controllo giurisdizionale sulle decisioni del giudice amministrativo di ultima istanza.
La giustizia amministrativa, come è noto, si compone soltanto di due gradi di giudizio, ammettendo il ricorso alla Suprema Corte soltanto per motivi inerenti la giurisdizione: il primo trova esecuzione dinanzi ai Tribunali Amministrativi Regionali ed il secondo, relativo all’eventuale attività di controllo sulle decisioni del giudice di prime cure, viene costituzionalmente garantito dal Consiglio di Stato che, nelle sue tre sezioni giurisdizionali, svolge funzioni di giudice di appello.
L’art. 111 comma 8 della Costituzione, enunciando il principio giuridico in base al quale contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti è ammesso il ricorso alla Corte di Cassazione soltanto per motivi inerenti la giurisdizione, stabilisce, unitamente al successivo art. 113, i limiti esterni del ricorso senza, tuttavia, disciplinarne i limiti sostanziali e procedurali interni.
Il tema è altresì disciplinato sia dall’art. 362 del codice di procedura civile, sia dagli artt. 91, 110 e 111 del codice di procedura amministrativa che, non prevedendo l’abrogazione dell’art. 48 del Testo Unico del Consiglio di Stato (r.d. n. 1054 del 1924), rafforza, di fatto, il contenuto dell’art. 111 della Costituzione, statuendo che le decisioni pronunciate in sede giurisdizionale possano essere impugnate con ricorso per Cassazione soltanto per assoluto difetto di giurisdizione del Consiglio di Stato.
Negli ultimi anni la Corte di Cassazione, con le ordinanze del 13 giugno 2006 nn. 13659 e 13660 e con le sentenze a Sez. Unite del 20 dicembre 2008 n. 30254, n. 2242 del 6 febbraio 2015 ed infine con la sentenza a Sez. Unite n. 31226 del 29 dicembre 2017, ha avviato un processo interpretativo c.d. “dinamico o evolutivo” del concetto di giurisdizione e, ammettendo il sindacato della Corte di Cassazione anche per gli ”errores in procedendo e in iudicando” relativi al contrasto di giudicato con pronunce di Corti sovranazionali, ha cercato di superare la rigidità dei “soli motivi inerenti alla giurisdizione”, previsti dall’Assemblea costituente nell’ottavo comma dell’art. 111 della Carta Costituzionale,
Con la sentenza n. 6 del 24 gennaio 2018, i Giudici delle leggi hanno stabilito la non idoneità degli errores in procedendo e in iudicando a giustificare il ricorso alla Corte di Cassazione contro le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, confermando, pertanto, la scelta di fondo dei Costituenti.
2. Evoluzione storica della giurisdizione amministrativa
Al fine di comprendere meglio le limitazioni del sindacato della Suprema Corte sulle sentenze del Consiglio di Stato appare utile rappresentare, brevemente, le origini dell’istituto.
Inizialmente i conflitti giuridici tra il Tribunale del Contenzioso Amministrativo e il giudice ordinario o la pubblica amministrazione venivano risolti, ai sensi della legge sarda n. 3780 del 1859, con l’emissione di un decreto del Re, sentito il parere del Consiglio di Stato che allora svolgeva soltanto funzioni consultive; la ratio legis era quella di tutelare la pubblica amministrazione dalle eventuali ingerenze del potere giudiziario.
In seguito, la legge n. 2248/1865 all. E, abolendo i Tribunali del contenzioso amministrativo e istituendo la giurisdizione unica, modificò la predetta legge sarda, la cui applicazione venne limitata alla risoluzione dei conflitti tra il giudice ordinario e la pubblica amministrazione stabilendo che, ai sensi dell’art. 10 all. D del medesimo disposto legislativo, non fosse più il Re ma il Consiglio di Stato l’organo amministrativo di vertice deputato alla risoluzione dei conflitti tra giudice ordinario e pubblica amministrazione .
L’evoluzione storica della giurisdizione amministrativa continuò con la legge n. 3761 del 1877 che, all’art. 3 comma 3, assegnò “esclusivamente alle Sezioni di Cassazione istituite in Roma” il compito di decidere sui conflitti tra giudici ordinari e giudici speciali e di dichiarare la nullità delle sentenze dei giudici speciali nel caso di “incompetenza”(1).
