Il caso
La Corte d’Appello di L’Aquila, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Lanciano, rideterminava la pena in 6 mesi di reclusione nei confronti dell’imputato per il reato di omesso versamento dell’assegno di mantenimento ai figli minori, distinguendola in mesi 3 di reclusione con aumento di altri 3 mesi a titolo di continuazione.
Riteneva la Corte di appello che, alla luce delle deposizioni testimoniali e delle produzioni documentali versate in atti, l’impugnazione proposta fosse infondata, poiché il delitto era commesso in pregiudizio dei figli minorenni e per essi, lo stato di bisogno, secondo la costante giurisprudenza della Corte di cassazione è in re ipsa, anche se alla somministrazione dei mezzi di sussistenza abbia provveduto la madre o altri familiari, poiché tale circostanza non fa venir meno l’obbligo primario di sostentamento che incombe sull’altro genitore.
Quanto alla capacità economica dell’obbligato, la Corte di appello rilevava che la difesa nulla ha provato in ordine ad una eventuale impossibilità dell’imputato di fare fronte alle proprie obbligazioni.
Avverso tale decisione, l’imputato ricorre per cassazione lamentando l’aumento per la continuazione e che il reato contestato, a differenza di quanto ritenuto dai giudici d’appello, avrebbe dovuto essere qualificato come continuato e non permanente.
La decisione della Corte
La Suprema Corte, con la sentenza in epigrafe, ha accolto il ricorso con riferimento alla censura inerente l’aumento per continuazione disposto dal giudice dell’impugnazione mentre ha rigettato il rilievo critico riguardante la qualificazione giuridica della condotta addebitata al ricorrente.
La Corte rileva, in primo luogo, che, in tema di reati contro la famiglia, il delitto previsto dalla L. 1° dicembre 1970, n. 898, art. 12 sexies, si configura per il semplice inadempimento dell’obbligo di corresponsione dell’assegno nella misura disposta dal giudice in sede di divorzio.
Nel caso in cui un genitore separato faccia mancare i mezzi di sussistenza omettendo di versare l’assegno di mantenimento, lo stesso commette un unico reato, quello previsto dal citato art. 570 c.p., con cui si sanziona penalmente un’obbligazione civile, per quanto debba trattarsi di inadempimento serio, protratto, tale da incidere sulla disponibilità dei mezzi economici che il soggetto obbligato deve fornire.
La violazione meno grave (l’omissione di versamento dell’assegno di mantenimento) – per il principio di assorbimento, volto ad evitare il bis in idem sostanziale – perde la sua autonomia e viene ricompresa nella accertata sussistenza della più grave violazione della norma prevalente per severità di trattamento sanzionatorio.
La Suprema Corte rileva, inoltre, che la condotta sanzionata dall’art. 570 c.p. presuppone uno stato di bisogno: infatti, l’omessa assistenza deve avere l’effetto di far mancare i mezzi di sussistenza.
E, secondo una consolidata giurisprudenza, la nozione di “mezzi di sussistenza” va identificata in ciò che è indispensabile alla vita, a prescindere dalle condizioni sociali o di vita pregressa degli aventi diritto (Cass. pen. sez. 6, n. 12400 del 12/01/2017; Cass. pen. sez. 6 n. 49755 del 21/11/2012; Cass. pen. sez. 6, n. 49755 del 21/11/2012; Cass. pen. sez. 6, n. 2736 del 13/11/2008).
In materia di violazione degli obblighi di assistenza familiare si è, quindi, affermato il principio che la minore età dei discendenti, destinatari dei mezzi di sussistenza, rappresenta in re ipsa una condizione soggettiva dello stato di bisogno, che obbliga i genitori a contribuire al loro mantenimento, assicurando i predetti mezzi di sussistenza; ne deriva che il reato di cui all’art. 570 c.p., comma 2, sussiste anche quando uno dei genitori ometta la prestazione dei mezzi di sussistenza in favore dei figli minori o inabili, ed al mantenimento della prole provveda in via sussidiaria l’altro genitore (Cass. pen. sez. 6, n. 53607 del 20/11/2014).
Ciò posto la Corte ribadisce che il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare di cui all’art. 570 co. 2 n. 2 c.p. è reato permanente, che non può essere scomposto in una pluralità di reati omogenei, essendo unico ed identico il bene leso nel corso della durata dell’omissione. Da ciò ne deriva che le cause di estinzione del reato operano non in relazione alle singole violazioni, ma solo al cessare della permanenza, che si verifica o con l’adempimento dell’obbligo eluso o, in difetto, con la pronuncia della sentenza di primo grado (Cass. pen. sez. 6, n. 42543 del 15/09/2016; Cass. pen. sez. 6, n. 45462 del 20/10/2015).
La natura permanente del reato comporta che la consumazione inizia con la prima condotta omissiva e cessa con l’ultima.
L’inadempimento, che si consolida periodicamente di mese in mese, costituisce, ai fini penalistici, un unico reato, poiché unico è l’obbligo assistenziale, che grava sull’agente, avuto riguardo alla continuità della condotta illecita fino alla sua cessazione.
Nel caso di specie, la disamina della contestazione evidenzia l’assenza di indicazione della disciplina della continuazione, nè il giudice di primo grado correttamente vi aveva fatto riferimento; la Corte di appello, pur procedendo ad una riduzione dell’entità della pena, distingueva la pena base in mesi tre di reclusione con aumento di mesi tre a titolo di continuazione.
Sotto tale profilo, la Corte ha ritenuto il primo motivo meritevole di accoglimento e pertanto, ha disposto la eliminazione di mesi tre di reclusione rispetto alla pena base irrogata.
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