L’applicazione della legge penale nel tempo
Il legislatore, al fine di garantire un’ampia tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, ha dettato una minuziosa disciplina relativamente a quello che taluna dottrina definisce come il profilo dinamico della legge penale ovvero l’applicazione della legge penale nel tempo.
Giova sin da subito focalizzare l’attenzione sui principi che reggono tale ambito, i quali si identificano nella irretroattività della legge penale e nella retroattività della lex mitior.
Per quanto riguarda il primo, esso è definibile quale corollario del principio di legalità, a tenore del quale le norme penali non possono che trovare applicazione, in via esclusiva, per le sole condotte poste in essere successivamente alla loro emanazione, estromettendo, categoricamente l’applicazione retroattiva delle stesse (e quindi l’incriminazione delle condotte ante atte).
Questo principio, quindi, si lega a doppio filo ai principi di libertà personale e di autodeterminazione di rango costituzionale, visto che solo la preventiva conoscenza delle disposizioni informanti l’ambito penale consente a ciascuno dei consociati di orientare le scelte in ordine al tipo di atteggiamento da assumere.
D’altra parte, l’affermazione del principio in parola è ascrivibile alla logica “reocentrica” (piuttosto che vittimocentrica) che ha ispirato la costruzione dell’ordinamento.
Numerose sono le fonti poste a fondamento della sua affermazione, sia interne sia di rango sovranazionale.
Tra le fonti interne è dato distinguere tra fonti primarie (rectius:costituzionali) e leggi ordinarie; le prime ricomprendono l’art 25 co 2 cost, che esclude la punibilità se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.
Le leggi ordinarie di riferimento, invece, sono: l’art 11 delle disposizioni preliminari al codice civile e l’art 2 co 1 c.p.
Le fonti sovranazionali contenenti questa regola giuridica sono l’art 7 Cedu, rubricato “nessuna pena senza legge”, l’art 49 della Carta di Nizza, l’art 15 del Patto Internazionale relativo ai diritti civili e politici.
Per quanto attiene, invece, al principio della retroattività della lex mitior se ne può specificare la portata avendo, dapprima, cura di definirne l’oggetto ossia quando una legge merita l’etichetta di “più favorevole”. Attenta dottrina ha individuato tre profili d’indagine: in primo luogo, dovrà essere esaminata la cornice edittale appositamente prevista, risultando lex mitior la norma dalla forbice edittale più contenuta; intimamente connesso a tale aspetto vi è quello relativo alla prescrizione, secondo cui la legge più favorevole al reo è quella che comporta un termine di prescrizione più breve ed in ultimo va analizzata la richiesta di condizioni di procedibilità piuttosto che la previsione della procedibilità d’ufficio, in quanto solo nella prima ipotesi l’eventuale carenza della condizione richiesta genererà un esito assolutorio per l’imputato.
Vedi anche:”Successioni di leggi penali nel tempo: principio di irretroattività”
La lex mitior
Effettuata tale precisazione, bisogna definire la portata di quest’ulteriore principio: esso comporta che in caso di successione di leggi penali nel tempo non seguite dal fenomeno abrogativo della fattispecie, deve applicarsi la norma più favorevole al reo.
Anche questa regola, al pari della precedente, si inserisce appieno nella logica reocentrica.
Maggiori difficoltà si incontrano nella individuazione delle fonti poste a fondamento di esso; se è agevole individuarle nel novero delle leggi ordinarie, non accade lo stesso né rispetto alle norme costituzionali, né a quelle sovranazionali, in quanto non espressamente previsto ed affermato solo grazie all’esegesi giurisprudenziale.
Ed infatti, la retroattività della legge favorevole è espressamente prevista solo dall’art 2 co 2.
Dottrina e giurisprudenza hanno affermato che esso non è sprovvisto di addentellato costituzionale, in quanto lo si può ravvisare nel principio di uguaglianza e di ragionevolezza ex art 3 cost essendo irragionevole continuare a punire chi ha commesso il fatto contravvenendo a una legge penale successivamente abrogata.
