L’investitore che intende far valere l’inadempimento contrattuale, a fronte del mancato obbligo informativo gravante sull’intermediario finanziario, è tenuto, secondo la regola generale in materia di obbligazioni, ad allegare l’inadempimento dell’Istituto di credito

La Sezione I Civile della Corte di Cassazione, con sentenza del 07.01.2020, n. 10497, depositata in data 03.06.2020., pronunciandosi in merito all’obbligo informativo gravante sull’intermediario finanziario, ha affermato che, in ossequio alla regola generale che impone al creditore che agisce nei confronti della controparte di allegare l’inadempimento, l’investitore è tenuto ad allegare la violazione degli obblighi informativi in cui è incorso l’intermediario, ai fini di garantire a quest’ultimo la possibilità di assolvere correttamente al proprio dovere probatorio.

Normativa di riferimento: Art. 23 TUF.

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Il fatto.

La pronuncia di cui in commento trae origine dal procedimento promosso con atto di citazione avanti al Tribunale di Bologna dagli eredi del contraente nei confronti dell’Istituto di Credito, avente ad oggetto contratti di compravendita di titoli azionari, obbligazionari, e, più in generale, tutti i contratti sottoscritti nel corso degli anni tra il de cuius e il medesimo Istituto di Credito.

A conclusione del secondo grado di giudizio, la Corte d’Appello di Bologna, a conferma di quanto affermato nella sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Bologna, respingeva tutte le domande attoree.

In particolare, era stata respinta: la domanda di nullità, per difetto di forma scritta o pubblicità ingannevole, di tutti i contratti di compravendita relativi a titoli azionari, obbligazionari e di altra natura sottoscritti dal defunto nell’ambito di un contratto, qualificato dalla parte attrice come contratto di gestione dell’investimento e non come mero deposito di titoli e valori; la conseguente domanda di restituzione di tutte le somme, a diverso titolo investite, dal defunto contraente; la domanda volta ad ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali.

Il Tribunale di Bologna ha infatti ritenuto non provata l’esistenza di un contratto di gestione, essendovi unicamente prova della sottoscrizione da parte del de cuius di due contratti-quadro di deposito, custodia ed amministrazione, validi e pienamente descritti.

Per quanto concerne invece i singoli ordini di investimento impartiti all’intermediario, successivamente alla sottoscrizione dei contratti-quadro, il Tribunale rilevava che, in merito alla predetta tipologia di operazioni finanziarie, non è prescritto dalla legge, a pena di nullità, l’obbligo di forma scritta.

Il Giudice di primo grado aveva inoltre escluso l’annullabilità dei contratti-quadro per pubblicità ingannevole, risultando, dai documenti prodotti in giudizio, che il servizio di consulenza pubblicizzato dall’Istituto di credito era stato erogato successivamente alla sottoscrizione degli stessi ad opera del defunto contraente e risultava pertanto irrilevante.

Allo stesso modo non risultava provata la nullità virtuale di cui all’art. 1418 c.c. per presunta violazione da parte dell’Istituto di Credito degli obblighi informativi in merito alle operazioni contestate.

Il Tribunale rilevava ancora la carenza di allegazione probatoria in ordine agli specifici investimenti oggetto di doglianza, affermando che, in ogni caso, durante il rapporto in essere con l’Istituto di Credito, il de cuius si era sempre qualificato quale investitore con un’alta propensione al rischio.

Infine, le domande di risoluzione del contratto e di risarcimento del danno patrimoniale, erano state ritenute inammissibili, in quanto tardivamente formulate, e non provata la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale.

La Corte d’Appello di Bologna, uniformandosi alla posizione assunta dal Giudice di prime cure, respingeva le doglianze degli appellanti in ordine all’erronea interpretazione dell’art. 23 TUF, alla errata valutazione dell’efficacia confessoria dell’autodichiarazione del de cuius, attestante un’alta propensione al rischio, alla errata tardività delle domande di risoluzione del contratto e di risarcimento del danno formulate ed infine in ordine alla mancata valutazione dell’inadeguatezza degli investimenti da parte dell’Istituto di Credito.

I motivi del ricorso in Cassazione.

I ricorrenti proponevano ricorso in Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Bologna adducendo tre motivi a sostegno della loro tesi.

