Sommario: 1. La cornice normativa emergenziale in Italia. 2. Gli effetti del Coronavirus sulla pubblica amministrazione. 3. L’incontrollato proliferare dei decreti del presidente del Consiglio dei ministri, dei decreti interministeriali e dei decreti ministeriali. 4. La tanto agognata semplificazione. Il decreto legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito in legge n.120 dell’11 settembre 2020 e i possibili rischi di anticostituzionalità 5. I pesanti riflessi della pandemia sui principi costituzionali della Polonia e dell’Ungheria. 6. L’ungheria e i pieni poteri a Orban. 7. Le elezioni presidenziali in Polonia in tempo di coronavirus. 8. Conclusioni.
Abstract. Il coronavirus sta travolgendo i sistemi costituzionali di molti paesi, tra cui anche l’Italia ed i paesi dell’Unione Europea. L’ intensità di tale influenza varia da Stato a Stato e si accentua in quei Paesi, come la Polonia e l’Ungheria, definiti illiberali, già caratterizzati da un sistema costituzionale sovranista e con limitate libertà costituzionali.
Abstract. The coronavirus is overwhelming the constitutional systems of many countries, including Italy and the countries of the European Union. The intensity of this influence varies from state to state and is accentuated in those countries, such as Poland and Hungary, defined as illiberal, already characterized by a sovereign constitutional system and with limited constitutional freedoms.
La cornice normativa emergenziale in Italia
L’ormai arcinoto virus del Covid-19 in pochi mesi ha cambiato radicalmente lo scenario globale, con una ricaduta spaventosa e incontrollabile, oltre che sulla salute dei cittadini di tutti i continenti, anche sulla realtà economico-sociale degli stessi, determinando l’adozione di misure straordinarie in campo sanitario e giuridico.
In particolare, nel nostro ordinamento giuridico, in primo luogo, è stato messo a dura prova il principio sancito dall’art. 32 della Costituzione, in base al quale «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti».
In Italia, infatti, il 31 gennaio 2020, il Consiglio dei Ministri ha ufficializzato, lo stato di emergenza, per sei mesi dalla data del provvedimento, al fine di consentire l’emanazione delle necessarie ordinanze di Protezione civile, in deroga ad ogni disposizione vigente e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico; ha deliberato, inoltre, lo stanziamento dei fondi necessari per dare attuazione alle misure precauzionali derivanti dalla dichiarazione di emergenza internazionale effettuata dall’O.M.S. Il provvedimento è stato prorogato al 31 gennaio 2021 con decreto legge n.125 del 7 ottobre 2020.
A disciplinare la materia nella fase di emergenza è intervenuto, a seguito dei decreti legge n.6/2020, n.11/2020, e dei D.P.C.M. in data 4 marzo 2020, 8 marzo 2020 e 11 marzo 2020, anche il decreto legge 17 marzo 2020, n.18 (c.d. decreto legge “Cura Italia”), convertito con modificazioni, nella legge 24 aprile 2020, n.27, che ha introdotto una serie di disposizioni normative rivolte alle pubbliche amministrazioni, tra cui quelle contenute nell’art. 87 recante «Misure straordinarie in materia di lavoro agile e di esenzione dal servizio e di procedure concorsuali».
Successivamente, a regolamentare la materia è stato emesso il D.P.C.M. in data 22 marzo 2020, che ha previsto ulteriori norme attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n.6 ed ha impartito disposizioni innovative in ordine ai poteri del Prefetto, ampliandoli in maniera significativa.
Nel tentativo, poi, di semplificare la normativa emergenziale e cercare di dare una veste costituzionale ai precedenti provvedimenti normativi, è stato emanato il decreto legge n.19 del 25 marzo 2020, convertito nella legge 22 maggio 2020, n. 35.
In primo luogo, tale provvedimento ha precisato che possono essere adottate, una o più misure, per periodi predeterminati, ciascuno di durata non superiore a trenta giorni, reiterabili e modificabili più volte. Si è posto un limite, così, alla vortiginosa e discutibile legiferazione incontrollata da parte dell’esecutivo.
Con i D.P.C.M. in data 1°, 10 e 26 aprile 2020, poi, le misure emergenziali sono state prorogate sino al 17 maggio 2020, dando luogo alla c.d. fase due dell’emergenza.
In particolare il D.P.C.M. del 26 aprile 2020, nel definire le misure per il contenimento del contagio da covid-19, relativamente ai datori di lavoro pubblici, fa salvo quanto previsto dal richiamato art. 87 del decreto legge n.18/2020 che, tra l’altro, definisce il lavoro agile come modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica, ovvero fino ad una data antecedente stabilita con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione.
Successivamente, con il decreto legge n.28 in data 30 aprile 2020, convertito nella legge 25 giugno 2020, n. 70, sono state disposte «misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazione di conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l’introduzione del sistema di allerta covid-19».
Con il decreto legge n.34 del 19 maggio 2020, convertito nella legge 17 luglio 2020, n. 77, poi, sono state emanate misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19.
Inoltre, in data 8 giugno 2020 è stato consegnato al Presidente del Consiglio dei ministri il “piano Colao”, ovvero una serie di iniziative per il rilancio 2020-2022 ideate da una task force guidata dall’ex manager Vodafone Vittorio Colao.
Il documento, che rappresenta un primo passo verso la semplificazione, consta di 121 pagine, suddivise in sei capitoli per altrettante macroaree di intervento: Imprese e Lavoro – Infrastrutture e Ambiente – Turismo, Arte e Cultura – Pubblica Amministrazione – Istruzione, Ricerca e Competenze – Individui e Famiglie.
Il piano realizzato da un comitato di esperti in materia economica e sociale, ha assunto la forza di un documento programmatico suddiviso in sei macro-settori, dalle imprese alla cultura, dalla pubblica amministrazione alla famiglia, giudicati essenziali per far ripartire il paese, combinando temi sociali, ambientali, economici.
I sei settori sono stati accompagnati da un sottotitolo che ne riassume l’obiettivo. Ogni capitolo è suddiviso in vari sottocapitoli, in cui sono elencate poi le varie misure concrete e azioni specifiche.
Si sono susseguiti ancora i D.P.C.M. in data 11 giugno, 14 luglio, 7 agosto 2020, 7 settembre e 7 ottobre 2020 concernenti ulteriori misure di contrasto al Covid-19.
Infine, con il decreto legge n.76 del 16 luglio 2020, convertito nella legge n.120 dell’11 settembre 2020, sono state emanati provvedimenti urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale. Come specificato nel preambolo, il decreto legge intende corrispondere alla duplice esigenza di agevolare gli investimenti e la realizzazione delle infrastrutture attraverso una serie di misure di semplificazione procedurali, nonché di introdurre una serie di misure di semplificazione in materia di amministrazione digitale, responsabilità del personale delle amministrazioni, attività imprenditoriale, ambiente ed economia verde, al fine di fronteggiare le ricadute economiche conseguenti all’emergenza epidemiologica da Covid-19. Inoltre, il decreto prevede riforme importanti e accelerazioni delle procedure per le opere pubbliche, affidando direttamente alle amministrazioni committenti poteri straordinari in deroga alle procedure ordinarie, ma anche una significativa riforma del reato di abuso d’ufficio e del danno erariale.
2. Gli effetti del coronavirus sulla pubblica amministrazione
Si deve rilevare, in primo luogo, la sicura influenza della normativa emergenziale sul funzionamento della nostra pubblica amministrazione.
Tale normativa, dettata da indubbie ragioni di natura sanitaria, ha costituito un ulteriore vulnus all’art. 97, secondo comma, della Costituzione, spesso inattuato, secondo cui «I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione».
Per il settore pubblico, l’art. 18, comma 3, della legge n. 81 del 2017, prevede che le disposizioni introdotte in materia di lavoro agile si applicano, in quanto compatibili, anche nei rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.
La citata normativa emergenziale prevede, poi, misure di incentivazione quali il ricorso a strumenti per la partecipazione da remoto a riunioni ed incontri di lavoro (sistemi di videoconferenza e call conference), l’utilizzo di propri dispositivi e l’attivazione di un sistema bilanciato di reportistica interna ai fini dell’ottimizzazione della produttività anche in un’ottica di progressiva integrazione con il sistema di misurazione e valutazione della performance.
Con le direttive della Ministro della Pubblica Amministrazione n.1 del 4 marzo, n.2 del 1° aprile, n.3 del 4 maggio e n.3 del 24 luglio 2020 è stato ribadito che il lavoro agile costituisce la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione fino alla cessazione dello stato di emergenza. I provvedimenti confermano che le amministrazioni sono chiamate ad uno sforzo organizzativo e gestionale per garantirne il pieno utilizzo, accessibile in modo temporaneamente semplificato, così da ridurre al minimo gli spostamenti e la presenza dei dipendenti negli uffici, correlandola ai servizi indifferibili non erogabili da remoto. Il ricorso al lavoro agile non esclude l’utilizzo, per motivate esigenze organizzative, agli altri istituti richiamati dalla normativa, tra i quali ferie pregresse, congedo, banca ore, rotazione nel rispetto della contrattazione collettiva, mentre l’esenzione del lavoratore dal pubblico servizio è un’extrema ratio da motivare puntualmente.
Si sottolinea che la differenza fondamentale del lavoro agile pubblico e quello privato consiste nel fatto che, mentre nella pubblica amministrazione si tratta di un obbligo e non di una possibilità ed è possibile derogare agli accordi individuali e agli obblighi informativi di cui agli articoli dal 18 al 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, lo stesso non può essere detto per il lavoro privato in cui tale tipologia di lavoro non è un obbligo, ma una possibilità e deve, comunque, rispettare gli articoli sopra citati.