Tuttavia, l’individuazione del fondamento costituzionale nell’art 3, anziché nell’art 25 co 2 cost, segna una diversa origine della tutela costituzionale del principio. Infatti, mentre l’irretroattività è considerato principio assoluto ed inderogabile, la retroattività della lex mitior si ritiene suscettibile di bilanciamento.
La retroattività della legge più favorevole non è espressamente prevista nemmeno tra le fonti sovranazionali e la sua affermazione passa attraverso la pronuncia resa dalla Corte EDU nel caso “Scoppola contro Italia”, che ha rappresentato l’occasione per affermare che l’art 7 Cedu non garantisce solo il principio di irretroattività della legge penale più severa, ma, implicitamente, anche quello della retroattività della legge favorevole.
Le conseguenze immediate prodotte nell’ordinamento interno da questa sentenza passano attraverso la Corte Costituzionale ed il suo operato, che immediatamente recepisce il principio espresso dalla Corte Edu.
Ciò comporta che anche lo status costituzionale della norma più favorevole avrà come punto di riferimento non solo l’art 3 cost, ma anche l’art 7 cedu per il tramite del 117 co 1 Cost.
Diventa allora fondamentale capire se il principio convenzionale della retroattività della norma favorevole sia un principio assoluto o ammette deroghe. La Corte Costituzionale ne ha ammesso la derogabilità ma solo in presenza di valide giustificazioni.
La regolamentazione dell’art 2 c.p.
Fatta questa introduzione di carattere generale, occorre procedere alla disamina della regolamentazione contenuta nell’art 2 c.p. in ordine alla successione delle leggi penali nel tempo.
Il legislatore ha scelto di introdurre una normazione organica e capillare di questo aspetto così rilevante in ordine all’applicazione della legge penale ed ha confezionato l’art 2 articolandolo in ben sei commi, ciascuno espressione di un differente principio.
In particolare, il co 1 introduce il principio di irretroattività, il co 2 pone il principio della retroattività della legge favorevole, il co 3 disciplina la successione tra norme che hanno lo stesso precetto ma interviene la modifica rispetto alla sanzione da comminare (successione cd propria), il co 4 è dedicato alla successione di norme meramente modificative, il co 5 regolamenta la successione di leggi eccezionali e temporanee mentre il co 6 quella dei decreti legge.
Orbene, l’indagine della dottrina si è da sempre soffermata sulle fattispecie del 2 e del 4 co, che introducono, rispettivamente, il fenomeno dell’abolitio criminis e dell’abrogatio sine abolitione.
L’abolitio criminis (ex art 2 co 2) ricorre qualora una norma incriminatrice venga abrogata senza che la fattispecie astratta da essa disciplinata riviva o nella nuova norma che la sostituisce o per effetto dell’espandersi, in seguito alla sua abrogazione, di una norma già esistente.
L’abrogatio sine abolitione ricorre, invece, quando all’abrogazione di una norma incriminatrice non corrisponde il venir meno della fattispecie astratta disciplinata, perché essa resta in qualche modo ricompresa nella norma subentrante, sebbene quest’ultima abbia subito modifiche che non intaccano il nucleo essenziale (c.d. riformulazione) o in una norma già esistente (fenomeno della c.d. espansione).
La necessità di stabilire quando ricorre una piuttosto che l’altra ipotesi, sorge dal fatto che non sempre la legge successiva decreta in modo univoco l’abolizione della precedente.
A seconda del fenomeno considerato, la dottrina e la giurisprudenza sono giunte a conclusioni differenti.
E così, se si verifica il mero mutamento del titolo di reato o della sua natura circostanziale, si verserà in un’ipotesi di mutatio criminis, poiché il fatto continua ad essere un reato.
