Sommario: 1. Premessa. 2. L’infungibilità tra Valutazione Ambientale Strategica e Valutazione di Incidenza Ambientale. 3. Il “sentito” obbligatorio dell’Ente di Gestione e il potere sostitutivo della Regione. 4. I dicta della Corte Costituzionale in materia: a) l’abbattimento della fauna nociva non è attività venatoria; b) la commercializzazione di “fauna selvatica morta” per sagre e manifestazioni è consentita solo se proveniente da allevamenti. 5. Considerazioni finali.
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Premessa
La sentenza che si annota (TAR Campania Napoli, Sez. I, Pres. Veneziano, Est. Corciulo, depositata il 21 maggio 2019) ha il pregio di aver fatto piena luce su rapporti e differenze tra istituti regolati da una disciplina disomogenea e meritevole di una migliore ricostruzione sistematica anche a seguito degli interventi della Corte Costituzionale in materia di fauna selvatica omeoterma e di una procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia per la non conformità delle norme nazionali (parte seconda del D.lgs. n. 152/2006) alla direttiva VIA 2011/92/UE, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di progetti pubblici e privati, in seguito modificata dalla direttiva 2014/52/UE con finalità di promuovere una “smart regulation” in coerenza e sinergia con temi quali biodiversità, cambiamento climatico, uso sostenibile del suolo, vulnerabilità e resilienza a incidenti e calamità naturali.
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L’infungibilità tra Valutazione Ambientale Strategica e Valutazione di Incidenza Ambientale
Con la sentenza in esame il TAR ha accolto “nei sensi e limiti di cui in motivazione” il ricorso proposto dall’Associazione Italiana per il World Wide Fund for Nature (WWF) Onlus avverso la delibera della G.R. della Campania del 7 agosto 2018, n. 521, con la quale è stato approvato il Piano di gestione e controllo dei cinghiali allo scopo “di risolvere i problemi di conflitto causati dalla specie nel territorio regionale, in special modo nei confronti dell’agricoltura, dell’ambiente e delle attività umane”, nonché i pareri dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) del 12 ottobre 2017 e del 12 luglio 2018.
Oggetto di impugnazione è stato anche il decreto del dirigente della Regione Campania (dip. 50, dg 17, UOD 92 Staff Valutazioni Ambientali) contenente la Valutazione di Incidenza del piano e, più specificamente, l’allegato 1-B, punto 2.02, delle norme di salvaguardia dei Parchi regionali dei Monti Picentini, Partenio, Taburno-Camposauro, Roccamonfina-Foce Garigliano, Matese, Fiume e, quanto al Parco dei Monti Lattari, il punto B dell’Allegato alla deliberazione della Giunta regionale n. 2227 del 26 settembre 2003, nella parte in cui si dispone che “al di fuori dell’area di riserva integrale (zona A), ai fini del mantenimento dell’equilibrio faunistico, si possono prevedere eventuali prelievi faunistici, eventuali abbattimenti selettivi che, fino all’approvazione del Piano del Parco, sono autorizzati dall’Ente Parco e sono affidati alle Amministrazioni Provinciali competenti per territorio”.
Il TAR, nel ritenere il ricorso fondato, dopo aver premesso che “non sposta i termini della questione quanto opinato nella difesa della Regione Campania, secondo cui la fase di approvazione sarebbe stata preceduta, conformemente all’art. 6, secondo comma, lettera b) del d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, dalle valutazioni strategiche opportunamente richieste, a tal fine operando riferimento al parere favorevole per la Valutazione di Incidenza al Piano Triennale approvato”, ha fissato i seguenti, importanti principi di diritto.
A) In conformità a quanto previsto dall’art. 11 del d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, la Valutazione Ambientale Strategica costituisce per i piani e programmi in materia ambientale parte integrante del procedimento, sicché i provvedimenti amministrativi di approvazione adottati senza che la stessa sia stata preventivamente acquisita, ove prescritta, sono annullabili per violazione di legge.
B) La Valutazione di Incidenza di cui all’art. 5 del d.P.R. 8 settembre 1997, n. 537, e successive modificazioni non è “in rapporto di equivalenza o di sostituibilità” con la Valutazione Ambientale Strategica.
