Cause tipiche, ma non tassative, di esclusione della imputabilità del soggetto, in quanto idonee ad incidere sulla sua capacità di intendere e volere1 sono la infermità psichica o fisica produttiva di un vizio di mente, l’ubriachezza, l’intossicazione da stupefacenti, il sordomutismo e la minore età. Per ciascuna ipotesi l’esclusione della imputabilità cagionata dalla totale incapacità di intendere e di volere è doppiata dalla previsione della diminuzione della entità della pena applicata nei casi di parziale incapacità di intendere e di volere (c.d. semimputabilità) 2.
La disciplina del trattamento sanzionatorio riservato al soggetto che fosse al momento del fatto ubriaco o sotto l’azione di sostanze stupefacenti -i fenomeni dell’etilismo e dell’intossicazione da stupefacenti sono equiparati a fini normativi- si presenta particolarmente problematica.
Invero, a fronte del dato incontestabile che il soggetto che sia ubriaco3 al momento della commissione del reato, se incapace di intendere e di volere, è incapace sempre, qualsiasi sia la causa del suo stato, il codice penale articola la disciplina in maniera più o meno rigorosa a seconda di tale causa.
L’art. 91 c.p. esclude l’imputabilità -o prevede la riduzione della pena applicabile nel caso di parziale incapacità- solo se l’ubriachezza è dovuta a caso fortuito o forza maggiore.
L’ipotesi va tradizionalmente sotto il nome di ubriachezza accidentale, perché l’alterazione della capacità di autodeterminazione è cagionata da un fattore assolutamente imprevedibile o incalcolabile, che interferisce di sorpresa nel comportamento del soggetto, provocando un evento non rimproverabile all’agente, in quanto non evitabile con le ordinarie cautele4, o da una energia esterna inevitabile e irresistibile, umana o naturale che, soggiogando la volontà del soggetto, ne elimina qualsiasi capacità di resistenza5.
L’ubriachezza accidentale è considerata un’ipotesi eccezionale di non imputabilità del soggetto, contrapposta alla ubriachezza volontaria o colposa, per cui si ritiene che in difetto della prova del caso fortuito o forza maggiore, ricorra la seconda ipotesi6, peraltro disciplinata espressamente dall’art. 92 c.p.
In esso si legge che l’ubriachezza non derivata da caso fortuito o forza maggiore, e dunque volontaria o colposa, non esclude né diminuisce l’imputabilità.
Tale previsione è oggetto di divergenti opzioni interpretative, ciascuna ispirata da altrettante teorie attinenti al titolo di attribuzione della responsabilità.
L’interpretazione più legata al tenore letterale della disposizione, riproponendo lo schema dell’actio libera in causa7, colloca l’inizio della consumazione del reato in un momento antecedente rispetto a quello descritto dalla fattispecie tipica, coincidente con il mettersi in stato di incapacità abusando di sostanze acooliche. Dunque, l’art. 92 c.p., servirebbe ad allargare la tipicità, o meglio, l’imputabilità8 e per questa via, la punibilità9.
Richiedere che l’accertamento del coefficiente psicologico del reato commesso risalga al momento in cui il soggetto si pone in stato di ubriachezza conduce, tuttavia, al risultato di attribuire il fatto a titolo di dolo -anche eventuale, se il soggetto si è ubriacato nonostante la previsione della commissione del reato ed accettandone il rischio-, o di colpa -se al momento in cui beveva era prevedibile il verificarsi dell’evento dannoso o pericoloso di reato o il soggetto, pur prevedendolo, non lo volesse.
Alle medesime conseguenze particolarmente severe della suesposta teoria centrata sulla c.d. finzione di imputabilità dell’ubriaco, giunge anche la tesi secondo la quale il fatto commesso è addebitato all’autore a titolo di responsabilità oggettiva, per il suo versari in re illicita10.
Le obiezioni proposte alle due teorie si fondano sull’osservazione che in entrambe si confondono due momenti e i corrispondenti coefficienti psicologici, in realtà nettamente distinti: la c.d. actio praecedens, in cui il soggetto si pone in stato di ubriachezza e il momento successivo, in cui viene commesso il reato.
Tale sovrapposizione condurrebbe a punire come doloso un delitto che, pur commesso in stato di ubriachezza volontaria, sia rimproverabile all’agente solo per colpa11. E la medesima considerazione, tanto più preoccupante perché in sfavor rei, potrebbe essere riproposta capovolgendo gli estremi della vicenda -e le conseguenze per il soggetto-, laddove un reato sorretto dal dolo dell’autore ubriaco venga addebitato a titolo di colpa solo perché questi si è posto colposamente in stato di incapacità.
