L’art. 230 bis, 4° comma, c.c. dopo aver stabilito l’intrasferibilità del diritto di partecipazione all’impresa familiare prevede che lo stesso possa essere liquidato in denaro, oltre che nell’ipotesi di alienazione di azienda, anche per qualsiasi altra causa di cessazione della prestazione di lavoro.
Sono varie le cause che possono comportare l’estinzione del rapporto di impresa familiare. Esse riguardano la cessazione dell’attività lavorativa per morte, per recesso dell’interessato, per impossibilità di prosecuzione della stessa, per esclusione per giusta causa oppure il verificarsi del venir meno del vincolo familiare, in caso di divorzio e annullamento del matrimonio (V. in senso contrario C.A. GRAZIANI, L’impresa familiare, 676, per il quale le vicende familiari successive non incidono sul rapporto di impresa familiare finché duri l’attività di lavoro continuativo).
L’ammontare della liquidazione che spetta al cessante, o ai suoi eredi, va computato in base alla quota di utili e di incrementi patrimoniali riferibili alla posizione del familiare, in funzione della qualità e quantità del lavoro svolto, tenuto conto anche del valore dell’avviamento e dei beni eventualmente acquistati con gli utili (Cfr. BALESTRA, L’impresa familiare, 1996, 311). Grava sul partecipante non soltanto la dimostrazione dell’esistenza del rapporto, ma anche la misura della quota di partecipazione ( v. Cass.16 aprle 1992, n. 4650, in Giur. it. I, 1, 1052 ). Soccorre al riguardo la presunzione semplice della “predeterminazione” delle quote astratte di partecipazione agli utili, ai fini fiscali.
Non si deve invece tenere in considerazione il diritto al mantenimento, che non rientra nel “diritto di partecipazione” , visto pure che la liquidazione del partecipante nulla ha in comune con l’indennità di anzianità spettante al lavoratore subordinato quando smette l’attività (Cfr. OPPO, Dell’impresa familiare, in Commentario al diritto italiano della famiglia, 1977,517; v. anche Trib. Firenze 28 giugno 1989, in Il Fallimento, 1990, 304, per cui il credito del partecipante non può essere parificato ad un credito di lavoro dipendente).
La valutazione della quota di liquidazione va riferita al momento in cui si verifica l’estinzione del rapporto, dovendosi considerare irrilevanti gli eventi successivi che incidono sul valore dell’azienda.
Il diritto del familiare cessante alla liquidazione della quota va inteso come diritto di credito nei confronti del titolare dell’impresa, non gravando invece l’obbligazione sui familiari partecipanti (v. Cass. 16 aprile 1992, n. 4650, cit., contra DI FRANCIA, Il rapporto di impresa familiare 1991, 437, per il quale l’obbligo grava su tutti i partecipanti ).
L’impresa familiare viene infatti considerata dalla prevalente dottrina e giurisprudenza come impresa individuale, avendo la partecipazione dei familiari rilevanza meramente interna. Solo il familiare-imprenditore, effettivo gestore dell’impresa, è responsabile dell’adempimento delle obbligazioni, risponde illimitatamente con i beni personali ed è soggetto a fallimento in caso di insolvenza.
Diversamente si è comunque espressa una corrente minoritaria ( v. , fra gli altri, A.M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia 1984, 1254, FLORIO; Famiglia e impresa familiare 1977, 53 ), che ha ravvisato la sussistenza di una impresa collettiva, affidata alla gestione di tutti i partecipanti, che assumono in proprio e solidalmente la responsabilità dei debiti contratti ( significativa in tal senso è la decisione del Trib. Rovereto 8 maggio 1987, in Riv. dir. comm. 1990,II, 317, che ha esteso il fallimento a tutti i familiari dell’impresa. La sentenza è stata cassata dalla Suprema Corte – Cass. 27 giugno 1990 n. 6559, in Giur. it. 1991, I, 1, 428 – che ha affermato esplicitamente la natura individuale dell’impresa familiare ) e diventano contitolari degli utili e del nuovo patrimonio. In questa prospettiva il diritto alla liquidazione della quota assume natura reale e permette l’esercizio dell’azione di rivendicazione.
La liquidazione della quota va effettuata in denaro, a meno che gli interessati concordino una liquidazione in natura, oppure optino per la conservazione della partecipazione in termini puramente patrimoniali ( v. OPPO, cit., 518, COLUSSI, Impresa familiare, in Noviss. Dig. It. 1983, vol IV, 82).
L’art. 230 bis prevede la possibilità di rateizzazione della somma da corrispondere. Il pagamento frazionato nel tempo va considerato un diritto potestativo del familiare titolare ( diversamente OPPO, cit., 518, per cui la dilazione può essere concessa dal familiare all’imprenditore ), anche a salvaguardia degli interessi degli altri partecipanti. La liquidazione della partecipazione, infatti, comporta un esborso che può pregiudicare l’equilibrio finanziario dell’impresa, tanto più lo stesso è elevato in rapporto alla situazione del patrimonio aziendale, potendo anche il certi casi determinare la cessazione dell’attività economica.
Soltanto in caso di disaccordo sulle modalità di adempimento, le stesse verranno fissate dal giudice, il quale potrà anche gravare di interessi la dilazione di pagamento.
Può configurarsi anche l’ipotesi per cui vada disposta la liquidazione della partecipazione, nonostante che il familiare continui a svolgere il proprio lavoro nell’impresa. Ciò si verifica quando l’azienda venga alienata dal titolare ad un altro familiare, anziché ad un terzo estraneo. La disposizione mira a tutelare al meglio il familiare lavoratore, che altrimenti potrebbe vedere pregiudicati i suoi diritti, se la nuova gestione si dimostrasse meno valida di quella precedente ( Cfr. DOGLIOTTI-FIGONE, Impresa familiare, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, Il diritto di famiglia, tomo II, 1999, 621).
Nulla andrà corrisposto al partecipante quando l’attività d’impresa cessi per fallimento, essendo pari a zero, in tal caso , il valore della partecipazione.
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