La prima, infatti, “pone a fondamento di esigenze di protezione ambientale finalità di tipo conservativo dello stato dei luoghi rispetto ad effetti modificativi che un nuovo strumento di programmazione o pianificazione potrebbe comportare”.
La seconda, invece, come stabilito dall’art. 6, comma 1, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, “riguarda i piani e i programmi che possono avere impatti significativi sull’ambiente e sul patrimonio culturale”.
Essa è richiesta, in particolare, per tutti i piani e i programmi: “a) che sono elaborati per la valutazione e gestione della qualità dell’aria ambiente, per i settori agricolo, forestale, della pesca, energetico, industriale, dei trasporti, della gestione dei rifiuti e delle acque, delle telecomunicazioni, turistico, della pianificazione territoriale o della destinazione dei suoli, e che definiscono il quadro di riferimento per l’approvazione, l’autorizzazione, l’area di localizzazione o comunque la realizzazione dei progetti elencati negli allegati II, III e IV del presente decreto; b) per i quali, in considerazione dei possibili impatti sulle finalità di conservazione dei siti designati come zone di protezione speciale per la conservazione degli uccelli selvatici e quelli classificati come siti di importanza comunitaria per la protezione degli habitat naturali e della flora e della fauna selvatica, si ritiene necessaria una valutazione d’incidenza ai sensi dell’articolo 5 del decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357, e successive modificazioni”.
La sentenza del TAR ribadisce, sul punto, quanto già affermato in precedenza dal Consiglio di Stato, Sez. VI, con sentenza del 10 maggio 2011, n. 2755, secondo cui è indiscutibile “la diversità della VAS rispetto alla valutazione di incidenza ambientale sottesa ai piani provinciali resa dalla Regione, ai sensi dell’art. 5 del d.P.R. n. 357 del 1997 (recante il regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE, sulla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche); infatti, la valutazione di incidenza, già prevista nel sistema antecedente alla differita entrata in vigore del d.lg. n. 152 del 2006, ha un rilievo settoriale, destinato alla particolare protezione di siti di importanza comunitaria (e da tenere in considerazione anche in sede di VAS, anch’essa divenuta necessaria in base alla normativa sopravvenuta del 2006)”.
Invero, ben diverse e più ampie sono le finalità e l’ambito di operatività della Valutazione Ambientale Strategica che, oltre a presentare, come sottolineato dal TAR, “un’articolazione procedimentale pluristrutturata, assicurando forme di partecipazione diffusa attraverso l’espletamento di consultazioni precedute e rese possibili da un ampio regime di pubblicità (art. 14 del d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152)”, pone queste ultime come risultanze istruttorie delle quali tener conto nella motivazione posta a fondamento del parere (art. 15).
L’istituto esprime, peraltro, anche una funzione di tipo prescrittivo, essendo previsto (art. 13) che «nel rapporto ambientale debbono essere individuati, descritti e valutati gli impatti significativi che l’attuazione del piano o del programma proposto potrebbe avere sull’ambiente e sul patrimonio culturale, nonché le ragionevoli alternative che possono adottarsi in considerazione degli obiettivi e dell’ambito territoriale del piano o del programma stesso», in questo modo rivelandosi strumento non già di mero controllo, ma anche “propulsivo e correttivo, in conformità all’atteggiamento sempre più dialogico e partecipativo dell’azione amministrativa a cui si ispira il legislatore”.
In questa prospettiva – conclude il TAR – “non è condivisibile supporre alcuna fungibilità tra Valutazione di Incidenza e Valutazione Ambientale Strategica, dovendo la norma di cui all’art. 6, primo comma, lettera b) esser letta nel senso che laddove si ritengano sussistenti i presupposti per la Valutazione di Incidenza, in considerazione di possibili impatti ricadenti sulle finalita di conservazione di siti designati come zone di protezione speciale per la conservazione degli uccelli selvatici e quelli classificati come siti di importanza comunitaria per la protezione degli habitat naturali e della flora e della fauna selvatica, si deve procedere con lo strumento della Valutazione Ambientale Strategica”.