Tali obiezioni sono ancora più fondate, alla luce del mutato contesto istituzionale: le esigenze di tutela della salute pubblica e di contrasto al diffuso fenomeno dell’etilismo e intossicazione da stupefacenti, in ragione del c.d. mito della salute pubblica, alla base della scelta fortemente repressiva dei compilatori del codice penale del 1930 attualmente in vigore, stridono fortemente a paragone con gli attuali principi costituzionali di tutela della salute individuale (art. 32 Cost.) e di assistenza e solidarietà sociale (art. 2 e 3 Cost.).
Sulla scia di tali critiche si propone, pertanto, l’opinione attualmente maggioritaria, la quale afferma che l’accertamento del coefficiente psicologico dell’ubriaco vada accertato con riferimento proprio al momento in cui il reato è stato commesso.
In sostanza, pur nella finzione di imputabilità di un soggetto che resta incapace totalmente o parzialmente di intendere e volere, si richiede al giudice in caso di ubriachezza volontaria o colposa di accertare in ogni fattispecie la colpevolezza del soggetto, indagando in concreto l’atteggiamento psicologico dell’ubriaco nel momento in cui il fatto è commesso, valorizzando in tal modo il principio della responsabilità penale per il fatto, a scapito del c.d. diritto penale d’autore, inammissibile nell’attuale ordinamento costituzionale.
Potrebbe infine essere proposta altra opzione ermeneutica, più aderente al dato naturalistico: se il soggetto perde qualsiasi controllo, diventando totalmente incapace di intendere e volere, secondo la clausola generale dell’art.85 c.p. deve essere considerato non imputabile, salvo se causa dell’incapacità sia l’ubriachezza colposa o volontaria, nel qual caso continua a sussistere una responsabilità, ma solo a titolo di colpa per il soggetto. Per tale via si realizza pur sempre una tutela anticipata, sebbene non raggiungendo gli estremi sopra analizzati, tutela che troverebbe la sua ragione nel fatto che ubriacarsi è di per se stesso un atteggiamento che pone il soggetto in modo pericoloso verso l’esterno.
Nel caso invece di una scemata, ma sussistente capacità di autodeterminazione, qualunque ne sia la causa -ubriachezza accidentale, volontaria o colposa-, sarà necessaria una verifica in concreto del coefficiente psicologico in capo all’autore, al momento del fatto criminoso.
Più severo è, infine, il trattamento sanzionatorio dei reati commessi in stato di ebbrezza dall’ubriaco abituale: l’art. 94 primo comma c.p. non solo non esclude o diminuisce l’imputabilità, ma prevede un aumento di pena -dunque si tratta di una circostanza aggravante-, oltre all’applicazione eventuale della misura di sicurezza della casa di cura o custodia o libertà vigilata ex art. 221 c.p.12
Il legislatore si è preoccupato di definire la nozione di ubriaco abituale: è tale chi è dedito all’uso di sostanze alcoliche e in stato di frequente ubriachezza.
Ratio della norma è colpire la più intensa capacità criminale, manifestata dal “vizio di ubriacarsi”, nel quadro di un anacronistico e oggi più che mai discusso giudizio di colpevolezza per la condotta di vita.
Le riserve mosse da larga parte degli interpreti sono rafforzate dalla constatazione della difficoltà nel discriminare il fenomeno appena descritto -fonte di un trattamento indubbiamente repressivo, in peius per il reo- rispetto alla cronica intossicazione prodotta da alcool o sostanze stupefacenti, che secondo l’art. 95 c.p. quando cagiona la totale o parziale incapacità di intendere e volere fa rivivere la disciplina del vizio di mente, e dunque comporta la non imputabilità del soggetto.
La Giurisprudenza giustifica tale previsione, sottolineando il carattere permanente e irreversibile delle alterazioni causate dalla cronica intossicazione, contrapposto alla transitorietà dello stato prodotto dall’ubriachezza, pur abituale.
Per intossicazione cronica dovrebbe intendersi solo quella che, per il suo carattere ineliminabile e l’impossibilità di guarigione, provoca “alterazioni patologiche permanenti, tali da far apparire indiscutibile che ci si trovi di fronte ad una vera e propria malattia psichica”13.