Il predetto dettato normativo stabiliva che spettava alla Corte di Cassazione “giudicare dei conflitti di giurisdizione positivi o negativi fra i tribunali ordinari ed altre giurisdizioni speciali, nonché della nullità delle sentenze di queste giurisdizioni per incompetenza od eccesso di potere”.
Alla Cassazione venne pertanto conferito il compito di vigilare sul rispetto dei confini giurisdizionali tra giudici speciali e giudici ordinari e tra i giudici speciali e giudici ordinari con la pubblica amministrazione, al fine di impedire invasioni di campo da parte dei giudici speciali nel territorio giuridico assegnato al potere giudiziario ordinario, al potere amministrativo e al potere legislativo.
Decisamente importante fu la legge n. 62 del 1907 che, affrontando la questione della natura giurisdizionale o amministrativa della IV Sezione del Consiglio di Stato riconobbe formalmente il carattere giurisdizionale della stessa introducendo la distinzione tra sezioni consultive e sezioni giurisdizionali oltre ad istituire la V Sezione del Consiglio di Stato, alla quale vennero riconosciute sia funzioni giurisdizionali, sia una competenza sui ricorsi con sindacato esteso al merito che erano stati esclusi dalla competenza della IV Sezione.
Il medesimo disposto legislativo stabilì l’impugnabilità delle decisione del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale soltanto “per assoluto difetto di giurisdizione”, concetto giuridico riformulato in seguito dal Testo Unico delle leggi sul Consiglio di Stato (art. 48 del r.d. n. 1054 del 1924), anche se la rara ipotesi del concetto giuridico di “assoluto difetto di giurisdizione”, coincideva con l’ipotesi di “eccesso di potere dei giudici speciali” previsto dall’art. 3 comma 3 della legge n. 3761 del 1877; tale innovazione normativa venne in seguito utilizzata dal legislatore anche nel Testo Unico n. 638 del 1907.
Come già detto, i principi contenuti nella legge n. 62 del 1907 furono ribaditi dal legislatore all’art. 48 del r.d. n. 1054 del 26.6.1924, nel quale stabiliva che le decisioni del Consiglio di Stato “pronunciate in sede giurisdizionale possono agli effetti della legge 31.3.1877 n. 3761, essere impugnate con ricorso per cassazione. Tale ricorso tuttavia è proponibile soltanto per assoluto difetto di giurisdizione del Consiglio di Stato”.
L’evoluzione normativa dei limiti della giurisdizione amministrativa continuò con la trasfusione dei principi contenuti nella legge 3761 del 1877 nel codice di procedura civile del 1942, laddove, all’art. 362 comma 1, ancora oggi in vigore, il legislatore stabilì la possibilità di impugnare, con ricorso per Cassazione, le decisioni in grado di appello o in unico grado di un giudice speciale, “per motivi attinenti alla giurisdizione del giudice stesso”.
Nel 1946, anche l’assemblea costituente, stabilì, all’art. 111 comma 8 del dettato costituzionale, che contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti era ammesso il ricorso alla Corte di Cassazione per “i soli motivi inerenti alla giurisdizione” , indicando, unitamente al successivo art. 113, i limiti esterni del ricorso(2).
L’ammissibilità del ricorso alla Corte di Cassazione per i soli motivi inerenti la giurisdizione veniva in seguito confermata dalla legge n. 1034 del 6 dicembre 1971, che oltre a prevedere l’istituzione dei Tribunali Amministrativi Regionali, all’art. 36 (in seguito abrogato dal D. Lgs n. 104 del 2 luglio 2010), confermava il principio che contro le decisioni pronunciate in secondo grado dal Consiglio di Stato era ammesso il “ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione”.
Il predetto orientamento giuridico sull’impugnabilità delle decisioni del Consiglio di Stato trovò conferma nel decreto legislativo del 24 dicembre 2003 n. 373, contenente le norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione siciliana in merito all’esercizio, nell’ambito regionale, delle funzioni esercitate dal Consiglio di Stato.
L’anzidetto disposto legislativo, all’art. 10 comma 2, prevedeva che contro le decisioni del Consiglio di giustizia amministrativa, “era ammesso ricorso alle Sezioni unite della Corte di Cassazione per motivi inerenti la giurisdizione”
L’ammissibilità del ricorso alla Corte di Cassazione per i soli motivi inerenti la giurisdizione trovò conferma anche nel Codice del Processo Amministrativo n. 104 del 2 luglio 2010, laddove, agli artt. 91 e 110, adottando l’art. 111 comma 8 del dettato Costituzionale, sanciva che il ricorso alla Corte di Cassazione, avverso le sentenze del Consiglio di Stato, era ammesso “per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”.