E’ indubbio, quindi, che il contagio ha avuto il “merito” di aver riproposto il tema del lavoro agile, prezioso strumento a disposizione anche delle Pubbliche Amministrazioni. Probabilmente sarebbe bastato seguire le indicazioni dell’Unione Europea che, con la risoluzione del 13 settembre 2016, si impegnava a “sostenere il lavoro agile”, per garantire maggiore inclusione e nuove assunzioni nel corso di questi anni, maggiore sicurezza e tutela della salute.
Le disposizioni normative e le indicazioni del Ministro per la Pubblica Amministrazione, quindi, dovranno essere eseguite ed implementate, ma non può nascondersi che tale processo, oramai avviato, dovrà essere affinato.
In tale materia è intervenuto anche il piano Colao che, nella scheda 1.ii, suggerisce di utilizzare la fase attuale per un’attenta e profonda osservazione dello smart working e delle dinamiche ad esso connesse per identificare elementi con cui migliorare la normativa vigente (legge n.81/2017 cit.), per renderla aderente al nuovo contesto che si sta sviluppando, in cui da un lato vi è la necessità di uno sviluppo diffuso di tale strumento per questioni anche di sicurezza e dall’altro l’obiettivo di dare a imprese e lavoratori un’opzione migliorativa sia della produttività sia delle condizioni lavorative. Al fine di evitare utilizzi impropri dello strumento già nell’immediato il documento raccomanda di adottare un codice etico per la PA e la necessità di superare il digital divide (divario digitale) in termini infrastrutturali e di disponibilità dei devices (dispositivi elettronici) e una formazione digitale, al fine di poter garantire la piena fruibilità in tutte le aeree geografiche del Paese e in tutte le fasce della popolazione.
Nel breve periodo il piano invita a promuovere nella PA l’adozione di un codice etico con considerazione dei tempi extra lavorativi (tra i quali impegni domestici e cura della famiglia) e, in ottemperanza alla legge n.81/2017 (stesse ore lavorative e giornate come da contratto nazionale), con l’obiettivo di massimizzare la flessibilità del lavoro individuale, concordare momenti di lavoro collettivo, adottare sistemi trasparenti di misurazione degli obiettivi e della produttività al fine di valutare la perfomance sui risultati e non sul tempo impiegato.
Tuttavia, non possono sottacersi alcune difficoltà strutturali per il ricorso a tale strumento.
In primo luogo, tale sistema lavorativo rende più difficili i controlli previsti dalla vigente normativa. In un sistema pubblico, caratterizzato da un rilevante fenomeno di assenteismo (ad esempio, i cc.dd. furbetti del cartellino), la verifica dell’attività lavorativa, nonostante le buone intenzioni, diverrebbe ancora più difficile, con una possibile limitazione dell’efficienza della pubblica amministrazione e le conseguenti responsabilità penali e contabili per i dirigenti.
In secondo luogo, la quasi totalità delle pubbliche amministrazioni svolge un compito di ricevimento del pubblico (c.d. front office), che è divenuto più difficile con lo strumento del lavoro agile e ha distolto numerose unità lavorative destinate a tale compito, mentre è stato difficile interloquire con i cittadini non tutti in possesso di strumenti e competenze informatiche. Negli ultimi mesi, infatti, si è assistito alla parziale chiusura degli sportelli, con gravi disagi per i cittadini.
Infine, il progressivo ed abnorme invecchiamento dei lavoratori pubblici non sempre in possesso di professionalità informatiche e, soprattutto la carenza degli organici, giunta a livelli preoccupanti, stanno ostacolando il ricorso a tale forma di lavoro.
3. L’incontrollato proliferare dei decreti del presidente del Consiglio dei ministri, dei decreti interministeriali e dei decreti ministeriali
Come noto, i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, i decreti interministeriali e i decreti ministeriali sono atti amministrativi che non costituiscono una fonte del diritto autonoma, sono disciplinati dall’art. 17 della legge 23 agosto 1988, n.400 e non possono essere esercitati in difetto di una specifica attribuzione di rango primario, ossia di legge ordinaria.
Pertanto, tale tipologia di regolamenti non possono derogare, quanto al contenuto, né alla Costituzione, né alle leggi ordinarie sovraordinate. Per lo stesso motivo, le norme regolamentari non possono avere ad oggetto incriminazioni penali, stante la riserva assoluta di legge che vige in detta materia (art. 25 Costituzione).
Quando l’organo emanante è il Presidente del Consiglio dei Ministri, il potere in questione è attribuito nell’ambito delle funzioni di coordinamento e indirizzo politico. In ogni caso tali decreti sono di solito generali e astratti, in quanto contengono norme di dettaglio, o generiche, ma relative ad uno specifico argomento finalizzate all’attuazione di una data norma di legge.
Di regola il decreto è sempre prescritto dalla legge, che, dopo aver delineato i principi di una data materia (ad esempio, nel caso in esame, quella sanitaria), ne affida l’esatta definizione tecnica ed attuazione ai citati organi.
Durante la fase della pandemia tale tipologia di decreto dovrebbe farsi rientrare tra quelli attuativi e integrativi, che non si limitano a dare esecuzione a norme contenute nella fonte sovraordinata (legge, decreto legislativo), ma hanno contenuto innovativo, assicurando l’applicazione e l’integrazione delle leggi, ancorchè nei limiti della disciplina da esse prefissata (art. 17, comma 1, lett. b), legge n.400/1988). Le citate leggi sovraordinate in materia di Coronavirus, per l’aspetto ivi considerato, allo stato, sono stati i decreti legge n.6/2020, n.11/2020, n.19/2020, la legge n.27/2020, il decreto legge n.28/ 2020, il decreto legge n. 76/2020 e il decreto legge n.125/2020.
Pertanto, i provvedimenti in questione potrebbero farsi rientrare nei decreti ministeriali di natura non regolamentare che si innestano nell’ormai caotico sistema delle fonti del diritto caratterizzato da una sempre più evidente tipicità.
La congruità di tali decreti, che potrebbero definirsi asistematici, spesso prescelti per l’esercizio del potere normativo del Governo in funzione della disciplina attuativa di un ambito di intervento legislativo, come nel caso in esame, avviene sulla base dell’uso flessibile e talvolta patologico delle fonti.
Quindi, in tale disordinato assetto, l’imporsi sulla scena delle fonti di tale tipologia di decreto, evidenzia, da un lato, la tendenza ad affidare sempre più spesso ambiti di disciplina alle fonti secondarie (il decreto legge, in sostituzione della legge ordinaria, le ordinanze di protezione civile invece del decreto legge, gli atti amministrativi generali che vanno oltre i regolamenti strictu sensu); dall’altro, i mutamenti nell’assetto del rapporto Parlamento-Governo, con una sempre maggiore invadenza dell’esercizio della funzione legislativa da parte dell’esecutivo
Tali decreti sono definiti “atti amministrativi privi di forma regolamentare, tuttavia abilitati a derogare alla legge e stabilire regole innovative, i quali non possono non destare perplessità sul piano della legalità e della legittimità costituzionale”; essi possono alterare il principio di separazione dei poteri, dando vita all’esercizio sempre più frequente della funzione legislativa da parte dell’amministrazione.
La difficoltà di distinguere i regolamenti dagli atti amministrativi generali, basandosi soltanto su criteri sostanziali, ha indotto il legislatore ad emanare il sopracitato art.17 della legge n. 400/1988, la cui procedura è stata spesso aggirata violando lo spirito della riforma del titolo V della Costituzione, art.117, comma 6, che riconosce il potere regolamentare del Governo.
Le principali problematiche riguardano in primo luogo la loro normatività, in quanto ci si chiede fino a che punto sia legittimo attribuire contenuti di tipo normativo ad atti che dal punto di vista formale sono amministrativi e che sul piano pratico vengono adottati o per eludere l’art.117, comma 6, della Costituzione oppure per aggirare il procedimento di adozione dei regolamenti.
In secondo luogo si pone il problema del controllo della validità di questi atti.
La legge, che autorizza espressamente l’adozione di questi atti in deroga all’art. 17 della citata legge n.400/1988 (nel caso in esame i decreti legge e le leggi citati), infatti, dovrebbe essere oggetto di sindacato costituzionale per eccesso di potere legislativo, quest’ultimo “riconducibile ad uno sviamento della funzione tipica della legge, che diventa strumento di illecita elusione delle competenze costituzionalmente assegnate”.
Il decreto, invece, “potrebbe essere impugnato in sede di conflitto tra Stato e regioni, nonchè in sede di conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, disapplicato dal giudice ordinario ove contrario alla legge o alla Costituzione, annullato dal giudice amministrativo nella sede del sindacato di annullamento, non propriamente adatto al controllo di validità degli atti normativi”.
Infine, dal punto di vista pratico, si osserva che la prassi dei decreti di natura non regolamentare realizza concretamente non tanto una delegificazione della materia quanto “una flessione patologica della normatività a favore dell’amministrativizzazione della legge”.
In realtà, si ritiene che attraverso l’uso dei regolamenti di cui trattasi, si possa produrre la violazione dell’art. 17 della legge n.400/1988, il cui ambito di applicazione può anche ritenersi ridimensionato a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 117, comma 6, della Costituzione, ma non certamente abrogato, determinandosi, così, un vulnus dei limiti costituzionali delle competenze.
Un primo sgarbo istituzionale, nella materia emergenziale in esame, si è avuto, ad esempio, con il rinvio all’art. 650 del codice penale operato in precedenza dall’art. 4 del D.P.C.M. 8 marzo 2020, che al secondo comma recitava: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il mancato rispetto degli obblighi di cui al presente decreto è punito ai sensi dell’art. 650 del codice penale, come previsto dall’art. 3, comma 4, del decreto legge 23 febbraio 2020, n. 6».
Per effetto di questa disposizione, tutti gli obblighi contenuti nel provvedimento risultavano sanzionati con il reato contravvenzionale ex art. 650 del codice penale, mentre per le numerose raccomandazioni ivi previste, il medesimo testo non prevedeva sanzioni.
Ricompreso nel libro III (Delle contravvenzioni in particolare), titolo I, capo I, Sezione I (Delle contravvenzioni concernenti l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica), l’art. 650 statuisce che «Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a duecentosei euro».