La norma riconosce, in definitiva, alla Valutazione di Incidenza solo rilevanza quale mero presupposto della V.A.S., come – del resto – confermato anche dall’art. 10 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, che, con riferimento alla relazione tra i due subprocedimenti, stabilisce che «la VAS e la VIA comprendono le procedure di valutazione d’incidenza di cui all’articolo 5 del decreto n. 357 del 1997; a tal fine, il rapporto ambientale, lo studio preliminare ambientale o lo studio di impatto ambientale contengono gli elementi di cui all’allegato G dello stesso decreto n. 357 del 1997 e la valutazione dell’autorità competente si estende alle finalità di conservazione proprie della valutazione d’incidenza oppure dovrà dare atto degli esiti della valutazione di incidenza».
Il volume indicato
L’applicazione dei criteri ambientali minimi negli appalti pubbliciCon il “Collegato ambiente” alla legge di stabilità 2015, sono state introdotte nel nostro ordinamento una serie di novità in materia di appalti verdi e alcune modifiche al codice dei contratti pubblici. Le norme hanno previsto l’obbligo per le pubbliche amministrazioni, incluse le centrali di committenza, di contribuire al conseguimento degli obiettivi ambientali, attraverso l’inserimento nei documenti di gara delle specifiche tecniche e delle clausole contrattuali contenute nei decreti ministeriali sui CAM (Criteri Ambientali Minimi), adottati in attuazione del Piano di Azione Nazionale (PAN GPP). Ovviamente, tutte le disposizioni (sugli acquisti verdi e sulla obbligatorietà dei CAM) costituiscono una vera e propria rivoluzione nel mondo degli appalti e gli operatori pubblici e privati sono chiamati a conoscere ed utilizzare gli strumenti di gestione ambientale (EMAS e ISO 14001), le etichettature ecologiche (Ecolabel etc.), le dichiarazioni ambientali di prodotto (DAP), le metodologie di analisi del ciclo di vita (LCA) ed infine l’impronta ecologica dei prodotti (PEF) che, tra l’altro, sarà utilizzata per il nuovo marchio “Made Green in Italy”, recentemente oggetto del Decreto 21 marzo 2018, n. 56 del Ministero dell’Ambiente di cui questa edizione tiene conto. Il focus del libro risulta concentrato sui Criteri Minimi Ambientali e sull’impatto che la loro applicazione avrà sul sistema attuale degli appalti pubblici. Un capitolo è dedicato alla conoscenza del GPP; vengono altresì illustrate alcune esperienze regionali riconosciute come virtuose. Oltre agli strumenti predetti, vengono analizzati i Manuali Europei sugli acquisti verdi e le varie direttive, la normativa nazionale, il Piano di Azione Nazionale (PAN GPP). Si illustreranno i CAM, sia quelli in vigore (ad oggi 18) che quelli in itinere, con commenti e valutazioni ed alcune schede operative. Tutti i contenuti del volume sono aggiornati e commentati con il D.Lgs. n. 56/2017. Inoltre, è stato introdotto un nuovo paragrafo sui “Criteri ambientali minimi per l’affidamento di servizi di progettazione e lavori per la nuova costruzione, ristrutturazione e manutenzione di edifici pubblici” (G.U. serie generale n. 259 del 6 novembre 2017), entrati in vigore il 7 novembre 2017. Seguendo le istruzioni presenti in terza di copertina, si potrà consultare una selezione della normativa europea e nazionale in materia, i PAN GPP, i CAM attualmente in vigore e documentazione varia selezionata dalle esperienze regionali. Toni Cellura | 2018 Maggioli Editore 29.00 € 23.20 € |
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Il “sentito” obbligatorio dell’Ente di Gestione e il potere sostitutivo della Regione
Con la predetta sentenza il TAR ha ritenuto fondato anche il secondo motivo di ricorso, con il quale era stata contestata la violazione dell’art. 5, comma settimo, del d.p.r. n. 357 del 1997, secondo cui «la valutazione di incidenza di piani o di interventi che interessano proposti siti di importanza comunitaria, siti di importanza comunitaria e zone speciali di conservazione ricadenti, interamente o parzialmente, in un’area naturale protetta nazionale, come definita dalla legge 6 dicembre 1991, n. 394 , è effettuata sentito l’ente di gestione dell’area stessa».