La distinzione fra l’intossicazione che esclude l’imputabilità e l’ubriachezza abituale, pur netta in via astratta, si rivela tuttavia in pratica poco agevole, esistendo non pochi punti di contatto fra le manifestazioni tipiche di entrambi i fenomeni. Ciò anche alla luce dei rilievi della moderna scienza psichiatrica che, dubitando sull’assunto carattere di irreversibilità dello stato di intossicazione cronica da alcool o stupefacenti, in relazione a vari parametri quali l’età, le condizioni generali del soggetto, la gravità dello stato di intossicazione e il tipo di sostanza assunta, rileva la artificiosità della discriminazione operata in sede normativa.
Le riserve si ripropongono con rinnovato vigore in relazione alla disciplina reato commesso dal soggetto sotto l’azione di sostanze stupefacenti.
In primo luogo, le critiche risalgono alla stessa equiparazione a fini sanzionatori fra il fenomeno dell’etilismo e quello dell’intossicazione da sostanze stupefacenti: mentre l’alcool, seppure nella varietà di prodotti, si presenta come una sostanza unitaria, degli stupefacenti esiste una gamma indeterminata, come indeterminati sono gli effetti negativi che essi producono sull’organismo umano.
Si aggiunge la difficoltà di individuare per gli stupefacenti un quadro clinico di intossicazione cronica in termini di permanente alterazione e degenerazione fisico-psichica corrispondente a quello della intossicazione cronica da alcool.
La cronica intossicazione da sostanze stupefacenti, come asserito dalla Corte di Cassazione14, “condiziona tutto il comportamento del soggetto, incidendo sulla sfera neuropsichica e provocando lo sfacelo della personalità con carattere permanente, proprio di una malattia, così da escludere o diminuire grandemente la capacità di intendere e di volere”. Da essa in via di principio si distingue “la intossicazione, anche grave, ma transeunte, che non ha rilievo alcuno sulla imputabilità, in quanto le relative manifestazioni psichiche sono direttamente correlate all’azione perturbatrice delle sostanze nell’organismo umano, per cui una volta cessati i relativi effetti perversi, lascia il tossicomane in a situazione di normalità, salvo il suo stato di dipendenza che lo risospinge all’uso ripetuto di droga”15.
Tuttavia, la scelta concreta -come per l’ubriachezza- fra le due ipotesi si rivela non facile.
Invero, anche in taluna Giurisprudenza hanno trovato spazio tali perplessità: in più pronunce le Corti hanno affermato che la tossicomania è pur sempre “una condizione tendenzialmente permanente con effetti devastanti e dunque sostanzialmente incidente sulla coscienza e volontà”16, per cui anche laddove manchi una alterazione patologica di tipo permanente, la capacità di intendere e soprattutto di volere del tossicodipendente è già gravemente compromessa dalla situazione di dipendenza psico-fisica da sostanza stupefacente, peraltro contrassegnata dall’insorgere della c.d. sindrome da astinenza17.
Onde, per attenuare il rigore codicistico riservato al trattamento sanzionatorio del tossicodipendente criminale -soggetto che la coscienza sociale impone di recuperare alla normalità e legalità- si è affermato18 che “la tossicomania, intesa come condizione di intossicazione di colui che non può fare a meno della droga, è una malattia cronica ancorché non irreversibile in senso assoluto”, giustificandosi l’applicabilità dell’attenuante di cui all’art. 89 c.p., richiamata dall’art. 95 c.p. al tossicodipendente anche laddove non possa parlarsi di affezione propriamente ineliminabile e inguaribile, come invece richiesto dalla prevalente Giurisprudenza.
1 La capacità di “intendere” è definita come attitudine a percepire in maniera corretta la realtà e il proprio comportamento nelle sue conseguenze all’interno di essa. Capacità di “volere” è l’idoneità ad autodeterminarsi, scegliendo autonomamente la condotta più ragionevole in vista dei fini che si vogliono perseguire.
Tale nozione di capacità di intendere e volere, di matrice dottrinale e giurisprudenziale, è il presupposto dell’imputabilità del soggetto richiesta per l’applicazione della sanzione comminata per il fatto criminoso commesso, secondo quanto previsto dall’art. 85 cp. Si vedano Antolisei, F. “Manuale di Diritto Penale”, P.te Generale, Giuffré, a cura di L. Conti, pg. 530; Nuvolone, P. “Il sistema del Diritto Penale”, Cedam, pg. 250 ss.
2 La distinzione si fonda su un criterio puramente quantitativo e non qualitativo, per cui la diminuente ricorre ogniqualvolta l’infermità o altra causa sia di tale gravità, da ridurre notevolmente, pur senza escluderla del tutto, la capacità di intendere e di volere del soggetto. Così C. Cass. 1/04/82, Cassazione Penale, 83, pg. 1765.