Ricordiamo, infine, che il medesimo principio giuridico è stato attuato dal Codice di giustizia contabile n. 174 del 2016 che, all’art. 177 c. 1, stabilisce i limiti del sindacato della Corte di Cassazione sulle decisioni della Corte dei Conti.
3. Analisi esegetica dei termini lessicali utilizzati dal legislatore
Con la legge n. 3761 del 1877, il legislatore, all’art. 3 usò le locuzioni “incompetenza” ed “eccesso di potere”, quasi a non voler considerare giurisdizionali le decisioni dei giudici amministrativi in un periodo storico-giuridico in cui esisteva la giurisdizione unica (legge n. 2248/1865 all. E).
Il primo termine venne usato per indicare il difetto relativo di giurisdizione nei rapporti tra giurisdizioni, mentre con l’espressione “eccesso di potere” il legislatore indicava l’invasione dell’ambito giuridico riservato alla pubblica amministrazione(3) .
Successivamente il R.d. 1054 del 1924, all’art. 48, che ricordiamo è ancora formalmente in vigore poiché il decreto legislativo n. 104 del 2010 non l’ha volutamente abrogato, usa la locuzione “difetto assoluto di giurisdizione” per dirimere ogni dubbio su un eventuale sindacato della Corte di Cassazione che avrebbe potuto tradursi in un eccesso di potere giurisdizionale esercitato oltre i propri limiti esterni.
La formula letterale “difetto assoluto di giurisdizione” è, pertanto, da considerarsi, più restrittiva del sindacato della Corte di Cassazione che viene volutamente limitato alla violazione dei limiti esterni della giurisdizione al fine di impedire uno sconfinamento nei poteri riservati ad un altro giudice; del resto, la decisione del legislatore di non abrogare l’art. 48 appare, secondo una parte della dottrina, una scelta consapevole se si considera che l’art. 4 c. 1, all. n. 4, contenente le norme di coordinamento e abrogazione del Codice del Processo Amministrativo del 2010, abroga una serie di articoli saltando, volutamente, l’art. 48 con la seguente frase “sono abrogati, tra gli altri, gli artt. da 34 a 47 e da 49 a 56 compresi” (4), manifestando, pertanto, una cosciente volontà di mantenere in vita l’espressione “difetto assoluto di giurisdizione”, quasi a voler blindare e contemporaneamente circoscrivere il sindacato della Corte di Cassazione alle violazioni dei limiti esterni della giurisdizione.
Nel 1948, la Costituzione, fonte successiva e gerarchicamente sovraordinata all’art. 48, usò invece, all’art. 111 ultimo comma, l’espressione “i soli motivi inerenti alla giurisdizione”
In seguito, la legge Tar del 1971 all’art. 36, ormai abrogato, e le norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione siciliana, all’art. 10 del decreto legislativo n. 379/2003, nell’indicare i limiti del ricorso avverso le decisioni del Consiglio di Stato, usarono la locuzione “motivi inerenti alla giurisdizione”, omettendo l’aggettivo “soli” usato dai padri costituenti.
La locuzione costituzionale venne invece testualmente ripresa dal legislatore nel Codice del Processo Amministrativo del 2010 laddove, agli artt. 91 e 110 usò l’espressione “i soli motivi inerenti alla giurisdizione” discostandosi, anche in questo caso, dalla locuzione “difetto assoluto di giurisdizione” sancita dall’art. 48.
Le diverse formulazioni letterali usate dal legislatore hanno dato origine a diverse tesi giuridiche alcune delle quali sostengono che il “difetto assoluto di giurisdizione” dell’art. 48 abbia un significato diverso e più restrittivo dei “motivi inerenti alla giurisdizione”, altre, invece, sostengono che gli artt. 111 c. 8 della Costituzione, 362 C.p.c., 91 e 110 c.p.a e 10 del D.Lgs n. 373/2003, riferendosi ai “soli motivi inerenti alla giurisdizione” avrebbero una portata giuridica più ampia rispetto al citato art. 48.