A queste violazioni si devono aggiungere le sanzioni per le ipotesi di dichiarazioni mendaci a pubblico ufficiale previste dall’art. 76 del D.P.R. n. 445/2000, che richiama i reati di falso, anche commessi ai danni di pubblici ufficiali, nonché dagli articoli 483 e art. 495 del codice penale.
Tale sistema sanzionatorio è stato, però, rivoluzionato e corretto dall’art. 4 del citato decreto legge 19/2020, che al primo comma ha statuito «Salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all’art. 1, comma 2, individuate ed applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 2, comma 1, ovvero dell’art. 3, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3000 e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall’art. 650 del codice penale o di ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità, di cui all’art. 3, comma 3. Se il mancato rispetto delle predette misure avviene mediante l’utilizzo di un veicolo le sanzioni sono aumentate fino a un terzo». La sanzione successivamente è stata ridotta da 400 a 1000 euro ed è stata estesa anche al mancato uso della mascherina in luogo pubblico dal citato decreto legge n.125/2020.
In tal modo il legislatore poco accorto, resosi conto della evidente violazione della normativa costituzionale e dell’abnorme portata dell’avvio di migliaia di procedimenti penali che avrebbero intasato le procure della repubblica e della scarsa efficacia deterrente delle stesse, ha previsto un meccanismo sanzionatorio molto più efficace e legittimo.
Le violazioni sono accertate ai sensi della legge n.689/1981, la legge cardine del sistema amministrativo punitivo, e le sanzioni per le violazioni delle misure di cui all’art. 2, comma 1, sono irrogate dal Prefetto o dalle autorità che le hanno disposte.
In caso di reiterata violazione della medesima disposizione, la sanzione amministrativa è raddoppiata e quella accessoria è applicata nella misura massima.
Prosegue il comma 6, disponendo che «Salvo che il fatto costituisca violazione dell’art. 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’art. 1, comma 2, lettera e), è punita ai sensi dell’art. 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n.1265, Testo unico delle leggi sanitarie, come modificato dal comma 7».
Tale norma prevede che «Chiunque non osserva un ordine legalmente dato per impedire l’invasione di una malattia infettiva dell’uomo è punito con l’arresto fino a sei mesi e con l’ammenda da lire duecento a quattromila. Se il fatto è commesso da una persona che esercita una professione o un’arte sanitaria la pena è aumentata».
Siamo in presenza di una fattispecie di difficile accertamento e superabile con una (falsa) autocertificazione, perché la citata violazione concerne il divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla quarantena a persone risultate positive al virus.
Il riferimento, poi, all’art. 452 del codice penale (delitti colposi contro la salute pubblica che prevede la reclusione da uno a cinque anni nei casi di epidemia e di avvelenamento di acque e sostanze elementari) richiederà il difficile accertamento in giudizio dell’elemento psicologico del reato.
Un altro dubbio sulla costituzionalità dei decreti di cui trattasi concerne la possibile violazione dell’art. 41 della Costituzione che sancisce «L’iniziativa economica privata è libera […]». Pertanto, far discendere una limitazione di tale libertà così rilevante nel nostro ordinamento giuridico a provvedimenti amministrativi del Prefetto dall’art, 1, lettere d), f), g) e h) del D.P.C.M. in data 22 marzo 2020 e dal decreto legge n.19/2020 convertito nella legge 22 maggio 2020, n. 35, desta non poche perplessità.
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La tanto agognata semplificazione. Il decreto legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito in legge n. 120 dell’11 settembre 2020 e i possibili rischi di anticostituzionalità
Il decreto, l’ennesimo adottato con la formula “salvo intese”, pubblicato ben dopo nove giorni dall’adozione, convertito in legge n.120 dell’11 settembre 2020, è costituito da 65 articoli divenuti 109 con la legge di conversione, divisi in quattro titoli.
Come specificato nel preambolo, il decreto legge intende corrispondere alla duplice esigenza di agevolare gli investimenti e la realizzazione delle infrastrutture attraverso una serie di misure di semplificazione procedurali, nonché di introdurre una serie di misure di semplificazione in materia di amministrazione digitale, responsabilità del personale delle amministrazioni, attività imprenditoriale, ambiente ed economia verde, al fine di fronteggiare le ricadute economiche conseguenti all’emergenza epidemiologica da Covid-19. Inoltre, prevede riforme importanti e accelerazioni delle procedure per le opere pubbliche, affidando direttamente alle amministrazioni committenti poteri straordinari in deroga alle procedure ordinarie, ma anche una significativa riforma del reato di abuso d’ufficio e del danno erariale
Infatti, nel provvedimento, agli articoli 21, 22 e 23, sono inserite le due riforme chiave della perimetrazione del reato di abuso d’ufficio e della responsabilità erariale limitata al solo dolo.
Per quanto concerne il reato di abuso d’ufficio, il decreto interviene, confermando la pena da uno a quattro anni, sulla disciplina dettata dal menzionato art. 323 c.p., attribuendo rilevanza alla violazione da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, nello svolgimento delle pubbliche funzioni, di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge, statuendo nel contempo che a tali specifiche regole non residuino margini di discrezionalità per il soggetto. In altre parole se il funzionario si è scrupolosamente attenuto alle regole di condotta, non potrà essere perseguito.
Il cambiamento potrebbe essere significativo, in quanto la precedente norma non parlava di discrezionalità, come pure non faceva riferimento a specifiche regole di condotta. Infatti, il riferimento agli atti aventi forza di legge al posto dei regolamenti vorrebbe cancellare un’anomalia, quella che vede sanzionati sul piano penale comportamenti in trasgressione non solo di leggi o di misure a queste equivalenti, ma anche di semplici misure regolamentari. Nello stesso tempo, il controverso riferimento ai margini di discrezionalità punta a rendere punibili solo le condotte a forte contenuto di trasgressione, contribuendo anche a sbloccare forme più gravi di burocrazia passiva.
Per quanto riguarda il danno erariale, la norma chiarisce che il dolo va riferito all’evento dannoso in chiave penalistica e non in chiave civilistica e, quindi, il danno potrà essere contestato solo in caso di dolo e non anche di colpa. Infatti, il comma 1 dell’art. 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20 disponeva che «La responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti e alle omissioni commessi con dolo o colpa grave, ferma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali […]. Secondo l’art. 21, primo comma, del decreto a tale norma è aggiunto il seguente periodo: «La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso».
Non solo, con riferimento ai fatti commessi dall’entrata in vigore del decreto e fino al 31 dicembre 2021, si limita la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità al solo profilo del dolo per le azioni e non anche per le omissioni, in modo che i pubblici dipendenti abbiano maggiori rischi di incorrere in responsabilità in caso di non fare (omissioni o inerzie) rispetto al fare. Si tratta di disposizioni che, soprattutto alla nuova configurazione del danno erariale, presentano profili di incostituzionalità, in quanto sono stati adottati con la procedura d’urgenza prevista dall’art. 77 Cost., secondo comma, non giustificata nelle fattispecie che non presentano aspetti straordinari di necessità ed urgenza.
Nel provvedimento si assiste anche ad un ricorso ampio all’art. 63 del codice degli appalti che già consente procedure veloci in casi eccezionali ed è inserita una norma che generalizza l’accesso a questa corsia veloce per le stazioni appaltanti allargando il perimetro di emergenza da sanitaria a economica.
Innanzitutto fino al 31 dicembre 2021, tutti gli appalti piccoli e medi, e quelli grandi considerati strategici per affrontare l’emergenza economica e sanitaria, potranno essere appaltati in modo semplice, senza gara. In particolare l’affidamento diretto o in amministrazione diretta per lavori, servizi e forniture di importo inferiore a 150.000 euro; l’applicabilità della procedura negoziata senza bando con consultazione di almeno cinque operatori per tutte le altre procedure, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti, con individuazione degli operatori in base a indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici.
Il codice degli appalti viene, poi, in alcuni punti modificato e poi completato con il regolamento attuativo.
Nel provvedimento è prevista anche l’attuazione di un fondo per la prosecuzione delle opere pubbliche. L’esigenza è quella di evitare che la mancanza temporanea di risorse pubbliche possa bloccare la realizzazione dell’opera a tempo indeterminato. Beneficiari del fondo sono quindi le stazioni appaltanti e le somme sono destinate a finanziare la prosecuzione dei lavori.
Viene, poi, introdotta una nuova forma di controllo concomitante, diretto a rimediare le disfunzioni, le inerzie e le devianze attuative che si riscontrano nei procedimenti di erogazione di contributi a soggetti pubblici (statali o di enti territoriali) o privati destinati al finanziamento di spese di investimento. La norma prevede, anche, il potere delle sezioni di controllo della Corte dei conti di nominare, previo contradditorio con le amministrazioni, un commissario ad acta per accelerare i tempi.
E’ anche statuito che, con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del titolare del dicastero delle infrastrutture e dei trasporti, venga individuato un elenco delle opere di rilevanza nazionale la cui realizzazione è necessaria per il superamento della fase emergenziale dovuta al Covid-19 e per le quali vi è una situazione di estrema urgenza tale da non consentire il rispetto dei termini, anche abbreviati, previsti dalle procedure ordinarie. Tale elenco è in corso di pubblicazione.
Si prevede, altresì, che la stazione appaltante sia tenuta a concludere il contratto nei termini previsti dalla legge o dalla lex specialis. Si tratta di una norma diretta ad evitare che, anche in accordo con l’aggiudicatario, venga ritardata o rinviata la stipulazione del contratto per pendenza di ricorsi giurisdizionali o altri motivi.
Sono, quindi, apportate alcune modifiche alla disciplina processuale del c.d. rito appalti, prevedendosi in particolare che, per tutte le opere, in sede di pronuncia cautelare, debba tenersi conto del preminente interesse alla sollecita realizzazione dell’opera e dell’interesse del soggetto aggiudicatore alla celere prosecuzione delle opere; per le opere di rilevanza nazionale si applicherà l’art. 125 c.p.a. (uso della procedura negoziata senza previa indizione di gara).