Il TAR ha evidenziato, a tal proposito, che, nella specie, non era stata offerta prova – da parte della Regione Campania – del fatto contrario, ovvero “della circostanza della mancata acquisizione del sentito dell’Arma dei Carabinieri e dell’Ente Riserva Foce Sele, Tanagro e Monti Eremita Marzano, interessati dal Piano approvato”.
I giudici hanno, infine, censurato l’operato dell’amministrazione regionale sul presupposto che il suo potere di intervento in materia è di natura sostitutiva ed è esercitabile solo in presenza di una situazione di inerzia dei soggetti competenti in via principale, ossia gli organi di gestione delle aree protette nazionali e regionali, così come stabilito dall’art. 18 della legge regionale del 9 agosto 2012, n. 26, il quale, occupandosi proprio del controllo e della prevenzione dei danni da popolazioni di cinghiale in soprannumero, affida alla competenza della Giunta regionale il monitoraggio della popolazione dei cinghiali e dei relativi danni, nonché compiti di raccolta, archiviazione ed elaborazione informatica dei dati relativi.
Inoltre, secondo quanto prescritto dal secondo comma di tale disposizione, la Giunta regionale è anche competente ad adottare un provvedimento volto a fissare i criteri di prevenzione e contenimento dei danni, specificando obiettivi, modalità, durata temporale e confini spaziali, nonché le necessarie risorse finanziarie.
Il terzo e il quinto comma – precisa ancora il TAR – stabiliscono, poi, rispettivamente che, «per i territori dove sono accertati ricorrenti danni causati da cinghiali selvatici, gli organi di gestione delle aree protette nazionali e regionali, e quelli degli ATC, devono elaborare, entro novanta giorni dal provvedimento, i programmi di prevenzione e controllo delle popolazioni di cinghiale, di concerto con le competenti strutture delle amministrazioni provinciali» e che «la Giunta regionale, in caso di inerzia degli enti competenti, esercita poteri sostitutivi per l’elaborazione e l’esecuzione dei programmi di prevenzione e controllo selettivo, nel rispetto della normativa di settore».
Alla luce di tale complessa disciplina normativa la competenza della Giunta regionale ad elaborare programmi di prevenzione e controllo delle popolazioni di cinghiale assume indubbio “carattere sostitutivo” ed è esercitabile solo in presenza di una situazione di inerzia dei soggetti competenti in via principale, ossia gli organi di gestione delle aree protette nazionali e regionali.
Nella specie, la sussistenza di tale presupposto, quale condizione per l’esercizio del potere sostitutivo, non è stata riscontrata dal TAR nel principale provvedimento impugnato.
Ciononostante, il G.A. non ha mancato di avvertire che, a prescindere dalla sussistenza dei presupposti per l’esercizio di una funzione di pianificazione in via sostitutiva, la Regione è comunque titolare di tale funzione in primo grado.
Tanto risulta dall’art. 22, comma sesto della legge 6 dicembre 1991 n. 394, che, nel dettare norme quadro per la disciplina delle aree naturali protette regionali, stabilisce che «nei parchi naturali regionali e nelle riserve naturali regionali l’attività venatoria è vietata, salvo eventuali prelievi faunistici ed abbattimenti selettivi necessari per ricomporre squilibri ecologici. Detti prelievi ed abbattimenti devono avvenire in conformità al regolamento del parco o, qualora non esista, alle direttive regionali per iniziativa e sotto la diretta responsabilità e sorveglianza dell’organismo di gestione del parco e devono essere attuati dal personale da esso dipendente o da persone da esso autorizzate scelte con preferenza tra cacciatori residenti nel territorio del parco, previ opportuni corsi di formazione a cura dello stesso Ente».