4. La giurisdizione amministrativa: il sindacato sui limiti esterni svolto dalle Sezioni unite
Nell’ambito della tutela giurisdizionale amministrativa, l’ordinamento giuridico italiano è caratterizzato da una doppia giurisdizione che si basa fondamentalmente su un criterio di suddivisione delle situazioni giuridiche soggettive riguardanti diritti soggettivi e interessi legittimi, nonché su determinate materie non sempre chiaramente delimitate dalla legge; questo comporta, con le eccezioni previste dalla giurisdizione esclusiva e quella di merito, una competenza del giudice ordinario per la tutela dei diritti soggettivi e del giudice amministrativo in materia di interessi legittimi.
Tale peculiarità, non conosciuta da altri ordinamenti giuridici, compreso quello comunitario , ha la sua genesi nella legge 20 marzo 1865, n. 2248, All. E che(5), all’art. 2, recita testualmente: ”sono devolute alla giurisdizione ordinaria .. tutte le materie nelle quali si faccia questione d’un diritto civile o politico o comunque vi possa essere interessata la Pubblica amministrazione, e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa”, prevedendo al successivo art. 4 che:“ quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa, i tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell’atto stesso in relazione all’oggetto dedotto in giudizio. L’atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative …”
Il criterio dualista della giustizia amministrativa, ha tuttavia delineato un quadro di confini giuridici incerti, caratterizzato da frequenti “invasioni di campo” in settori estranei alla propria giurisdizione o in ambiti comuni; questo, oltre a causare un numeroso contenzioso sul riparto di giurisdizione, ha richiesto l’intervento dei Giudici di legittimità che, già dal 4 luglio 1949, con la sentenza n. 1657, collegavano la carenza di potere al diritto soggettivo e il cattivo uso del potere all’interesse legittimo, stabilendo che: “tutte le volte che si lamenta il cattivo uso del potere dell’amministrazione, si fa valere un interesse legittimo e la giurisdizione è del G.A., mentre si ha questione di diritto soggettivo e giurisdizione del G.O. quando si contesta la stessa esistenza del potere”.
In merito alle competenze giurisdizionali del Consiglio di Stato, la Corte di Cassazione Civile, intervenuta costantemente sulla materia (tra le molte si ricordano le sentenze a Sez. Unite n. 22754 del 3/12/2004 e n. 8882 del 29/4/2005), ha stabilito che il sindacato dei giudici di legittimità sulle decisioni del Consiglio di Stato, previsto dal nostro ordinamento, ai sensi dell’art. 111 ultimo comma della Costituzione o dell’art. 362 c.p.c., è ammesso nel caso in cui la sentenza del Consiglio di Stato abbia violato i c.d. limiti esterni della propria giurisdizione oppure l’ambito della giurisdizione in generale.
La prima ipotesi si verifica quando il Consiglio di Stato ha giudicato su una materia della giurisdizione ordinaria, su una materia di un’altra giurisdizione speciale, nel caso in cui abbia negato la propria giurisdizione ritenendo che la stessa appartenesse ad un altro giudice, o quando abbia giudicato nel merito su una materia attribuita alla propria giurisdizione limitatamente al solo sindacato della legittimità di un atto amministrativo.
La seconda ipotesi si concretizza invece quando i giudici di Palazzo Spada abbiano violato, in senso negativo o positivo, l’ambito della giurisdizione generale giudicando in merito alla giurisdizione riservata al legislatore oppure quando abbia negato la giurisdizione su un erroneo convincimento.
5. L’interpretazione “dinamica o funzionale” dei principi costituzionali e il superamento dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa
In merito ai cosiddetti “limiti esterni” della giurisdizione amministrativa, la Suprema Corte ha tradizionalmente avuto un interpretazione c.d. “statica” dell’art. 111, comma 8 della Costituzione, considerando lo stesso un precetto limitativo del sindacato, esercitabile dalla Corte di Cassazione, sull’osservanza dei soli limiti esterni della giurisdizione relativamente alle sentenze dei giudici speciali.
