Abstract: L’Autrice, interpretando la disposizione dello strumento internazionale, mette in luce i risvolti più profondi del ruolo dei soggetti educatori e della funzione educativa.
Uno degli articoli più rilevanti della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia è l’art. 29 relativo all’educazione.
“Qualcuno ha detto che in Afghanistan ci sono molti bambini, ma manca l’infanzia”[1] (lo scrittore Khaled Hosseini). L’infanzia, purtroppo, rischia di mancare (o già manca) anche nella nostra società perché priva di sicurezza (da “sine cura”, senza preoccupazione) familiare, sociale, valoriale; per questo era, è e rimarrà fondamentale l’intervento e l’investimento educativo.
La locuzione introduttiva dell’art. 29 della Convenzione, “l’educazione del fanciullo deve tendere a”, esplica le caratteristiche fondamentali dell’educazione: attività rivolta a qualcuno, che comporta impegno, che è continua e permanente ed è diretta verso obiettivi chiari. Un processo di continua tensione in cui tutti i soggetti educativi (espressione da preferirsi ad “agenzie educative”) si mettono in discussione e in collaborazione verso la stessa direzione.
Il pedagogista Pino Pellegrino scrive: “Il genio nasce da un buon ambiente familiare, sociale e scolastico. In altre parole, per preparare un genio occorre intervenire fin dai primi anni per permettere al bambino di fare svariate esperienze in modo che possano emergere doti latenti ed eventuali predisposizioni in qualche settore”. “Doti latenti ed eventuali predisposizioni” del bambino e non sogni repressi o inespressi dei genitori che “portano” (o trasportano) i figli da un corso all’altro, perché “[…] l’educazione deve tendere a: promuovere lo sviluppo della personalità del fanciullo, dei suoi talenti, delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutto l’arco delle sue potenzialità” (dall’art. 29 lettera a Convenzione). L’educazione deve partire innanzitutto dal rispetto dell’educando: educare al rispetto e nel rispetto. “Rispetto”, etimologicamente significa “guardare di nuovo, guardare dietro”: volgendo lo sguardo all’altro ci si rispecchia, si ritorna alle origini, ai nodi irrisolti. Ogni relazione che sia veramente tale è educazione, come sosteneva don Lorenzo Milani: “Devo tutto quello che so ai giovani operai e contadini cui ho fatto scuola. Quello che loro credevano di stare imparando da me sono io che l’ho imparato da loro. Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi mentre loro mi hanno insegnato a vivere”[2].
“Genitori distratti e figli abbandonati a se stessi – afferma la storica Lucetta Scaraffia – : è la nuova società in cui molestatori e vittime prendono forma già sui banchi di scuola. Per risolvere il problema non basta affiancare i giovani nel percorso di crescita: bisogna anche insegnare loro il rispetto, prima di tutto di se stessi”. Nella legislazione italiana non si parla di ‘rispetto’, a proposito della funzione e relazione educativa, nel modo in cui, invece, se ne parla nell’art. 29 della Convenzione. Nel codice civile si accenna al ‘rispetto’ nell’art. 315 bis “Diritti e doveri del figlio”, nel rapporto tra genitori e figli. Un soggetto rispettato in quel che è e per quel che è sarà più portato a rispettare gli altri.
Un altro indice di ‘rispetto’ elencato nell’art. 29 è sicuramente il riferimento alle “potenzialità”, perché nei confronti dei bambini e dei ragazzi, in qualsiasi ambiente, non si deve ragionare in termini di “capacità” (“ciò che contiene”) che non è dato conoscere, ma in termini di “potenzialità” (“ciò che può”) che è dato riscontrare per mirare, poi, alla pluripotenzialità (come si fa per le cellule staminali). Lo scrittore Simone Perotti sottolinea: “A scuola ci insegnano la Storia, la Matematica, l’Educazione civica. A me un professore delle scuole medie insegnò perfino come lavarmi i denti (Educazione sanitaria). Nessuno che mi abbia parlato dei miei pregi, di come metterli a frutto o di come mitigare i miei vizi, o di come mettere a frutto pure quelli. Peccato, perché staremmo meglio grazie alla conoscenza delle nostre potenzialità”.