Ne discende che, in assenza di un regolamento del parco, sono previste direttive regionali, da intendersi anche come atti generali di pianificazione, volte a disciplinare prelievi ed abbattimenti al fine di ricomporre squilibri ecologici. Né tale competenza regionale risulta contraddetta dalla previsione di cui all’art. 22, quarto comma, della legge Regione Campania 1° settembre 1993 n. 33, emanata in esecuzione dell’art. 28 della legge statale 6 dicembre 1991 n. 394, secondo cui «in tutto il Territorio del Parco valgono i divieti generali di cui all’art. 11 comma terzo della Legge 394/91.
Eventuali deroghe possono essere concesse, secondo le prescrizioni contenute nei commi 4 e 5 dell’art. 11 della legge 394/91, dall’ Ente Parco. Divieti aggiuntivi possono essere contenuti nel regolamento di ciascun Parco».
In proposito, l’art. 11, terzo comma, della legge 6 dicembre 1991, n. 394, prevede che «salvo quanto previsto dal comma 5, nei parchi sono vietate le attività e le opere che possono compromettere la salvaguardia del paesaggio e degli ambienti naturali tutelati con particolare riguardo alla flora e alla fauna protette e ai rispettivi habitat. In particolare sono vietati: a) la cattura, l’uccisione, il danneggiamento, il disturbo delle specie animali; la raccolta e il danneggiamento delle specie vegetali, salvo nei territori in cui sono consentite le attività agro-silvo-pastorali, nonché l’introduzione di specie estranee, vegetali o animali, che possano alterare l’equilibrio naturale;(…)».
Tale disposizione, tuttavia, fa riferimento unicamente ai divieti generali e relative deroghe, ma non alla differente ipotesi speciale costituita dai «prelievi faunistici ed abbattimenti selettivi necessari per ricomporre squilibri ecologici», per la quale resta operante la disposizione di cui all’art. 22, comma sesto, della legge 6 dicembre 1991 n. 394, applicabile specificamente alle aree naturali protette regionali.
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I dicta della Corte Costituzionale in materia: a) l’abbattimento della fauna nociva non è attività venatoria; b) la commercializzazione di “fauna selvatica morta” per sagre e manifestazioni è consentita solo se proveniente da allevamenti
4.1. Anche se il tema, nel suo duplice aspetto, non viene affrontato dal TAR nella pronuncia in commento, appare utile evidenziare che, come ricordato dalla Corte Costituzionale con sentenza del 21 ottobre 2005, n. 392, l’articolo 19, comma 2, della legge statale n. 157 del 1992, nel disciplinare l’abbattimento di fauna nociva, prevede quanto segue.
“Le regioni per la migliore gestione del patrimonio zootecnico, per la tutela del suolo, per motivi sanitari, per la selezione biologica, per la tutela del patrimonio storico-artistico, per la tutela delle produzioni zoo-agro-forestali ed ittiche, provvedono al controllo delle specie di fauna selvatica anche nelle zone vietate alla caccia.
Tale controllo, esercitato selettivamente, viene praticato di norma mediante l’utilizzo di metodi ecologici su parere dell’Istituto nazionale per la fauna selvatica. Qualora l’Istituto verifichi l’inefficacia dei predetti metodi, le regioni possono autorizzare piani di abbattimento. Tali piani devono essere attuati dalle guardie venatorie dipendenti dalle amministrazioni provinciali. Queste ultime potranno avvalersi dei proprietari o conduttori dei fondi sui quali si attuano i piani medesimi, purché muniti di licenza per l’esercizio venatorio, nonché delle guardie forestali e delle guardie comunali munite di licenza per l’esercizio venatorio“.
Dall’esame di tale disposizione si evince, dunque, che l’abbattimento della fauna nociva non può essere ricondotto all’esercizio della attività venatoria.
L’abbattimento, infatti, viene preso in considerazione solo come extrema ratio, ovvero dopo che i metodi ecologici non sono risultati efficaci, risultando previsto soltanto a fini di tutela dell’ecosistema.
Più esattamente, la norma in questione è dettata dall’esigenza di evitare che la tutela degli interessi (sanitari, di selezione biologica, di protezione delle produzioni zootecniche, ecc.) perseguiti con i piani di abbattimento trasmodi nella compromissione della sopravvivenza di alcune specie faunistiche ancorché nocive.