Il decreto disciplina anche la sospensione dell’esecuzione dell’opera pubblica intervenendo sulle ipotesi in cui è possibile sospenderla, indicandole in modo tassativo e, quindi, limitando radicalmente le ipotesi in cui le parti o anche l’autorità giudiziaria possano sospendere l’esecuzione delle opere. Le norme hanno carattere transitorio (sino al 31 dicembre 2021) e sono applicabili agli appalti il cui valore sia superiore alla soglia comunitaria ovvero per le opere di interesse nazionale. Sono, in ogni caso, salvaguardate le ipotesi di sospensione previste o derivanti dall’applicazione di norme penali, del codice delle leggi antimafia, di limiti inderogabili derivanti dall’appartenenza all’UE, di provvedimenti adottati per ordine pubblico, salute pubblica, gravi ragioni di pubblico interesse o gravi ragioni di ordine tecnico idonee ad incidere sulla realizzazione a regola d’arte dell’opera. Si prevedono, quindi, le modalità con cui la stazione appaltante può procedere in caso di risoluzione del contratto con l’originario aggiudicatario indicando un ventaglio di possibilità più ampio rispetto a quello previsto dal codice dei contratti pubblici.
Fino al 31 dicembre 2021 si prevede l’obbligatorietà della costituzione di un collegio consultivo tecnico per appalti di valore superiore alle soglie comunitarie ovvero per opere di interesse nazionale con compiti in tema di sospensione e modifica delle opere e di assistenza per la rapida risoluzione delle controversie, con funzioni simili a quelle del Dispute Board della contrattualistica internazionale.
L’aspetto più rilevante riguarda la valutazione di impatto ambientale (VIA) e i pareri delle Sovrintendenze, i due poteri di veto più forti (anche perché tutelati dalla Costituzione e dalle direttive UE). In entrambi casi l’imperativo del provvedimento è “devolvere”; infatti, le autorità competenti per la VIA e per i pareri paesaggistici avranno un termine per pronunciarsi.
Fino al 31 dicembre 2021, si dispone l’applicabilità della procedura d’urgenza per il rilascio della certificazione antimafia, con specifico riferimento alla consultazione della banca dati di cui all’art. 96 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n.159, con revoca del beneficio o dell’agevolazione attribuita al privato nel caso in cui la documentazione successivamente pervenuta accerti la sussistenza di una delle cause interdittive ai sensi della disciplina vigente. La relazione concernente il provvedimento precisa che si introduce all’interno della legislazione antimafia, al fine di adottare mirate cautele volte a sventare il rischio di possibili infiltrazioni e condizionamenti della criminalità organizzata nel circuito dell’economia legale, l’istituto dei protocolli di legalità, delimitandone il contenuto e l’ambito di applicazione. Viene, quindi, formalizzata una prassi già largamente utilizzata dalle prefetture.
I capitoli in cui è suddiviso il provvedimento riguardano un complesso di interventi:
- contratti pubblici: sono previste alcune norme temporanee come l’affidamento senza gara di importo fino a cinque milioni, la possibilità per le stazioni appaltanti di ricorrere, come detto, all’art. 63 del codice degli appalti, criteri meno rigidi per accedere alle procedure negoziate e una riforma mirata del codice degli appalti su temi delicati come il subappalto. Ma viene disciplinata, anche, l’applicazione della riduzione dei termini procedimentali per ragioni d’urgenza, la previsione che le procedure di affidamento dei lavori, servizi e forniture possono essere avviate anche in mancanza di una specifica indicazione nei documenti di programmazione;
- edilizia privata e rigenerazione urbana: sono facilitati gli investimenti con la semplificazione dei procedimenti autorizzativi e l’allargamento delle possibilità di ricorso alla demolizione e ricostruzione. Fra le misure sono previste anche la dichiarazione di pubblica utilità o l’attenuazione dei vincoli previsti dagli standard urbanistici;
- semplificazione più generale del procedimento amministrativo, con un intervento sulla legge n.241/1990, con lo snellimento ulteriore della Conferenza dei servizi e il taglio dei tempi per l’autotutela e l’esercizio del potere sostitutivo in caso di inerzia, con un indennizzo in caso di ritardi nella chiusura del procedimento. Riguardo ai tempi di conclusione dei procedimenti, si garantisce la piena efficacia della regola del silenzio-assenso, al fine di evitare che l’attesa illimitata di un atto di dissenso espresso, pur se sopravvenuto oltre i termini prefissati, vanifichi ogni funzione acceleratoria. Viene, pertanto, chiarito che la scadenza dei termini fa venire meno il potere postumo dell’amministrazione di dissentire, fatto salvo il potere di annullamento d’ufficio qualora ne ricorrano i presupposti e viene disposto l’aggiornamento dei D.P.C.M. sui termini di conclusione dei procedimenti, al fine di rivalutare tali termini in riduzione. E’, poi, prevista la modifica dell’art. 10-bis, concernente la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza del privato, sostituendo l’interruzione dei termini con la sospensione degli stessi e dell’art. 21-octies, specificando che è sempre annullabile il provvedimento adottato in violazione della normativa sul preavviso di rigetto. Si afferma, anche, il principio generale che le pubbliche amministrazioni agiscono mediante strumenti informatici e telematici sia nei rapporti interni che nei rapporti con privati. La disposizione conferma l’adozione, anche per gli anni 2020-2023, dell’agenda per la semplificazione condivisa tra regioni ed enti locali, in quanto per la ripresa è essenziale un impegno di tutte le amministrazioni statali, regionali e locali. Si ritiene che sarebbe stata necessaria un’abolizione o quantomeno una riformulazione dell’accesso civico (FOIA) che si sta dimostrando motivo di paralisi per la PA, sommersa di richieste di accesso spesso del tutto immotivate;
- corsia preferenziale per gli interventi definiti green (cioè inseriti nel piano nazionale integrato energia clima, Pniec) con una procedura semplificata ed una commissione VIA ad hoc. La semplificazione riguarderà anche le procedure per interventi ed opere nei siti oggetto di bonifica, di interesse nazionale, in materia di interventi contro il dissesto idrogeologico, in materia di zone economiche ambientali. Ci saranno procedure specializzate, sempre con lo scopo di accelerare i progetti e la loro esecuzione per gli interventi legati al green new deal, quelli legati al miglioramento ambientale e per gli interventi privati di demolizione e ricostruzione che faranno parte di piani di rigenerazione urbana. In particolare è previsto un meccanismo facilitato per il rilascio delle garanzie pubbliche da parte di Sace e saranno semplificati gli interventi su progetti o impianti alimentati da fonti di energia rinnovabile e quelli per la realizzazione di punti e stazioni di ricarica di veicoli elettrici. Sono previste, anche, misure di semplificazione in materia di celere svolgimento dei lavori necessari alla realizzazione delle infrastrutture destinate alle comunicazioni elettroniche e di banda larga, dell’attività del Comitato Interministeriale per la programmazione economica (CIPE), per l’erogazione di risorse pubbliche in agricoltura da parte dell’AGEA;
- corsia veloce per gli interventi di digitalizzazione e banda larga, con l’obbligo per la PA di offrire servizi digitali attraverso l’app IO Italia, che dovrà anche sviluppare sistemi per l’accesso da remoto dei dipendenti in modo da favorire lo smart working. Ai servizi pubblici si potrà accedere attraverso l’identità digitale (SPID o carta di identità elettronica), che sostituirà il documento. Inoltre, autocertificazioni, istanze e dichiarazioni si potranno fare via app, sempre attraverso IO Italia, attualmente in fase di implementazione. Sono, altresì, previste la semplificazione delle procedure per la conservazione dei documenti informatici e gestione dell’identità digitale, la piattaforma per la notificazione degli atti della PA, la semplificazione e la diffusione della firma elettronica avanzata, la semplificazione della notificazione e comunicazione telematica degli atti in materia civile, penale, amministrativa, contabile e stragiudiziale. Viene, anche, imposta l’istituzione del codice di condotta tecnologica emanato dal Capo del Dipartimento della trasformazione digitale presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, che detti regole omogenee per tutte le PPAA, per gli acquisti ICT, per lo sviluppo dei sistemi e per la progettazione e realizzazione dei servizi digitali ai cittadini. Nell’ambito della strategia di gestione del patrimonio informativo pubblico per fini istituzionali, si dispone l’interoperabilità dei dati delle PPAA e dei concessionari di pubblici servizi, la semplificazione per la Piattaforma Digitale Nazionale Dati;
- è prevista anche una procedura veloce per tutti gli interventi che contribuiscono a una maggiore digitalizzazione del Paese (PA, imprese, cittadini), a partire dalla infrastrutturazione della banda larga.
In tal modo sono state superate le oltre 400 proposte di norme piovute dai vari ministeri per l’occasione. In tal modo il Governo ha trasformato questo decreto nell’ennesimo provvedimento monstre, diluendolo in mille rivoli e ha cercato di includere riforme significative, a regime o transitorie, la cui efficacia sarà tutta da verificare.
Il Presidente della Repubblica ha firmato il decreto approvato dal Parlamento l’11 settembre 2020, ma ha avvertito: “Troppe norme eterogenee all’interno”. Nel mirino, in particolare, le norme del codice della strada giudicate “fuori tema” rispetto al contenuto del provvedimento originario. Quindi, ha provveduto alla promulgazione soprattutto in considerazione della rilevanza del provvedimento nella difficile congiuntura economica e sociale.
Il Capo dello Stato ha illustrato i suoi dubbi in una lettera inviata ai presidenti di Camera e Senato e al Presidente del consiglio, facendo rilevare in particolare che “Il testo a me presentato, con le modifiche apportate in sede parlamentare, contiene diverse disposizioni, tra cui segnatamente quelle contenute nell’articolo 49, recante la modifica di quindici articoli del codice della strada, che non risultano riconducibili alle predette finalità e non attengono a materia originariamente disciplinata dal provvedimento”.