Con il primo motivo, i ricorrenti lamentavano la violazione e la falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. in relazione all’art. 23 TUF e agli artt. 21-26 dlgs 58/1998 e 28 co. 1 e 29 Regolamento Consob n. 11522/1998, per non aver la Corte d’Appello correttamente valutato l’onere probatorio in capo all’Istituto di Credito, contestandosi la statuizione di genericità delle allegazioni di parte attrice, atteso che, dalle reciproche allegazioni delle parti, emergeva chiaramente il perimetro della controversia, avente ad oggetto la violazione da parte dell’intermediario dei doveri di informazione e di segnalazione dell’inadeguatezza delle operazioni finanziarie.

L’art. 23 TUF stabilisce infatti che i contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento e, qualora previsto, i contratti relativi alla prestazione dei servizi accessori, debbano essere redatti per iscritto in conformità a quanto previsto dalla Direttiva europea 2014/65/UE, con consegna di un esemplare ai clienti. L’obbligo della forma scritta può essere derogato dalla Consob, mediante lo strumento del regolamento, qualora, per motivate ragioni o per la natura professionale dei contraenti, particolari tipologie contrattuali possano o debbano essere stipulate in altra forma, sempre assicurando nei confronti del cliente un appropriato livello di garanzia.

Tenuto conto che la forma scritta o altra forma prevista in via regolamentare è elemento posto a tutela del cliente, l’inosservanza della forma prescritta è causa di nullità del contratto.

Con il secondo motivo, i ricorrenti denunciavano la violazione o la falsa applicazione degli artt. 28 co. 1 e 29 del Regolamento Consob 11522/1998 per non avere la Corte d’Appello rilevato che sull’Istituto di Credito gravava l’obbligo di astenersi dall’effettuare operazioni per conto dell’investitore non adeguate per tipologia, oggetto, frequenza o dimensione, riproponendo la tesi del mancato avvertimento da parte dell’intermediario circa l’inadeguatezza delle operazioni ordinate dal cliente.

Con il terzo motivo, i ricorrenti lamentavano la falsa applicazione degli artt. 112 e 115 c.p.c. per avere il Giudice di seconde cure erroneamente ritenuto tardiva la domanda di risoluzione del contratto nonché quella di risarcimento del danno patrimoniale, trattandosi di domande enucleabili dal corpo dell’atto introduttivo.

La pronuncia della Corte di Cassazione.

La Suprema Corte ha ritenuto i primi due motivi, da trattare congiuntamente, in parte infondati e in parte inammissibili.

La Corte di Cassazione, nel rigettare i primi due motivi, ha affermato che gli attori, pur avendo correttamente interpretato il significato dell’art. 23 TUF ed il riparto dell’onere probatorio tra investitori e intermediario finanziario, erano incorsi in una non corretta e precisa allegazione delle specifiche operazioni per le quali veniva asserito un inadempimento da parte dell’Istituto di Credito.

Gli attori infatti, pur avendo sostenuto che tra le parti originarie era intercorso un contratto di gestione, si erano limitate a contestazioni generiche senza indicare né provare quali sarebbero state concretamente le operazioni poste in essere dall’Istituto di Credito in violazione dei propri obblighi comportamentali.

La Suprema Corte rilevava pertanto come fosse già sceso il giudicato sulla statuizione effettuata dal giudice di primo grado in ordine alla validità e alla regolarità dei contratti-quadro, così come in riferimento al difetto di prova in merito all’esistenza di un rapporto di gestione.

In merito alla carenza probatoria in cui era incorsa la parte attrice, la Corte d’Appello di Bologna aveva già evidenziato come gli attori non avessero neanche provveduto ad indicare quali fossero le operazioni oggetto della domanda, adempimento che non poteva ritenersi soddisfatto dagli ordini di investimento prodotti dalla convenuta e peraltro non ridepositati, dopo il ritiro del fascicolo di parte, circostanza non censurata dagli appellanti, così come la non utilizzabilità della relativa documentazione.

La Corte di Cassazione, uniformandosi alla decisione assunta dal Giudice di secondo cure, ha ricordato il principio già enunciato con la pronuncia n. 10111 del 2018 nella quale si afferma che: “con particolare riferimento agli obblighi informativi merita sottolineare che nessuna deroga sussiste rispetto alla regola generale che impone al creditore il quale agisca per l’inadempimento della controparte di allegare l’inadempimento”, cosicché “spetta dunque in primo luogo all’investitore dedurre l’inadempimento consistente nella violazione degli obblighi informativi ai quali l’intermediario è tenuto”.