A tale scopo, la disposizione contiene un elenco tassativo di soggetti autorizzati all’esecuzione dei piani (guardie venatorie dipendenti dalle amministrazioni provinciali, proprietari o conduttori dei fondi sui quali si attuano i piani di abbattimento, guardie forestali e guardie comunali munite di licenza per l’esercizio venatorio), nel quale non sono compresi i cacciatori, come si desume, altresì, dal comma 3 del medesimo articolo 19, secondo cui le sole Province di Trento e Bolzano possono attuare i piani di abbattimento della fauna nociva anche avvalendosi di altre persone, purché munite di licenza per l’esercizio venatorio.
Per la Corte Costituzionale la previsione dell’art. 19, nella parte in cui disciplina i poteri regionali di controllo faunistico, “costituisce un principio fondamentale della materia a norma dell’art.117 della Costituzione, tale da condizionare e vincolare la potestà legislativa regionale: non solo per la sua collocazione all’interno della legge quadro e per il rilievo generale dei criteri in esso contenuti, frutto di una valutazione del legislatore statale di idoneità e adeguatezza di tali misure rispetto alle finalità ivi indicate, del controllo faunistico; ma anche per il suo significato innovativo rispetto alla disciplina del controllo faunistico di cui alla precedente legge cornice 27 dicembre 1977, n. 968 (Principi generali e disposizioni per la protezione e la tutela della fauna e la disciplina della caccia) che all’art. 12 non precludeva la partecipazione dei cacciatori (non proprietari dei fondi interessati) alla esecuzione dei piani di abbattimento destinati al controllo selettivo e per l’inerenza della disposizione […] a materia contemplata dalla normativa comunitaria in tema di protezione delle specie selvatiche. La rigorosa disciplina del controllo faunistico recata dall’art. 19 della legge n. 157 del 1992 è infatti strettamente connessa all’ambito di operatività della direttiva 79/409/CEE, concernente la conservazione di uccelli selvatici (sentenza n. 135 del 2001)”.
Ne deriva che la legislazione regionale non può qualificare le Riserve di caccia come “conduttori a fini faunistico-venatori dei fondi“, facendo così rientrare tali Riserve – e per esse i cacciatori assegnati – tra i soggetti autorizzati all’esecuzione dei piani.
4.2. Sempre in relazione alla materia della caccia, va ancora ricordato che, secondo la costante giurisprudenza della Corte Costituzionale, da ultimo ribadita con sentenza n. 44 del 13 marzo 2019, pur rientrando la stessa nella potestà legislativa residuale delle Regioni, queste ultime nondimeno sono tenute a rispettare i criteri fissati dalla legge n. 157 del 1992 a salvaguardia dell’ambiente e dell’ecosistema.
Tale legge stabilisce il punto di equilibrio tra «il primario obiettivo dell’adeguata salvaguardia del patrimonio faunistico nazionale» e «l’interesse […] all’esercizio dell’attività venatoria» (sentenza n. 4 del 2000); conseguentemente, i livelli di tutela fissati non sono derogabili in peius dalla legislazione regionale (cfr., ex plurimis, le sentenze n. 174, n. 139 e n. 74 del 2017).
Ha rilevato, sul punto, la Corte che l’art. 21, comma 1, lettera t), della legge n. 157 del 1992 consente la commercializzazione di fauna selvatica morta per sagre e manifestazioni solo se la stessa provenga da allevamenti.
Per il resto, in linea con altre disposizioni contenute nel medesimo comma 1 dell’art. 21, caratterizzate dalla stessa ratio (in tal senso le ipotesi di cui alle lettere bb, cc, ee), prevede il divieto assoluto della relativa attività: viene così anteposto l’interesse alla tutela del patrimonio faunistico, altrimenti compromesso dalle prospettive di lucro offerte dalla commercializzazione della fauna selvatica.
Un siffatto divieto costituisce un limite invalicabile per le iniziative legislative delle Regioni, pur in materie, come quella della caccia, ascritte alla loro competenza legislativa residuale.