Ha, quindi, rappresentato al Parlamento l’esigenza di operare in modo che l’attività emendativa si svolga in piena coerenza con i limiti di contenuto derivanti dal dettato costituzionale.
Il Capo dello Stato ha osservato, inoltre, che “Il provvedimento originariamente composto da 65 articoli, per un totale di 305 commi, all’esito dell’esame parlamentare, risulta composto da 109 articoli, per complessivi 472 commi”.
Lo stesso Presidente ricorda, pertanto, che “La legge n.400 del 1988, legge ordinaria di natura ordinamentale volta anche all’attuazione dell’art. 77 della Costituzione, annovera tra i requisiti dei decreti legge l’omogeneità di contenuto” E non tralascia, peraltro, quanto disposto dalla Corte costituzionale che “ha in più occasioni richiamato il rispetto di tale requisito” Da ultimo, nella sentenza n. 247 del 2019, il Giudice delle leggi ha osservato che “la legge di conversione è fonte funzionalizzata alla stabilizzazione di un provvedimento avente forza di legge ed è caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare e semplificato rispetto a quello ordinario. Essa non può quindi aprirsi a qualsiasi contenuto, come del resto prescrive, in particolare, l’art. 96-bis del regolamento della Camera dei Deputati. A pena di essere utilizzate per scopi estranei a quelli che giustificano l’atto con forza di legge, le disposizioni introdotte in sede di conversione devono potersi collegare al contenuto già disciplinato dal decreto-legge, ovvero, in caso di provvedimenti governativi a contenuto plurimo, alla ratio dominante del provvedimento originario considerato nel suo complesso (sentenza n. 32 del 2014)”.
I pesanti riflessi della pandemia sui principi costituzionali della Polonia e dell’Ungheria
E’ opportuno esaminare in modo unitario l’analisi del modo in cui Polonia e Ungheria hanno affrontato, dal punto di vista dell’ordinamento costituzionale, la pandemia del Covid-19, anche per una comparazione con le vicende di casa nostra.
Questi due paesi, nonostante grandi differenze linguistiche e storiche, sono accomunati non solo dal passato relativamente recente del socialismo reale, ma anche da due connotati che li differenziano da molti altri Stati appartenenti alla stessa area. Infatti la Polonia e l’Ungheria hanno condiviso, in primo luogo, le modalità consensuali e “contrattuali” della transizione dal precedente sistema totalitario alla democrazia con il metodo delle tavole rotonde, che ne avevano fatto un modello celebrato di trasformazione pacifica in direzione della libertà; in secondo luogo, di recente, i tratti di una degenerazione illiberale che mette in discussione la rule of law e alcuni principi cardine del costituzionalismo, pur nell’illusoria pretesa di richiamare la democrazia come giustificazione di queste ultime trasformazioni, ove per democrazia bisogna intendere la mera verifica elettorale periodica del consenso, depurata di ogni ulteriore mediazione di quella verifica con altri fattori.
Da questo punto di vista è pur vero che i due Paesi non sono i soli ordinamenti statali con democrazia sufficientemente consolidata ad aver conosciuto di recente un arretramento sul piano della separazione dei poteri e delle garanzie costituzionali. Tuttavia questi due casi colpiscono per l’intensità, per il carattere sistematico e programmato delle modalità con cui è avvenuta la negazione di alcuni principi che sembravano già riconosciuti nei rispettivi ordinamenti. E questa tendenza si è accentuata in occasione della crisi sanitaria ed economica globale insorta a seguito della diffusione del virus Covid-19.
Come noto, la degenerazione illiberale nei due Stai ha preso le mosse dall’alterazione del funzionamento della giustizia costituzionale. Una volta reso questo istituto più compatibile alle aspettative della maggioranza politica, si è proceduto ad una riforma della giustizia ordinaria, che ha consentito di incidere nella sfera dei rapporti tra autorità politica e cittadini e al tempo stesso ha assicurato la parziale impunità dei politici. I cambiamenti costituzionali hanno inciso, anche se con modalità diverse tra i due Paesi, sugli istituti più tradizionali relativi ai rapporti tra gli organi statali di vertice quali, ad esempio, il rapporto fiduciario tra legislativo ed esecutivo, il potere di scioglimento delle assemblee parlamentari, il nucleo essenziale del procedimento legislativo e ancor di più la rappresentanza politica, a cominciare dallo stesso svolgimento di consultazioni periodiche e pluralistiche per il rinnovo degli organi elettivi.
E’ proprio in relazione alla crisi in atto che viene in rilievo un altro elemento significativo del deterioramento in senso illiberale nei due paesi, che però mette in evidenza una differenza fondamentale tra loro, legata al fatto che la forza politica dominante in Ungheria è continuamente in possesso, fin dal 2010, di una maggioranza qualificata, che poi è quella che le ha consentito nel 2012 di far entrare in vigore una legge fondamentale, plasmata sulla propria impostazione ideologica; mentre la forza corrispondente in Polonia, dalla data della sua originaria vittoria, nel 2015 e confermata nel 2019, è sempre stata priva di questa maggioranza. Le trasformazioni costituzionali in Polonia, in particolare, sono avvenute in modo tacito, senza che alcuna modifica della Costituzione formale sia mai stata possibile dal 2015 in poi.
Il caso vuole che le Costituzioni di entrambi i paesi, quella polacca del 1997 e quella ungherese del 2011, contengano una disciplina analitica apposita degli stati di emergenza, diversamente da altre esperienze contemporanee, anche della stessa area, ove spesso si rinvengono spesso norme frammentarie e inserite in altri contesti, come del resto avviene anche in Italia. Se nel caso polacco vi sono sette articoli (228-234) entro un apposito capitolo XI, la legge fondamentale magiara del 2011 contiene una disciplina ancor più minuziosa degli «stati giuridici speciali» con articoli estremamente minuziosi (48-54) ai quali, con il sesto emendamento del giugno 2016, si è aggiunto un articolo 51/A relativo allo «stato di minaccia terroristica» che ammette la restrizione di diritti costituzionali al fine di proteggere altri valori costituzionali in una misura assolutamente necessaria e nel rispetto del principio di proporzionalità.
Soprattutto nella comparazione con la Polonia va osservato che la disciplina analitica ungherese delle singole situazioni di minaccia alla sicurezza nazionale o non fa alcun riferimento oppure è piuttosto vaga quanto ai termini temporali degli stessi. Inoltre, considerato che caratteristica comune a tutti gli stati di emergenza è quella di limitare temporaneamente la fruizione di alcuni diritti costituzionali e di rafforzare i poteri degli organi esecutivi a scapito di quello legislativo, si osserva che nei molteplici stati giuridici speciali ungheresi diverso è il coinvolgimento del Parlamento. Nell’attuale fase di pandemia, l’articolo che è stato considerato prevalente è l’art. 53 definito «stato di pericolo estremo». E questo viene attivato dal solo governo, senza alcuna menzione, almeno, nella legge fondamentale, del Parlamento o di altri soggetti. E’ significativo, d’altra parte, che, come norma generale riferita a tutte le emergenze regolate nelle disposizioni precedenti, si stabilisca (art. 54, terzo comma) «che ogni stato di eccezione deve essere revocato dall’autorità che lo ha legittimamente introdotto, allorquando non sussistano più le condizioni per il suo mantenimento». Per diretta volontà del legislatore ungherese, quindi, l’esecutivo revoca ciò che l’esecutivo ha dichiarato. Se la legge di attuazione dovesse prevedere qualche limite, o l’intervento di qualche altro organo, sarebbe un di più che il legislatore ha voluto concedere, non essendo costretto a farlo dal costituente.
Se, dunque, si raffronta questo impianto normativo con quello della Costituzione polacca, ed in particolare con il suo art. 232 concernente le calamità naturali e i disastri tecnici, si riscontra anche qui un’autoassunzione di poteri da parte del Consiglio dei ministri, con l’aggiunta però che tale condizione può essere proclamata per un periodo non superiore a trenta giorni e che la sua eventuale proroga può avvenire solo previa autorizzazione della Dieta (Sejm). L’assemblea politica nazionale è la sola che può autorizzare quindi un’estensione temporale e, in assenza di questa, si deve intendere che lo stato di calamità decada da solo, ripristinandosi il regolare funzionamento delle leggi ordinarie. Da queste considerazioni si evidenzia la differenza essenziale tra uno stato di emergenza democratico nei limiti del possibile e uno che viene regolato da una Carta con punti di attrito significativi con alcuni valori liberali fondamentali.
Nel contempo, però, si rilevano orientamenti simili dei due governi in carica nei rispettivi paesi, i quali hanno opinioni convergenti anche in diverse controversie in sede europea. Nel caso polacco si è creato un paradosso per cui, di fatto, il vero stato d’eccezione è il rifiutarsi di proclamarlo, imponendo la finzione di un’artificiale normalità che è smentita dalle misure di contenimento della pandemia, ma si spiega in realtà con l’esigenza di svolgere le elezioni presidenziali a tutti i costi – pur con modifiche fondamentali introdotte all’ultimo minuto per innegabili esigenze di sicurezza – nel timore che un loro rinvio, con l’aggravarsi della situazione economica, comporterebbe il rischio di perderle per il Presidente in carica.
Nel caso ungherese si assiste invece alla piena applicazione di quello stato, con dubbi di un suo abuso incostituzionale.