Ogni relazione educativa e significativa si costituisce e si costruisce di rispetto e ricordi. “Accorgersi che nei propri figli si è innestata una sensibilità per il ricordare, è un’esperienza emozionante: si tratta di una competenza – niente a vedere con la ripetizione mnemonica di date e particolari – che finisce per costituire un tratto della personalità, un’attitudine che nasce grazie alla sapienza di genitori e nonni che hanno saputo stimolarla e alimentarla” (la giornalista Nicoletta Martinelli).
Dopo il rispetto di sé, il bambino può conoscere e comprendere il rispetto di altro e dell’altro: “[…] inculcare nel fanciullo il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” (art. 29 lettera b Convenzione). I bambini sono persone in via di formazione cui dare regole certe, senza trincerarsi dietro scusanti o attenuanti, per avere adulti veri. Lo psichiatra statunitense Thomas S. Szasz richiama: “La permissività è il principio di trattare i bambini come adulti. E la tattica per essere sicuri che non arrivino mai a diventarlo”. Luisa Muraro, filosofa e scrittrice, aggiunge: “Abbiamo bisogno di chiamarla “autorevolezza” perché nella nostra storia non siamo riusciti a dividere l’autorità dal potere, tanto che abbiamo distrutto l’autorità identificandola con l’autoritarismo e lasciato il vuoto; l’autorità non è potere, è riconoscimento nella relazione: io ti ascolto perché hai una storia, un valore. L’autorità è libertà, è creatività, è generatività, è fiducia, è ciò che di buono ci hanno tramandato le generazioni: per questo è il fondamento delle società ed è la base dell’educazione. Un bambino non imparerebbe neppure a parlare, se non si affidasse ai suoi genitori”. Autorità ha la stessa origine di “autore”, “colui che fa avanzare, il promotore, il fattore” (dal verbo latino “augere”, “far crescere, accrescere”). Il genitore in quanto tale è autore, fattore, promotore di vita e per questo bisogna ricoprire e riempire la sua figura di autorità. È fondamentale che il bambino abbia un’immagine chiara e coerente dei propri genitori per poter, poi, riconoscere e rispettare le altre figure: “inculcare al fanciullo il rispetto dei genitori, della sua identità, della sua lingua e dei suoi valori culturali, nonché il rispetto dei valori nazionali, del Paese di cui è originario e delle civiltà diverse dalla propria” (art. 29 lettera c Convenzione). Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro precisa: “L’amore per la propria cultura e il rispetto per quelle altrui vanno insegnati con l’esempio e senza imposizioni e rigidità controproducenti: la cultura non è un’arma contundente, non serve per bastonare il prossimo ma per aprirsi con lui a una relazione fertile. La manutenzione d’amore va svolta con leggerezza e levità, non deve pesare ed esser fatta pesare, se si vuole che raggiunga l’effetto migliore”. Occorre passare dall’inciviltà dell’indifferenza alla cultura della differenza: dal verbo latino “differo”, portare da una parte all’altra, ma comunque portare qualcosa di proprio. Una delle frontiere di un’educazione sempre nuova, perché sempre nuovi i soggetti educativi e educandi.
“Tutti vorremmo decisamente vivere in un mondo migliore, eppure abbiamo la sensazione che l’umanità, di cui ognuno di noi è parte integrante, anziché progredire nella comprensione dei valori stia mettendocela tutta per fare l’esatto contrario” (Giulio Albanese, missionario e giornalista). “Valore”, ciò che vale, ciò che è forte, ciò che ha merito: quei valori richiamati espressamente nell’art. 29 lettera c della Convenzione. Si richiede di recuperare l’educazione valoriale; l’educazione, in realtà, se veramente tale, non avrebbe bisogno di aggettivazione perché è educazione alla vita, alfa ed omega dei valori.
Lo scrittore Tiziano Terzani propugnava: “Facciamo più quello che è giusto, invece di quel che conviene. Educhiamo i figli ad essere onesti, non furbi. È il momento di uscire d’impegnarsi per i valori in cui si crede. Una civiltà si rafforza con la sua determinazione morale molto più che con nuove armi”. Civiltà è la cultura che porta rispetto ad ogni altra cultura. “[…] inculcare al fanciullo il rispetto […] delle civiltà diverse dalla propria” (art. 29 lettera c Convenzione): una delle proposizioni più significative di quest’articolo, anche perché evoca il concetto di “civiltà” (da cui scaturisce pure il “civismo”), come quelle antiche civiltà che hanno dato le basi all’umanità tutta e quella civiltà che, venuta meno, sta facendo perdere la rotta all’umanità stessa.