E tale confine non superabile emerge con maggiore nettezza laddove si consideri che il legislatore statale ha dotato di peculiare pregnanza il precetto in questione, finendo per sanzionarne penalmente la relativa violazione (con l’arresto da due a sei mesi o l’ammenda da lire da euro 516 a euro 2.065 in ragione di quanto previsto dall’art. 30, comma 1, lettera l, della legge n. 157 cit.).
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Considerazioni finali
Al di là dei profili critici delle varie tematiche giuridiche originate da un non felice intreccio tra direttive comunitarie, normativa nazionale ed intervento del giudice delle leggi, quel che è certo è che il problema “sus scrofa” esiste e non è detto che la colpa sia solo dell’animale.
Il biologo Francesco Petretti ha dichiarato che “la falla è rappresentata dai ripopolamenti che ancora oggi vengono fatti annualmente a ritmo di decine di migliaia di capi. Inutile pensare di risolvere il problema del sovrannumero dei cinghiali se prima non si tappa la falla, arrestando questo fiume di esemplari liberati ogni anno dalle strutture pubbliche e private per alimentare una crescente domanda venatoria”.
Secondo studi più o meno recenti, tutto avrebbe avuto inizio con l’introduzione in Italia, da parte dei cacciatori, dei grossi e prolifici cinghiali dell’Europa centrale, quindi di una razza manipolata che avrebbe, poi, contribuito a far scomparire quasi del tutto la specie autoctona (cinghiale maremmano).
Si sostiene che questo fattore, che sembrerebbe marginale, è in realtà la causa principale delle tante nascite, in quanto la Sus Scrofa, geneticamente modificata, ha un estro maggiore e arriva ad avere nel giro di un anno anche due cucciolate. E questo di conseguenza fa sì che le disponibilità alimentari che gli animali trovavano in natura non siano oggi più sufficienti per la loro sopravvivenza.
Come confermato anche dal recente piano di gestione e controllo del cinghiale della regione Campania, sia gli eventi di danno che gli indennizzi richiesti aumentano di anno in anno.
Tra le colture danneggiate, mais, cereali e vigneti superano ormai il 60% degli eventi.
Nel triennio 2013-2015 i comuni interessati da danni da cinghiale sono stati 259 pari al 47% dei comuni campani, percentuale che sale al 60% se si escludono i comuni dove il cinghiale non è presente (aree “non vocate”).
Altri dati sono utili per meglio comprendere il fenomeno.
Nel corso della stagione venatoria 2016-2017 sono stati abbattuti, nel territorio campano, 9.320 cinghiali.
Il prelievo, esclusivamente in braccata, ha visto la partecipazione di 6.631 cacciatori organizzati in 245 squadre.
La caccia in braccata al cinghiale in Campania si svolge dal 1° ottobre al 31 dicembre nei giorni di giovedì e domenica, ai quali si aggiunge nel mese di ottobre il sabato.
Le aree interessate dalla caccia in braccata sono state 301 con una superficie totale che supera i 220.000 ha.
Da questi dati quali valutazioni possono trarsi?
Personalmente ritengo che, se da un lato è sbagliato criminalizzare la specie, è altrettanto sbagliato sottovalutare il problema.
La sentenza del TAR spiega bene cosa fare, anche in vista di un concreto ed equo contemperamento, “de iure condito”, degli interessi in gioco.
Urge che le istituzioni facciano seriamente la loro parte e che la “specie uomo” si dia una regolata una volta per tutte, favorendo la promozione di politiche sostenibili per la gestione del fenomeno, magari di una “smart regulation”, come richiesto dalla Commissione europea.
Ovviamente anche i cacciatori debbono fare la loro parte.
Come ricordato da ultimo dal Consiglio di Stato, Sez. III, con sentenza del 5 luglio 2018, n. 4224,“la normativa sulla caccia rende direttamente compartecipi i soggetti interessati ad un aspetto ludico della vita associata, ai fini della migliore gestione della risorsa costituita dalla selvaggina cacciabile, espressamente dichiarata bene indisponibile dello Stato (art. 1 l. n. 157 del 1992)”.
Non è facile centrare gli obiettivi ma bisogna provarci, nell’ottica di una auspicata e ritrovata sinergia, prima che sia troppo tardi!
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