L’ Ungheria e i pieni poteri a Orban
In quasi tutto il mondo il contenimento del Coronavirus ha determinato limitazioni ad alcune libertà civili e in molti Stati si è assistito ad alterazioni dei rapporti tra poteri nonché del quadro costituzionale per portare a termine un’operazione autoritaria che altrimenti sarebbe stata difficile da compiere. Bisogna, però, distinguere tra errori o stati di necessità reali, attenuati i quali il sistema precedente può essere richiamato in vita come potrebbe avvenire in Italia e situazioni di natura diversa. Queste ultime possono verificarsi quando un ordinamento rappresentativo, già in sofferenza per derive di tipo illiberale, in caso di minaccia è propenso a cogliere l’evento imprevisto per portare a termine una deriva autoritaria che altrimenti sarebbe stata più difficile da compiere.
E’ questo in Europa è il caso soprattutto dell’Ungheria. Il riferimento è alla legge cardinale approvata in via definitiva lo scorso 30 marzo dal Parlamento (Orszaggyules), con la consueta schiacciante maggioranza che da dieci anni a questa parte accompagna le vittorie del partito Fidesz, consentendogli di scrivere ex novo costituzioni, adeguarle istantaneamente alle esigenze del momento, approvare decine di leggi cardinali (sarkalatos torvenyec), eleggere una moltitudine di personalità alle più disparate cariche nelle autorità amministrative, giudiziarie e in altre istituzioni di garanzia e, infine, persino a ripristinare con maggiore forza normativa disposizioni già invalidate da un giudicato costituzionale.
L’occasione è costituita dal citato «stato di pericolo estremo» di cui all’art. 53 della legge Fondamentale del 2011, previsto per fronteggiare situazioni derivanti da disastri naturali e incidenti industriali.
Come detto, lo stato di pericolo estremo viene dichiarato direttamente dal governo – diversamente ad esempio dallo stato di difesa preventivo o da quello di minaccia terroristica, che devono essere dichiarati dal Parlamento, il quale è anche competente a dichiararlo cessato – e con tale cessazione perdono efficacia i decreti governativi ad esso riconducibili, ai sensi dell’art. 54.
Sulla base di tali principi, sono state messe in dubbio la legittimazione giuridica di tutte le azioni intraprese in Ungheria dallo scorso mese di marzo. La prima obiezione mossa in dottrina è quella che nega che una pandemia possa rientrare nell’ampia categoria di «disastri ambientali» richiamati dall’art. 53 della legge Fondamentale. Tale obiezione appare, tuttavia, discutibile, data la natura della pandemia.
Per l’ulteriore attuazione dello stato di pericolo, l’art. 53 dispone l’adozione di una legge cardinale come disciplina generale di tutti i singoli provvedimenti puntuali, i quali a loro volta consistono in decreti governativi.
La legge cardinale ungherese in quanto fonte del diritto si presenta simile, per diversi aspetti, alla categoria delle leggi organiche presenti in Paesi come Francia e Spagna. Fin dal momento della transizione democratica le leggi cardinali ungheresi, previste per la disciplina integrativa di organi costituzionali o per questioni relative a diritti fondamentali tendevano ad una visione consensuale della politica, caratterizzata tuttavia da una scarsa fiducia tra un blocco di partiti molto giovani e gli eredi di un partito che invece aveva governato il paese per decenni in condizioni non democratiche. Affiancate ad un sistema elettorale quasi maggioritario, queste leggi ne costituivano quasi un naturale argine, perché il quorum per la loro approvazione – due terzi dei presenti votanti, anzichè dei deputati come per la revisione costituzionale – si presumeva dovesse comunque implicare la formazione di un vasto consenso, superiore a quello che sarebbe stato sufficiente a sorreggere un governo. Ma il loro significato, come quello di altri istituti, è radicalmente mutato dopo che il partito Fidesz è giunto di fatto a possedere da solo la maggioranza qualificata. Quello che era stato simbolo di partecipazione, dal 2010 si è tramutato in uno strumento di predominio, una sorta di assicurazione contro i rischi derivanti dalla possibilità di perdere la maggioranza. Si deve, tuttavia, rilevare che le leggi cardinali non sono una novità introdotta dalla legge fondamentale del 2011, bensì un altro istituto che è stato mantenuto in vita adeguandolo però ad una strumentalizzazione.
Quanto ai decreti governativi previsti dall’art. 53 della Legge Fondamentale, essi hanno due caratteristiche fondamentali, contrastanti con le fonti ordinarie previste in generale dall’ordinamento magiaro: la provvisorietà, che ne limita l’efficacia a quindici giorni salvo che il governo sia abilitato dal Parlamento a prorogarli; e la forza di legge, riscontrabile a partire dal fatto che essi possono «sospendere l’applicazione di alcune leggi» come derogare a disposizioni normative in vigore. In linea di principio sembra quindi che tali decreti debbano possedere un vigore normativo in qualche misura attenuato, dal momento che potrebbero solo stabilire eccezioni o sospensioni provvisorie delle leggi in vigore e non sarebbero quindi abilitati a modificarne il contenuto in modo permanente, innovando l’ordinamento. Ciò che si può addebitare al testo costituzionale è di non avere previsto una chiara delimitazione per materia o per oggetto nei confronti dei decreti in argomento.
Lo stato di pericolo estremo, quindi, può essere revocato dal solo governo che deve stabilire quando non sussistano più le condizioni per il suo mantenimento.
La legge cardinale che in un primo momento era stata ritenuta pertinente per il caso della pandemia è la legge CXXVIII del 2011 sulla protezione dalle catastrofi, ove si trova un riferimento esplicito alle pandemie virali. Su queste premesse il governo ha dichiarato lo stato di pericolo estremo con il decreto 40/2020 dell’11 marzo. Ma alcuni decreti settoriali d’urgenza, adottati in forza di questo provvedimento, hanno fatto in modo che si rendesse necessario un nuovo fondamento per il potere normativo emergenziale. Il 30 marzo il Parlamento ha approvato, e il Presidente della Repubblica immediatamente promulgato, un’altra legge in gran parte cardinale ad hoc, la legge XII del 30 marzo sulla protezione dal coronavirus.
Essa prevede due nuove fattispecie criminose destinate a durare anche oltre la cessazione dello stato di pericolo. La prima è quella che, istituendo l’art. 322 A del codice penale, punisce con un numero variabile da uno a otto anni di reclusione, a seconda di varie circostanze, l’ostacolo o l’impedimento di misure per l’isolamento epidemiologico o la quarantena di persone che potrebbero diffondere malattie infettive o l’ostacolo all’implementazione di misure fitosanitarie e veterinarie per bloccare la diffusione delle stesse patologie. Ma è la seconda misura che provoca maggiore allarme. Essa, modificando l’art. 337 del codice penale, sanziona con pene detentive da uno a cinque anni, «chiunque di fronte a un grande pubblico diffonda notizie false o verità distorte in merito ad una emergenza, in modo suscettibile di creare un grave allarme o tenga comportamenti tali da impedire o ostacolare l’efficace protezione generale contro tali stati di emergenza». Si deve in primo luogo evidenziare la formulazione ampia e piuttosto vaga di tali reati, tale da assegnare molta discrezionalità soprattutto alla pubblica accusa legata all’attuale esecutivo. Si deve, inoltre, temere che queste modifiche determinino la definitiva intimidazione al sistema di informazione indipendente, anche privato, già molto collaborativo grazie a concentrazioni oligarchiche e alla regolazione del mercato pubblicitario. Tale normativa non è presente in Italia, laddove il comportamento dei cosiddetti negazionisti non è puntualmente disciplinato e si ritiene che in tale fattispecie debba farsi riferimento ai reati di istigazione a delinquere e di epidemia colposa.
Per quanto concerne gli aspetti organizzativi, l’art. 3, terzo comma, ratifica i decreti adottati a seguito della proclamazione dello stato di pericolo e prima dell’entrata in vigore della legge stessa; con il primo comma, poi, autorizza il governo a estendere l’applicazione dei decreti per tutta la durata dello stato di pericolo ciò che in effetti non sembra vietato dalla Legge Fondamentale, la quale al comma 3 dell’art. 55 stabilisce la durata quindicinale dei decreti deliberati dal governo, ma non fissa limiti temporali espliciti alla proroga concessa dal Parlamento, ma pone dubbi agli atti adottati in futuro. La legge riserva, però, al parlamento – secondo comma art. 3 – la facoltà di revocare l’autorizzazione prevista al primo comma, prima che lo stato di emergenza sia a sua volta revocato.
Per quanto riguarda i rapporti con il Parlamento, la legge XII si limita genericamente a statuire – art. 4 – un obbligo di informazione regolare da parte del governo, da riferirsi alla sua sede plenaria, come a contrario si ricava dal fatto che, in assenza di sedute parlamentari, i soggetti da informare obbligatoriamente sarebbero il solo speaker e i presidenti dei gruppi parlamentari. Da questo punto di vista, la norma appare neutra, nel senso che non determina di per sé la sospensione di alcuna attività parlamentare, ma neanche prevede un coinvolgimento continuo o rafforzato dell’assemblea elettiva durante o a causa dello stato di emergenza.
Nelle intenzioni del legislatore, l’ipotesi restrittiva dell’informazione dovrebbe essere limitata ai periodi fuori sessione o a una situazione in cui la diffusione del virus fosse così grave da determinare un impedimento duraturo di un numero elevatissimo di parlamentari; ma non si può escludere che siano tentate operazioni opache tramite i decreti di attuazione a cui è lasciato notevole spazio, senza tenere conto di autolimitazioni compiacenti del Parlamento stesso già in atto. Analoghe considerazioni valgono per la Corte costituzionale, di cui l’art. 5 cerca di assicurare la massima operatività possibile, anche prevedendo strumenti di comunicazione elettronici da remoto e deroghe procedurali che vengono comunque rimessi all’autonomia regolamentare del suo presidente.
Si osserva, poi, che l’art. 6 disciplina la materia elettorale, stabilendo la sospensione e il rinvio a dopo la cessazione dello stato di pericolo di tutti i procedimenti elettorali e referendari già in atto, ma anche di quelli non ancora indetti (le elezioni politiche a scadenza naturale dovrebbero svolgersi nella primavera del 2022, mentre l’art. 8 stabilisce che la decisione in merito all’eventuale abrogazione della legge potrà essere presa a seguito della cessazione della situazione straordinaria). Ma è il governo a decidere su quest’ultimo aspetto. Stando al tenore letterale della legge, quindi, due questioni importanti, concernenti i diritti politici fondamentali dei cittadini e la possibilità per il Parlamento di legiferare sono vincolate e subordinate ad una decisione governativa, che per volontà della Costituzione non ha limiti di tempo.