Ne deriva che, in assenza di una puntuale allegazione probatoria, l’intermediario risulta impossibilitato ad assolvere correttamente al proprio dovere probatorio che, pur essendo certamente a suo carico, scaturisce solo dopo la corretta indicazione dell’inadempimento da parte dell’attore.

Avendo nel caso di specie la Corte di merito correttamente accertato la mancata specifica allegazione dell’inadempimento e l’assoluta genericità delle doglianze, la censura risulta infondata.

La genericità delle allegazioni degli attori in ordine alle operazioni ritenute pregiudizievoli non può non travolgere anche il secondo motivo di doglianza in ordine alla valutazione dell’inidoneità della dichiarazione dell’investitore, concernente le proprie conoscenze in ambito finanziario e/o la propria propensione al rischio, di annullare ogni ulteriore dovere dell’intermediario di fornire informazioni tali da garantire la diligenza della sua azione.

Peraltro, a tal proposito, la Corte d’Appello aveva già confermato la piena osservanza della normativa da parte dell’intermediario in occasione della stipulazione dei contratto-quadro, unitamente alla dichiarazione di consegna di un esemplare degli stessi e del documento sui rischi degli investimenti, nonché la compiuta sottoscrizione da parte del de cuius dei vari ordini di acquisto/vendita di strumenti finanziari, del tutto in linea con gli obbiettivi di investimento e l’alta propensione al rischio dal medesimo accettata.

Respinta la domanda di nullità, a cui unicamente si ricollegava la pretesa restitutoria, non poteva che derivare la conseguente statuizione di rigetto della pretesa restitutoria.

Anche il terzo motivo di doglianza è stato ritenuto in parte infondato e in parte inammissibile.

Innanzitutto, a detta Suprema Corte, essendosi il Giudice di seconde cure pronunciato in merito alle domande di risoluzione del contratto e di risarcimento del danno, non ricorre il vizio di omessa pronuncia.

I ricorrenti, secondo quanto affermato dalla Corte d’Appello, hanno avanzato in atto di citazione solo domande di nullità di tutti i contratti di compravendita dei titoli azionari, obbligazionari o di altra natura sottoscritti dalle parti, mentre solo, in sede di precisazione delle conclusioni, hanno richiesto la risoluzione dei predetti contratti e il conseguente risarcimento del danno patrimoniale da perdita economica subita, domande distinte aventi diversa causa petendi e diverso petitum rispetto a quelle formulate nell’atto introduttivo.

Trattandosi di domande nuove, considerata la diversità di causa petendi e di petitum, non possono che ritenersi inammissibili in quanto tardivamente formulate.

A tal proposito, con l’ordinanza n. 30699 del 2018, la Suprema Corte aveva già affermato che “la domanda proposta all’udienza di precisazione delle conclusioni deve ritenersi ritualmente introdotta in giudizio, per accettazione implicita del contraddittorio, qualora la parte verso la quale essa è rivolta non ne abbia eccepito, nella stessa udienza, la preclusione, non essendo utile allo scopo l’opposizione fatta in comparsa conclusionale”.

Nel caso di specie, avendo l’Istituto di Credito affermato in udienza di precisazione delle conclusioni di non accettare il contraddittorio in riferimento alla domanda di risoluzione contrattuale con conseguente risarcimento del danno patrimoniale, anche il terzo motivo di ricorso deve essere respinto.

Considerazioni finali.

Con la sentenza emessa dalla Sezione I Civile, n. 10497 del 2020, la Corte di Cassazione ha avuto modo di chiarire che, nell’ambito dei contratti di intermediazione finanziaria, ai fini di ottenere una pronuncia che accerti la violazione degli obblighi informativi gravanti sull’intermediario, il creditore, in ossequio alla teoria generale in materia di obbligazioni, non può esimersi dall’allegare l’avvenuto inadempimento, in quanto, fermo restando l’onere probatorio pendente in capo all’intermediario, quest’ultimo può assolvervi soltanto qualora sia identificato l’inadempimento che gli si attribuisce.

Diversamente, qualora non sia allegato con sufficiente chiarezza l’inadempimento, l’intermediario non è in condizione di poter azionare una compiuta difesa, circostanza che comporta inevitabilmente la caducazione della domanda formulata dall’investitore.

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Avv. Maria Laura Pesando

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