Ada Fonzi, professore emerito di psicologia dello sviluppo, sostiene: “Esiste un’interazione tra il modo in cui l’individuo si rapporta agli altri e quello in cui si rapporta a se stesso. In sintesi, chi è in pace con il mondo e pronto a farsi carico delle sfide sociali collettive ha più fiducia in se stesso e si applica con maggiore determinazione al raggiungimento dei propri obiettivi personali. Non è questione di altruismo e di generosità, o almeno non solo. È la conquista di un equilibrio in cui dare e avere si equivalgono. Nasce allora spontaneo un interrogativo: pro sociali si nasce o si diventa? Come accade per tutti i comportamenti umani, la risposta non può che conciliare entrambe le interpretazioni. Non si può negare che esistano dei tratti presenti fin dalla nascita che predispongono l’individuo in una direzione piuttosto che in un’altra, ma si tratta di predisposizioni e non di istinti alle quali si sovrappone in maniera vistosa il peso dell’educazione e della cultura”. Educazione e cultura, educazione che si fa cultura: è questo il senso del verbo “inculcare” ripetuto nell’art. 29. “Inculcare” è letteralmente “premere dentro, sopra” e, quindi, introdurre a forza, ma in senso traslato significa “la cura di bene imprimere un consiglio, un avvertimento nella memoria, scolpire in mente”: proprio come il “coltivare” da cui deriva “cultura” (dal verbo latino “colere”) e in cui si realizza il senso dell’educazione.
Nella lettera d dell’art. 29 vi è scritto: “[…] preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione […]”. Per preparare qualcuno occorre essere preparati, occorrono perciò adultità e autenticità. A tale proposito L. Scaraffia: “Penso che i giovani debbano essere educati all’impegno e ricevere insegnamenti che, per essere validi, dovranno essere necessariamente severi. Non sono gli insegnanti o i genitori “amici”, che non fanno mai nulla contro il desiderio dei giovani, i veri maestri, ma quelli che chiedono molto e che, per chiedere molto, molto devono dare”. “Assumere” è “prendere su di sé” e il fanciullo lo potrà fare solo se è stato “promosso” (“mosso in avanti”) e gli è stato “inculcato” (“messo dentro”) quello che serve nella vita per essere “preparato” (“disposto prima”) ai pesi della vita.
Successivamente nella lettera d dell’art. 29 si trova la locuzione “uguaglianza tra i sessi” che non è “uguaglianza dei sessi”, perché implica una relazione tra sessi differenti. Non si ha bisogno di “cultura del gender”, ma di “cultura del rispetto”. A. Fonzi soggiunge: “[…] continuare a sottolineare la necessità che la famiglia, la scuola, la società nel suo complesso affrontino una sorta di rivoluzione pedagogica che metta al primo posto tra i suoi obiettivi il rispetto e la valorizzazione delle differenze di genere. Ciò implica la sostituzione di quella educazione sessuale ormai ampiamente diffusa e sbandierata come testimonianza di progresso, con una educazione sentimentale che non si avvalga più, o non soltanto, di schemi illustrativi delle differenze anatomiche, ma che faccia dell’incontro tra i sessi un’occasione di scoperta e di accettazione dell’alterità”.
Infine nella lettera e si prevede: “[…] inculcare nel fanciullo il rispetto per l’ambiente naturale” (lettera e dell’art. 29 Convenzione). Si passa, pertanto, gradualmente e coerentemente dal bambino nella sua interezza, di cui alla lettera a, a tutto quello che lo circonda, nella lettera e, perché il rispetto presuppone circolarità e reciprocità. Un proverbio masai recita: “Trattiamo bene la terra su cui viviamo: essa non ci è stata donata dai nostri padri, ma ci è stata prestata dai nostri figli”.
L’educazione è ciò che caratterizza l’essere umano, pertanto genitori e educatori hanno una grossa responsabilità, una responsabilità di vita, per tutta la vita. L’“educatore delle coscienze”, padre Ernesto Balducci, ricorda: “Un genitore serio non sa cos’è un genitore, se lo sa non è più serio. Un professore serio ha molti dubbi sul suo ruolo, se non ha dubbi è pericoloso”.
[1] Dal capitolo ventiquattro del romanzo “Il cacciatore di aquiloni” di Khaled Hosseini.
[2] Da “Esperienze pastorali” di don Lorenzo Milani.
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