I fatti ci dicono, poi, che da un decennio il potere di Orban e del suo partito sul paese è incontrastato, per lo meno nella misura in cui il fenomeno politico è in grado di incidere sulla vita dei cittadini. E questo è avvenuto in un Parlamento in cui il partito Fidesz ha costantemente mantenuto la maggioranza di oltre i due terzi dei seggi senza che sia pervenuto dall’assemblea alcun freno lungo il percorso politico del premier. Anche per quanto riguarda il processo elettorale, non sembra che ci possa essere un interesse immediato a sopprimerlo e soffocarlo. A dispetto delle recenti elezioni amministrative, che hanno fatto discutere per il successo delle opposizioni democratiche a Budapest e in altre città, tutto lascia intendere che Fidesz mantenga a livello nazionale una salda maggioranza.
A questo punto sorgono i dubbi su uno stato di emergenza a tempo indeterminato. L’indeterminatezza nel tempo, infatti, è ciò che rende possibile che lo stato possa essere revocato se rimangono in piedi quelle certezze che si nascondono dietro i presunti veri motivi della sua introduzione; mentre è possibile mantenere l’emergenza in vigore se quelle certezze (consenso elettorale, docilità del Parlamento) dovessero venir meno, cercando continui nuovi pretesti possibili.
Le elezioni presidenziali in Polonia in tempo di coronavirus
La Costituzione polacca del 1997 contiene alcuni articoli che disciplinano gli stati di emergenza, sebbene con minore precisione di quella ungherese e, uno di questi, il 232, contiene i presupposti di fatto e di diritto e le limitazioni all’esercizio dei relativi poteri. E’ precisamente di questo strumento che il governo polacco, capeggiato da Mateusz Morawiecki, non ha inteso usufruire.
Fin quando le dimensioni dell’epidemia potevano sembrare in Polonia trascurabili, l’orientamento dominante era quello di far svolgere le elezioni come se nulla fosse accaduto. Il paradosso è che in tempo di pandemia sono stati i candidati delle opposizioni a invocare il rinvio delle elezioni presidenziali già indette per il 10 maggio scorso e a rivolgersi al governo perché introduca lo stato di calamità naturale, senza il quale le elezioni non possono essere rinviate. Uno stato che, secondo l’art. 232 della Costituzione può durare fino a 30 giorni, ma è prorogabile previa autorizzazione del Sejm (parlamento) e impone di sospendere ogni tipo di votazione pubblica fino a novanta giorni dalla sua cessazione, mentre la legge di attuazione dello stato di calamità naturale risale al 2002. Per converso, è stato il partito di governo (PiS, “Diritto e giustizia) a voler procedere con le elezioni. Quando si è constatato che l’aggravamento del contagio era inevitabile, si è affacciata l’idea delle elezioni per corrispondenza, dal momento che la sospensione del relativo procedimento era improponibile.
In una prima legge del 31 marzo 2020 per fronteggiare il versante economico dell’emergenza era stato inserito il voto per corrispondenza limitato ai soggetti posti in quarantena obbligatoria e agli ultrasessantenni individuati come categoria a rischio. Le rimostranze dei movimenti politici e di opinione hanno indotto rapidamente il PiS a tornare sui suoi passi e a generalizzare in forma obbligatoria il voto per corrispondenza già rimosso dalla legislazione elettorale due anni prima con la motivazione che questa modalità espressione di voto diminuiva le garanzie sul piano della segretezza e della fedeltà dello scrutinio.
Il provvedimento prevedeva che le tradizionali sezioni elettorali, o commissioni elettorali di sezione, nel numero di 27.400 alle ultime elezioni politiche, formate con il coinvolgimento degli enti locali e che in un quarto di secolo hanno dato prova di affidabilità, sarebbero state sostituite da un numero molto più ristretto di sezioni elettorali comunali i cui membri avrebbero dovuto essere indicati dai candidati di riferimento alle stesse elezioni presidenziali secondo un criterio paritario. Già nel gennaio 2018, con effetto dal novembre 2019, erano state demolite le basi di un’amministrazione elettorale indipendente. Con effetti dalla fine dello scorso anno, infatti, i nove membri della Commissione elettorale nazionale non sono più selezionati in ragione di tre ciascuno tra i giudici della Corte suprema, del Tribunale costituzionale e del Supremo tribunale amministrativo, ma devono essere eletti in ragione di uno tra i membri del Tribunale costituzionale, uno del Supremo tribunale amministrativo e sette deputati del Sejm. Così è stato assicurato al partito dominante una posizione di predominio.
La proposta di legge precisava al suo articolo 1 di costituire una deroga alla disciplina generale delle elezioni presidenziali, contenuta negli artt. 287-327 del codice elettorale, la quale rimane in vigore. L’art. 3 costituiva il cuore di questa disciplina elettorale speciale e prevedeva che l’operatore indicato nella legge 23 novembre 2012, in sostanza la posta polacca, era incaricato di tutte le operazioni necessarie a recapitare presso il domicilio di ogni elettore, possibilmente nella casella postale, il plico elettorale necessario per le operazioni di voto, che si sarebbero dovute compiere tra le 6 e le 20 della giornata per cui le elezioni sono indette. Il plico era costituito da una busta principale, dalla scheda elettorale su cui esprimere il voto, da un foglio recante le istruzioni, da un altro foglio con dichiarazione precompilata attestante che l’elettore ha votato in modo personale e segreto, dichiarazione che però l’elettore deve completare aggiungendo la propria sottoscrizione, i dati anagrafici e il codice PESEL (codice fiscale) e infine due buste da restituire. Una volta espresso il voto, l’elettore avrebbe dovuto inserire la scheda in una busta più piccola, che avrebbe dovuto sigillare e avrebbe dovuto poi inserire quest’ultima, insieme alla dichiarazione compilata e firmata, nella busta più grande. L’elettore avrebbe dovuto, poi, di persona – o con l’intermediazione di altra persona non meglio precisata – recapitare quest’ultima busta presso una cassetta postale appositamente predisposta in ciascuno dei 2477 Comuni di cui è composto il Paese. I membri di ciascuna Commissione elettorale comunale avrebbero dovuto aprire la busta principale, inserire in un’urna le buste più piccole, ancora chiuse, contenenti la scheda elettorale, dopo aver accertato che fosse presente la dichiarazione validamente sottoscritta, che doveva essere archiviata a parte.
Le commissioni elettorali di sezione, già formate per legge, sarebbero state sciolte di diritto. La composizione delle commissioni elettorali comunali straordinarie era definita dall’art. 120 della proposta di legge. Al fine di dare riguardo al peso demografico dei singoli Comuni, è stato un criterio di proporzionalità regressiva, da un minimo di tre a un massimo di 45 componenti per ciascuna commissione comunale, con possibilità di ricorrere al sorteggio ove il numero dei candidati sia superiore a quello dei componenti. Le attività necessarie alla formazione di queste commissioni sarebbero state affidate a commissari a ciò delegati dal voivoda, che nell’ordinamento polacco rappresenta il governo centrale all’interno dei sedici voivodati, con poteri sostanzialmente prefettizi. In definitiva il processo elettorale è stato sottratto nei suoi aspetti principali alla Commissione elettorale nazionale e affidato all’esecutivo. Sarebbe spettato ai commissari definire le sedi di ogni commissione elettorale, ma le autorità municipali avrebbero avuto l’obbligo di mettere a disposizione le sedi necessarie. Inoltre, avrebbero dovuto predisporre e mettere a disposizione di tutti i membri di ciascuna commissione elettorale, in quantità sufficiente, i «mezzi di protezione personali necessari a fronteggiare l’epidemia Covid-19». Questa norma è rilevante se si considera che moltissimi Sindaci, non solo quelli legati alle opposizioni, avevano espresso ostilità all’organizzazione della stessa consultazione, temendo per i rischi sanitari, subendo anche pressioni e minacce da parte di esponenti del partito dominante. Erano previste sanzioni penali fino a tre anni di detenzione per chi si fosse impossessato della scheda elettorale o della dichiarazione altrui o le avesse presentate alterate o contraffatte nella casella postale, mentre veniva ritenuto soggetto a sanzione pecuniaria chi avesse aperto senza averne diritto il plico elettorale o le buste elettorali di ritorno.
Molti dubbi sono stati espressi con riferimento alla reale libertà e segretezza del voto, dal momento che la legge lasciava spazi per abusi soprattutto domestici, quantomeno teorici, senza contare le difficoltà possibili per gli elettori residenti all’estero. Sono state poi create le basi per le contestazioni dei risultati, la cui validità in Polonia è dichiarata dalla Corte suprema; ma proprio questa è nell’occhio del ciclone per le modifiche alla sua composizione: ad accertare la validità delle elezioni avrebbero dovuto essere i giudici della sezione di controllo straordinario e degli affari pubblici, di nuova istituzione e interamente composta di giudici selezionati – sia pure indirettamente – dal partito di governo.
Inoltre, un’altra norma di rilievo è quella che prevedeva la possibilità, qualora sia stato dichiarato sul territorio nazionale lo stato di epidemia, di rinviare ad altra data lo svolgimento delle elezioni presidenziali già indette con precedente decreto, a condizione che tale data rientri nei termini previsti dalla Costituzione. Ora, poiché la Costituzione, all’art. 128, stabilisce che le elezioni presidenziali devono essere indette per una data non anteriore a 100 e non successiva a 75 giorni prima della scadenza del mandato del presidente in carica, e poiché in concreto tale scadenza è avvenuta il 6 agosto, ne consegue che vi sarebbero stati i tempi costituzionali di tutti i relativi procedimenti molto avanzati per svolgere le elezioni anche il 17 maggio, anziché il 10 maggio, data già scelta fin dallo scorso febbraio, con l’avvio conseguente di tutti i relativi procedimenti ormai molto avanzati.