I limiti giurisdizionali interni, invece, riguardanti, in genere, gli errori in iudicando o in procedendo, ovvero le violazioni alle norme sostanziali o processuali, non costituiscono vizi attinenti la giurisdizione. La Corte di Cassazione ha assunto negli anni un orientamento interpretativo più dinamico e funzionale dell’art. 111 – comma 8, ritenendo che, nel delineare i limiti esterni della giurisdizione amministrativa, era necessario tener conto dello sviluppo del concetto stesso di giurisdizione derivante da molteplici fattori, quali, a puro titolo esemplificativo, il ruolo centrale della giurisdizione nel rendere effettivo il ruolo centrale del diritto comunitario, il rilievo costituzionale del principio del giusto processo come novellato dalla legge costituzionale del 23 novembre 1999 n. 2, l’ampliarsi delle fattispecie di giurisdizione esclusiva nonché un’attenta analisi degli artt. della Costituzione 24, primo comma, 111, primo comma e 113 primo e secondo comma.
Un determinante apporto innovativo iniziale al superamento della concezione statica della giurisdizione venne dato dal Corte di Cassazione con le ordinanze del 13 giugno 2006 nn. 13659 e 13660 e con la sentenza a Sez. Unite del 20 dicembre 2008 n. 30254 con la quale stabilì che: “sarebbe norma sulla giurisdizione non solo quella che individua i presupposti dell’attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche quella che dà contenuto al potere stabilendo attraverso quali forme di tutela esso si estrinseca”.
In questo modo il sindacato della Suprema Corte venne esteso alle norme sostanziali e processuali interne alla giurisdizione, in precedenza sempre escluso.
Un’ulteriore conferma giurisprudenziale alla concezione di una nuova giurisdizione si è avuta dalle Sez. Unite della Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 2242 del 6 febbraio 2015, stabiliva testualmente che: “alla regola della non estensione agli errori in iudicando o in procedendo del sindacato della Corte di cassazione sulle decisioni del giudice amministrativo, può derogarsi nei casi eccezionali o estremi di radicale stravolgimento delle norme di riferimento, tale da ridondare in manifesta denegata giustizia”.
Anche di recente, la giurisprudenza di legittimità, ha confermato il passaggio da un’interpretazione statica dell’articolo 111 della Costituzione, rilevante ai fini dell’impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato o della Corte dei conti, ad un’interpretazione più evolutiva, stabilendo, in particolare con la recente sentenza a Sez. Unite del 29 dicembre 2017 n. 31226, che “non costituiscono diniego di giurisdizione, da parte del Consiglio di Stato, gli errores in procedendo o in iudicando, ancorché riguardanti norme dell’Unione Europea, salvo i casi di radicale stravolgimento delle norme di riferimento nazionali o dell’Unione Europea, tali da ritondare in denegata giustizia, ed in particolare, salvo il caso, tra questi, di errore in procedendo costituito dall’applicazione di regola processuale interna incidente nel senso di negare alla parte l’accesso alla tutela giurisdizionale nell’ampiezza riconosciuta da pertinenti disposizioni normative dell’Unione europea, direttamente applicabili, secondo l’interpretazione elaborata dalla Corte di Giustizia”.
6. La conferma del Giudice delle leggi al pluralismo giurisdizionale
Negli ultimi anni la Corte Costituzionale ha svolto, in più occasioni, un ruolo arbitrale nei contrasti tra le giurisdizioni, intervenendo definitivamente con la sentenza n. 6 del 18 gennaio 2018, con la quale ha affrontato definitivamente la questione sul sindacato delle pronunce dei giudici speciali, rigidamente delimitato dall’art. 111 comma 8 della Costituzione.
La questione, sottoposta al vaglio della Consulta dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, richiedeva la verifica della compatibilità costituzionale dell’art. 69 comma 7 del D.Lgs. n. 165/2001 con l’art. 117 comma 1 della Costituzione, tenendo conto dell’art. 6 par. I della CEDU.
Nel caso di specie il Consiglio di Stato, confermando una sentenza di primo grado emessa da un TAR, aveva dichiarato inammissibile un ricorso, a causa dell’intervenuta decadenza ai sensi del già citato 69 comma 7 del D.Lgs. n. 165/2001, violando, pertanto, i principi sanciti dall’art. 6 par. I della CEDU.
Il ricorso per Cassazione proposto dai ricorrenti, si basava su una caso analogo verificato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo(6) , in cui era stata accertata una violazione delle norme convenzionali da parte dello Stato italiano.