Analogamente, è escluso il fenomeno abrogativo quando una fattispecie aggravata è trasformata in un reato autonomo, vista l’identità di struttura.
Non sorge alcuna questione nemmeno nel caso di successione propria, che sussiste quando le norme che si susseguono hanno lo stesso precetto, ma diversa disciplina sanzionatoria.
Le questioni interpretative, invece, sorgono in caso di successione impropria o riformulazione, che viene in rilievo quando vi è l’abrogazione della precedente fattispecie incriminatrice, con la contestuale previsione di una nuova incriminazione che interviene nella stessa materia con precetto solo in parte eterogeneo.
Bisogna precisare che la successione modificativa tra norme incriminatrici può manifestarsi in tre modi: attraverso la modifica immediata, che sussiste quando viene abrogata una norma incriminatrice con riformulazione della fattispecie dalla prima originariamente disciplinata. Ad essa si contrappone la successione mediata, inerente alla norma che integra il precetto penale; attraverso il fenomeno dell’espansione, ricorrente quando una norma incriminatrice, la cui portata è compressa da una norma coeva, si espande per l’effetto dell’abrogazione di quest’ultima; attraverso l’innesto normativo, sussistente nel caso di introduzione ex novo di una fattispecie criminosa senza la formale abrogazione della norma che disciplinava.
Deve aggiungersi che la dottrina ha, altresì, elaborato i criteri distintivi tra 2 e 4 comma.
Essi sono il criterio della doppia punibilità in concreto, il criterio della continuità del tipo di illecito, il criterio del rapporto strutturale tra norme.
Secondo il criterio della doppia punibilità c’è continuità normativa se è ravvisabile la doppia punibilità in concreto secondo il sillogismo “prima punibile, dopo punibile, quindi punibile”.
Per il criterio della continuità del tipo di illecito, sussiste la continuità ogni volta che il nocciolo duro dell’illecito rimane invariato ovvero le due norme in successione tutelano lo stesso bene giuridico e contemplano condotte caratterizzate dalla stessa modalità offensiva.
Il criterio del rapporto strutturale tra norme esclude la continuità quando l’abrogazione di una norma è accompagnata dall’introduzione di una nuova fattispecie connotata da elementi strutturali diversi.
La casistica
Dal quadro disciplinatorio tratteggiato emerge nitidamente la differenza in ordine alle conseguenze che genera l’applicazione di un principio piuttosto che di un altro.
La casistica reca numerosi casi dubbi in cui per poter affermare l’applicabilità retroattiva della legge più favorevole è necessario indagare la natura giuridica dell’istituto considerato.
Molte perplessità sorgono in ordine alla confisca di prevenzione, disciplinata dall’art 24 d lgs 159/11. Questa normativa è intervenuta con il preciso intento di incidere significativamente nell’alveo della criminalità organizzata, fornendo ai dirigenti della polizia giudiziaria ad all’autorità giudiziaria strumenti d’intervento preventivi. E così, accanto alla previsione di misure personali sono state previste anche misure di tipo patrimoniale quali il sequestro e la confisca.
La misura della confisca è però applicata in seguito alla celebrazione dell’udienza con rito camerale ed è prevista la facoltà di impugnare il provvedimento del tribunale innanzi alla Corte di Appello. In ogni caso è garantito il contraddittorio.
La giurisprudenza è agitata da un vivace dibattito in ordine alla possibilità di riconoscere a tale istituto applicazione retroattiva.
Al riguardo, il panorama giurisprudenziale di matrice europea sembra propendere per una risposta di tipo affermativo poiché a questa misura riconosce finalità preventiva e non repressiva.
Allo stesso tempo deve darsi atto di altro orientamento che ricorrendo agli Engel criteria, in particolare scopo e gravità, sposa la conclusione opposta.
La giurisprudenza interna ha visto la soluzione mediante l’intervento delle SS UU secondo cui si tratta di una misura avente natura extra-penale, perché lo scopo è meramente preventivo e si sostanzia nella creazione di un vincolo di indisponibilità rispetto ad un bene pericoloso.