Tale previsione era dovuta ad implicazioni giuridiche e al tempo stesso politiche. Infatti, tutte le iniziative di legge, approvate dalla Camera bassa, devono essere trasmesse al Senato, che può esaminarle per modificarle, respingerle o rinviarle invariate al Sejm entro il termine di trenta giorni dalla data in cui l’iniziativa gli è pervenuta. Nelle ultime elezioni politiche dell’ottobre 2019, il cartello informale delle opposizioni democratiche, centriste e di sinistra, è riuscito a conquistare al Senato una maggioranza risicata (51 contro 49 seggi, tenendo conto di alcuni indipendenti in entrambi gli schieramenti). Anche se una sua reiezione può essere superata a maggioranza dei voti dalla Dieta, era stato messo in conto che il Senato avrebbe usato tutto il tempo a sua disposizione per riflettere; ciò è avvenuto con il voto contrario del Senato il 5 maggio. Ma ragioni politiche hanno portato comunque la Camera bassa ha riapprovare la legge il giorno successivo e lasciarla promulgare. Intanto, nella disattenzione generale, il 17 aprile è entrata in vigore una norma che paralizza le attività della Commissione elettorale nazionale impedendole, qualora non fosse entrata in vigore a sua volta la legge sulle elezioni per corrispondenza, anche di svolgere alcune attività preparatorie per procedere con le elezioni secondo il metodo ordinario il 10 maggio. Si tratta dell’art. 102 di una legge omnibus sulle misure per ammorbidire le conseguenze economiche del Covid-19, il c.d. secondo scudo-anticrisi (fase due in Italia).
Ma le elezioni del 10 maggio non si sono comunque potute svolgere, per insormontabili difficoltà tecniche (nonostante l’immediata emanazione dei regolamenti non c’è stato il tempo materiale per la formazione delle commissioni elettorali) e con un danno erariale dovuto alla stampa di trenta milioni di schede rimaste inutilizzate. Sono ora in discussione le responsabilità penali e costituzionali sia per il mancato svolgimento in assoluto delle elezioni sia per le attività preparatorie poste in essere e, quasi, portate a termine, in mancanza di un’autorizzazione legislativa. La Commissione elettorale nazionale, constata “l’impossibilità di votare per dei candidati”, ha stabilito di applicare per analogia una norma del codice elettorale che comporta che le elezioni siano di nuovo indette e il processo elettorale ricominci, nell’ipotesi del tutto improbabile che non si siano presentati candidati, togliendo così di imbarazzo la Corte suprema, che non dovrà pronunciarsi su eventuali ricorsi, dal momento che questi possono riguardare solo «l’elezione del Presidente» e non le elezioni presidenziali in generale.
Su queste premesse, la ritrovata concordia di maggioranza, con la collaborazione di una parte delle opposizioni, ha permesso l’avvio di una nuova proposta di legge per svolgere le elezioni presidenziali del 2020 con una formula ibrida, con le sezioni tradizionali come regola e la possibilità alternativa di esprimere il voto per corrispondenza come eccezione per chiunque ne faccia richiesta alle autorità competenti entro dodici giorni dalla data del voto. Per la gestione del processo elettorale è stata ripristinato il ruolo della Commissione elettorale nazionale. Si riconoscono, inoltre, i diritti acquisiti dei candidati già presentati, esentandoli dalla raccolta delle firme che sarebbe stata altrimenti doverosa, ma è stata consentita la presentazione di nuovi candidati.
In effetti, la legge «sui criteri particolari per le elezioni presidenziali indette per l’anno 2020, inclusa la possibilità di voto per corrispondenza» è stata promulgata il 2 giugno scorso, dopo un iter simile a quello della legge precedente, ma con una minore pausa di riflessione da parte del Senato, che questa volta è stato più collaborativo. Nella legge non mancano, però, aspetti problematici, al di là dell’anomalia generale di una situazione in cui, per la prima volta dal 1989, un turno elettorale non ha potuto svolgersi. Tra questi lo sviluppo dell’epidemia, che dopo un contenimento a maggio, è di nuovo tornato a crescere da inizio giugno, con diverse centinaia di contagiati accertati al giorno, soprattutto tra i minatori della Slesia e nella capitale oltre che nelle residenze assistite per anziani. Una norma della legge (art. 15, comma 5) consente alla Commissione elettorale nazionale, su proposta del Ministro della sanità di sospendere le elezioni con metodo tradizionale ed imporre erga omnes il procedimento per corrispondenza nei Comuni sul cui territorio si sia verificato un improvviso peggioramento delle condizioni epidemiologiche-sanitarie. Si tratta di una discriminazione giustificabile in astratto, ma che in concreto avrebbe rischiato di dar luogo ad un’alterazione del procedimento a fini politici.
L’emergenza sanitaria in corso ha fatto della Polonia un banco di prova dei fondamenti più elementari della democrazia, le elezioni, proprio in una fase storica in cui la democrazia in senso liberale subisce un ulteriore logoramento. Tale esperienza è stata, poi, ripetuta in Italia con le elezioni del 20 e 21 settembre, con risultati indubbiamente positivi per il funzionamento della macchina elettorale. La mancata dichiarazione di uno degli «stati straordinari» (stany nadzwyczajne) previsti dal capitolo XI della Costituzione, quando vi sarebbero state tutte le condizioni per proclamarlo, da un lato rende dubbie dal punto di vista costituzionale le aspre misure di contenimento che sono consistite sostanzialmente in una normativa secondaria fondata solo sulla legge del 5 dicembre 2008 sulla prevenzione e il contenimento delle infezioni e delle malattie infettive; ma dall’altro stride con la pretesa di normalità che ha voluto lo svolgimento di elezioni ad ogni costo, sia pure con nuove modalità. Come è stato efficacemente osservato, “le restrizioni attualmente in vigore aggirano in gran parte la riserva di legge e sono a tempo indeterminato”.
A seguito delle elezioni svoltesi il 28 giugno e il 12 luglio 2020, il presidente polacco uscente Andrzei Duda, esponente del partito nazionalista, Diritto e Giustizia, in carica dal 2015, ha battuto al ballottaggio il liberale Rafal Trzaskowski, con circa 500mila voti di differenza tra i due candidati.
Conclusioni
In generale, questa vicenda fornisce ulteriori spunti di riflessione su alcuni connotati delle cosiddette “democrazie illiberali”. Esse hanno un rapporto utilitaristico e strumentale anche con il momento elettorale che è parte integrante di una democrazia compiuta. Da questo punto di vista, il contrasto tra ciò che avviene attualmente in Polonia con i fatti coevi dell’Ungheria, dove le elezioni sono annullate o sospese di fatto a tempo indeterminato, per volontà del governo e finchè esso resterà di questo avviso, è una contraddizione solo apparente. In quest’ultimo paese il processo elettorale è appunto sospeso, ma l’arbitrarietà della sua sospensione si rinviene nel fatto che quest’ultima possa essere revocata quando i titolari del potere si sentiranno sicuri di poter riportare un nuovo successo, mentre potrebbe essere mantenuta, con pretesti, qualora dovessero temere mutamenti di orientamento degli elettori.
Il piano polacco-ungherese improntato all’opportunismo politico dell’Unione Europea era già stato sancito nel 2016, proprio nei Carpazi. In quell’incontro storico i due paesi unirono le rispettive retoriche sulle politiche anti-migranti che li avrebbero portati a erigere muri di filo spinato e a condurre campagne elettorali foriere di nuovi limitazioni delle libertà individuali, a partire da quella di stampa. Tutto questo per giustificare una deriva che non ha nulla a che fare con un unione di intenti europeista, ma solamente con istanze opportunistiche legate all’accaparramento dei fondi strutturali europei. Inoltre, i due governi non brillano sui diritti civili delle donne. Infatti, il parlamento di Varsavia ha approvato due leggi: una prevede ulteriori restrizioni all’aborto, mentre l’altra intende criminalizzare gli educatori sessuali, accostandoli ai pedofili
In Italia, certamente la pandemia si inserisce in maniera ingombrante nel sistema Paese e della pubblica amministrazione, già atavicamente in una situazione di difficoltà strutturale e funzionale, ma ha assunto caratteristiche certamente più democratiche rispetto ai due paesi in questione, nonostante, come visto, che lo stato di emergenza sia stato prorogato al 31 gennaio 2021.
Deve, anche, rilevarsi che in Italia l’emergenza Coronavirus ha contribuito a rendere possibile un passaggio epocale, in quanto finalmente si sta cercando di attuare le disposizioni in un’ottica non solo formalistica, ma con riguardo ai servizi resi ai cittadini ed al risultato, garantendo, pur con il ricorso a forme di lavoro agile, servizi pubblici essenziali, quali sanità, istruzione, protezione civile, sicurezza, infrastrutture, trasporti, interventi per la sicurezza del lavoro. Certo, bisognerà mettere in conto anche le limitate disponibilità delle risorse, ma a queste si potrà sopperire, almeno in parte, con gli ingenti fondi europei in arrivo (MES e Recovery fund).
Sarà, però, necessario lo sforzo di tutti gli attori istituzionali, ma anche di tutti i cittadini, per controllare l’attività governativa e rendere pienamente operativo il tentativo di semplificare anche il funzionamento degli enti pubblici e privati al servizio della collettività in ossequio ai dettati della nostra Carta costituzionale.
Solo così si potrà stimolare lo sviluppo dell’economia ed evitare il dominio o l’eccessivo potere della pubblica amministrazione, con l’improduttiva pedanteria delle consuetudini, delle forme, delle gerarchie e, soprattutto, superare l’insidia ai principi giuridici ed economici messi in grave pericolo dalla pandemia.
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