Secondo i giudici remittenti la violazione dell’art. 6 par. I della CEDU, avvenuta con l’applicazione dell’art. 69 comma 7 del D.Lgs. n. 165/2001, avrebbe potuto giustificare l’impugnazione dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione della sentenza emessa dal Consiglio di Stato, consentendo, pertanto, il superamento dei limiti giurisdizionali esterni previsti dall’art. 111 comma 8 del dettato Costituzionale.
Malgrado l’orientamento dei giudici di legittimità, propensi ad un’interpretazione “dinamica e funzionale” della giurisdizione, al fine di evitare sia che una sentenza del Consiglio di Stato contrastasse con il diritto dell’Unione Europea, sia che si formasse un giudicato contrastante con principi giuridici del diritto sovranazionale, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 6 del 2018, ha escluso la possibilità per i giudici di legittimità di cassare la sentenza di un giudice speciale per errores in procedendo o in iudicando, anche in presenza dell’applicazione di una norma di diritto nazionale contrastante con la decisione di una Corte sovranazionale.
I giudici delle leggi, richiamando l’art. 111 della Costituzione, hanno stabilito che un’interpretazione “dinamica o evolutiva” della Corte di Cassazione contrasterebbe con il significato dei commi 7 e 8 del citato articolo costituzionale.
Il comma 7, stabilisce che “contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge”.
Il successivo comma 8 dell’art. 111 Cost. sancisce testualmente che:
”contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti la giurisdizione”.
Secondo la Corte Costituzionale la differenza testuale delle due diverse disposizioni non può essere interpretata al punto da assimilare il significato dei due commi, poiché si violerebbe la volontà dall’Assemblea costituente di sottrarre le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti al controllo dei Giudici di legittimità, limitandone il ricorso esclusivamente alle questioni inerenti l’eccesso di potere giudiziario.
I Giudici della Consulta hanno pertanto individuato soltanto le seguenti motivazioni che potrebbero giustificare il ricorso ai Giudici di legittimità per motivi di giurisdizione:
– superamento dei limiti esterni della giurisdizione, che si concretizza con l’affermazione del giudice speciale della propria giurisdizione in un ambito riservato al legislatore o alla pubblica amministrazione;
– arretramento di giurisdizione, che si realizza con la negazione di giurisdizione del giudice speciale, basata sull’erroneo presupposto che la materia non sia oggetto di giurisdizione;
– difetto relativo di giurisdizione, che si verifica con l’affermazione della propria giurisdizione, da parte del giudice speciale, in una materia attribuita ad un’altra giurisdizione oppure con la negazione della stessa basandosi sull’erroneo presupposto che la giurisdizione appartenga ad un altro giudice.
Concludendo, possiamo affermare che la Corte Costituzionale, pur rilevando una possibile criticità nei rapporti tra le giurisdizioni del nostro ordinamento giuridico, soprattutto in merito alle sentenze di giudici speciali che contrastano con la decisione di un organo sovranazionale, ha definitivamente eliminato le incertezze giuridiche derivanti da un’interpretazione c.d. “dinamica o evolutiva” assunta dalla Corte di Cassazione negli ultimi anni, riportando la norma costituzionale al suo significato tradizionale, escludendo, pertanto, la valutazione dei giudici di legittimità, degli errores in procedendo o in iudicando, anche quando gli stessi contrastano con pronunce di giudicato di Corti sovranazionali ed affermando, inequivocabilmente, l’autonomia dei Giudici speciali nella sfera della propria giurisdizione.
Volume consigliato
NOTE
(1)M. NIGRO, Giustizia Amministrativa, Bologna 1994 (Quarta Ediz.)
(2)FERRONI: “Il ricorso in Cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato – Padova 2005, X, 414.
GATTAMELATA: Il ricorso in Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato, in DPA, 2014, 1043.
MAZZAMUTO: L’eccesso di potere giurisdizionale del giudice della giurisdizione, in DPA, 2012, 1677.
(3)BRACCI, Le questioni e i conflitti di giurisdizione e di attribuzione nel nuovo codice di procedura civile, in riv. Dir. Proc., 1941, I, 165.
(4)CAIANELLO, Diritto processuale amministrativo, II edizione, Torino 1994, 299.
(5)Diritto Amministrativo – compendi superiori – Roberto Garofoli II ed. 2015, pag. 895.
(6)Sentenza Cedu del 4/2/2014 – Mottola contro l’Italia, ricorso n. 29932/07.
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