3 E quindi il tossicodipendente: data l’identica disciplina, si userà indifferentemente il riferimento all’uno comprendendovi anche l’altro.
4 Caso fortuito: si pensi all’errore scusabile sul contenuto di una bevanda considerata innocua, ma rivelatasi fortemente alcolica.
5 Forza maggiore: il caso di scuola è dell’addetto ad una distilleria che a causa di un guasto agli impianti, si ubriaca a causa dei vapori alcolici inalati. Così, Fiandaca G., Musco F., “Diritto Penale”, P.te Generale, pg. 297; C. Cass. 17/10/66, Cass. Pen., 67, pg. 706.
6 La prova, attesa l’eccezionalità del fattore, pur spettando all’accusa, si ritiene non vada ricercata se non quando l’interessato ne abbia offerto adeguati elementi indicativi, con criticabili ripercussioni a danno dell’imputato. Così C. Cass. 11/04/80, Cass. Pen., 81, pg. 1224.
7 Tracciato dall’art.87 c.p..
8 Esempi di norme che ampliano la tipicità sono l’art. 110 c.p. sul concorso di persone nel reato e l’art. 56 c.p. sul tentativo di delitto, istituti che consentono l’incriminazione di condotte materiali che fuoriescono dallo schema tipico tracciato dal legislatore ma, grazie alla combinazione di tali clausole generali con la norma incriminatrice del reato monosoggettivo acquistano rilevanza penale.
E’ utile precisare, tuttavia, che l’imputabilità si colloca al di fuori della tipicità del fatto di reato, considerata dalla più recente dottrina come status del soggetto, necessario perché possa essere assoggettato a pena.
9 Tale soluzione è stata accolta dalla Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’art. 92 primo comma c.p., in particolare sulla violazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) ravvisata nella parificazione dell’ubriaco al soggetto pienamente capace di intendere e volere e del principio do personalità della responsabilità penale (art. 27 Cost.) messo in discussione dalla presunzione o finzione di una piena capacità dell’ubriaco. La Corte ha respinto le censure riconducendo la responsabilità dell’ubriaco al momento in cui si è posto in stato di incapacità -momento in cui era cosciente-, secondo lo schema ricostruttivo dell’actio libera in causa. Corte Costituzionale, sentenza 33/70, annotata da Amato, “Gli ubriachi e la Corte Costituzionale” in Quale Giustizia, 1970, pg. 86.
10 E’ responsabilità oggettiva, contemplata dall’art. 42 c.p., quella forma di responsabilità in virtù della quale un evento di reato viene posto a carico del soggetto in base al solo nesso di causalità materiale fra la sua condotta commissiva o omissiva e l’evento medesimo. Essa non esige, pertanto, che il comportamento dell’autore sia sorretto dai criteri di imputazione del reato -dolo o colpa-, introducendo una vistosa, criticata, eccezione al principio di colpevolezza tratto dall’art. 27 primo comma della Costituzione (“la responsabilità penale è personale”). Si ricordi, tuttavia, che seppure esistono discutibili applicazioni di tale forma di responsabilità (es. aberratio ictus di cui all’art. 82 c.p.), nell’ordinamento penale tale responsabilità oggettiva non è mai “pura”, innestandosi comunque su una precedente, colpevole, condotta illecita del soggetto.
11 Si pensi ad un ubriaco che, guidando imprudentemente la sua auto ad una velocità superiore ai limiti massimi consentiti cagioni la morte di un passante.
12 Identico trattamento è riservato a chi, dedito all’uso di sostanze stupefacenti, abbia commesso il reato sotto l’azione delle medesime. Ancora una volta il fenomeno dell’etilismo e della tossicodipendenza sono equiparati in un trattamento sanzionatorio spiccatamente repressivo.
13 Così, C. Cass. 19/02/86, Cass. Pen, 87, pg. 1334 e C. Cass. 03/05/88, ivi, 89, pg. 1466.
14 Cfr. C.Cass. 24/05/96, Sez. VI.
15 Così C. Cass. 14/05/85; C. Cass. 24/01/92; C. Cass. 09/07/90; C. Cass. 21/06/98.
16 Si veda Corte d’Appello di Bologna, Sentenza 28/11/87.
17 Si veda, fra gli altri, Fiandaca, Musco, op. cit., pg. 302.
18 Cfr. Tribunale di Roma, 9/01/80, Se. I.
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