Problemi analoghi sono innescati anche rispetto alla confisca per equivalente ex art 322 ter cp, che prevede un’ipotesi di confisca diretta (relativa al prezzo o al profitto del reato) sia una fattispecie di confisca per equivalente (valore corrispondente al prezzo o al profitto).
Il nodo relativo alla loro possibile applicazione retroattiva è stato sciolto dalla giurisprudenza della Suprema Corte che ha distinto i due casi ed è giunta ad affermare che la confisca diretta, colpendo il “pretium sceleris”, è una misura di sicurezza e soggiace alla previsione ex art 200 cp, mentre la confisca per equivalente, in ragione dell’afflittività che la connota, ha natura penale e quindi deve escludersi ugualmente l’applicabilità retroattiva.
Dubbi di diritto intertemporale insorgono spesso anche rispetto a fattispecie di carattere incriminatorio di nuovo conio.
È quanto accaduto rispetto all’art 346 bis cp, introdotto con la l 190/2012.
Si inserisce nell’alveo dei reati della P.A, andando a colmare il vuoto di tutela a cui si cercava di porre un argine attraendo quelle condotte criminose nell’ambito di operatività dell’art 346 cp, che a sua volta reprime il millantato credito. Tuttavia, la dottrina ha ben presto evidenziato che tale operazione interpretativa sconfinava dall’interpretazione analogica per sconfinare nell’applicazione analogica in malam partem.
La previsione di un apposito titolo di reato consente di superare tali osservazioni critiche.
Quello introdotto dall’art 346 bis è un reato contratto che genera la responsabilità penale di entrambe le parti dell’accordo.
Dunque, è necessariamente plurisoggettivo.
Al momento della sua introduzione, ci si è interrogati circa la possibilità di modificare l’imputazione dei procedimenti penali in corso.
Si è osservato che bisogna scindere la problematica in due tronconi; ed infatti, per quanto riguarda la posizione dell’altro contraente, l’art 346 bis introduce una nuova incriminazione sottoposta al principio di cui all’art 2 co 1 cp.
Mentre, rispetto alla posizione del mediatore si registra una fattispecie di continuità, rispetto alla quale deve stabilirsi se si applica il 2 o il 4 comma.
Dal raffronto strutturale delle due norme, sembra emergere un diverso ambito di operatività, ritenuto fuorviante. Infatti, la giurisprudenza ha affermato che deve tenersi conto del significato assunto dall’art 346 nel contesto giurisprudenziale; in specie, essa comprendeva anche il traffico di influenze illecite.
Tra l’art 346 e 346 bis si registra un rapporto di continenza, con applicazione dell’art 2 comma 4 e la norma più favorevole è l’art 346 bis.
Perplessità in ordine ai profili di disciplina temporale sono stati sollevati anche rispetto all’istituto della messa alla prova, introdotto dalla l 67/2014.
Esso rientra nel novero degli strumenti adottati dal legislatore per attuare interventi di depenalizzazione in ordine al sovraffolamento carcerario.
La disciplina è distribuita tra il cp ed il codice di rito; pertanto, si rinviene una duplice qualifica in ordine alla natura giuridica, essendo causa di estinzione del reato e procedimento alternativo.
Il problema sorto all’indomani della sua introduzione nell’ordinamento è stato relativo all’applicazione ai procedimenti penali in corso.
Le esigenze da bilanciare sono state due: garantire il diritto di difesa, in quanto l’imputato vedrebbe preclusa la propria possibilità di fruire della messa alla prova e la necessità di osservare gli stringenti termini entro cui avanzare la relativa richiesta.
La Corte Costituzionale chiamata a valutare la legittimità costituzionale delle norme processuali, ha escluso l’operatività per i procedimenti penali in corso così da evitare soluzioni fautrici di disparità di trattamento rispetto agli altri riti alternativi.
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