Lo stato di incapacità e le sorti del contratto

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     Indice

  1. La capacità di agire: il minore di età
  2. Il soggetto maggiore di età: l’interdizione
  3. L’emancipazione e l’inabilitazione
  4. L’amministratore di sostegno
  5. Le sorti del contratto tra incapacità legale e naturale

1. La capacità di agire: il minore di età

La capacità di agire indica la capacità di porre in essere, personalmente ed autonomamente, atti negoziali destinati a produrre effetti nella propria sfera giuridica. La capacità di agire si acquista con il raggiungimento della maggiore età che l’articolo 2 del Codice civile fissa al compimento del diciottesimo anno. Essendo il minore di età assolutamente incapace di agire, la gestione del patrimonio ed il compimento di ogni atto relativo sono affidati alla “responsabilità genitoriale” dei genitori ovvero, nel caso in cui questi siano morti o non possano esercitarla, ad un tutore[1]. Entrambi agiscono in qualità di legali rappresentanti, compiendo atti in nome e per conto del minore, fatta eccezione per gli atti personalissimi, per i quali non è ammessa sostituzione, nemmeno del legale rappresentante. I genitori esercitano la responsabilità genitoriale in condizione di totale parità compiendo disgiuntamente gli atti di ordinaria amministrazione e congiuntamente quelli di straordinaria amministrazione, purché, ai sensi dell’articolo 320, comma 2, del Codice civile, sussistano l’autorizzazione del giudice tutelare e la necessità o utilità evidente per il figlio.

In caso di nomina, la legge attribuisce al tutore poteri e compiti nella sostanza simili a quelli dei genitori, sottoponendolo, però, a compiti più stringenti, dal momento che può essere chiamato a svolgere l’incarico anche chi non è legato all’incapace da vincoli di parentela. A titolo meramente esemplificativo il tutore è tenuto, tra l’altro, a redigere, subito dopo la nomina, l’inventario dei beni del minore (art. 362 c.c.) e a tenere regolare contabilità della sua amministrazione e a renderne conto ogni anno al giudice tutelare (art. 380 c.c.); inoltre il tutore deve munirsi della preventiva autorizzazione del giudice tutelare per il compimento degli atti di cui all’articolo 374 c.c. e della preventiva autorizzazione del tribunale per il compimento degli atti di cui all’articolo 375 c.c..

2. Il soggetto maggiore di età: l’interdizione.

Può accadere, poi, che anche il soggetto maggiore di età sia considerato legalmente incapace di agire dall’ordinamento in quanto non abbia la capacità di discernimento sufficiente per provvedere autonomamente ai propri interessi, come nel caso di una malattia mentale.

Distinguiamo una incapacità di agire assoluta che riguarda, oltre al minore, l’interdetto, e comporta l’impossibilità per l’individuo di compiere validamente alcun atto giuridico e una incapacità di agire relativa, che riguarda il minore emancipato e l’inabilitato e postula una capacità di agire limitata, relativamente agli atti di ordinaria amministrazione.

Ai sensi dell’articolo 414 del Codice civile, nei confronti del maggiore di età o del minore emancipato che si trovino in condizione di abituale infermità mentale con conseguente incapacità di provvedere alla cura dei propri interessi, può essere pronunciata l’interdizione. L’interdizione è pronunciata con sentenza dal tribunale su istanza dei soggetti indicati dall’articolo 417 c.c. e, dal momento della sua pubblicazione, l’interdetto perde la capacità di porre in essere negozi sia di natura personale che patrimoniale; tuttavia l’articolo 427 del Codice civile precisa che nella sentenza che pronuncia l’interdizione o in successivi provvedimenti, l’autorità giudiziaria può stabilire che taluni atti di ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’interdetto senza l’intervento del tutore[2].

Dall’interdizione giudiziale si distingue quella legale, la quale consegue ex lege alla condanna penale all’ergastolo o alla reclusione per un periodo non inferiore a cinque anni (articolo 32 c.p.) e comporta una incapacità di agire circoscritta ai soli atti patrimoniali[3].

Il nostro ordinamento prevede che, oltre che ai minori in caso di mancanza o impedimento dei genitori, al minore emancipato e agli interdetti giudiziali o legali venga attribuito un tutore volto alla protezione dei loro interessi (articolo 414 c.c.).

L’articolo 357 c.c. stabilisce che il tutore ha la cura della persona del minore, lo rappresenta in tutti gli atti civili e ne amministra i beni; l’articolo 424 c.c. estende l’applicazione delle disposizioni sulla tutela dei minori (e quelle sulla curatela dei minori emancipati) alla tutela degli interdetti (e alla curatela degli inabilitati).


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3. L’emancipazione e l’inabilitazione

Tra le ipotesi di incapacità di agire relativa rientrano, come accennato, l’emancipazione e l’inabilitazione. L’emancipazione del minore, secondo l’articolo 390 c.c., deriva ipso iure dal matrimonio contratto, su autorizzazione del tribunale, dopo aver compiuto il sedicesimo anno di età e prima del compimento del diciottesimo anno. Dall’emancipazione consegue il venir meno della responsabilità genitoriale dei genitori, cui subentra un curatore che, a differenza del tutore, non cura la persona, ma solo il patrimonio del minore, affiancandolo e non sostituendolo nel compimento dei vari atti. Il minore acquista una limitata capacità di agire ed è in grado di compiere da solo gli atti di ordinaria amministrazione e, con il consenso del curatore e l’autorizzazione del giudice tutelare, quelli di straordinaria amministrazione, esclusi la donazione (tranne che nell’ambito di una convenzione matrimoniale) e il testamento[4].

L’inabilitazione è pronunciata con sentenza costitutiva del tribunale ai sensi dell’articolo 414 c.c., in presenza alternativamente di uno dei seguenti presupposti: infermità di mente che non risulti così grave da imporre l’interdizione; prodigalità; abuso abituale di bevande alcoliche o stupefacenti; sordomutismo o cecità dalla nascita o dalla prima infanzia, qualora non si sia ricevuta un’educazione sufficiente e salva, comunque, l’interdizione nell’eventualità che il soggetto risulti del tutto incapace di provvedere ai propri interessi. In tale ipotesi il curatore nominato non si sostituisce all’incapace, ma integra la volontà di quest’ultimo; l’incapacità è infatti limitata ai soli atti di straordinaria amministrazione: gli atti di ordinaria amministrazione possono essere compiuti dall’inabilitato in totale autonomia[5]. Come disposto dall’articolo 427, comma 1, inoltre, il giudice, nella sentenza che pronuncia l’inabilitazione, può comunque stabilire che taluni atti eccedenti l’ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’inabilitato senza l’assistenza del curatore.

4. L’amministratore di sostegno

Merita, inoltre, di essere citata la figura dell’amministratore di sostegno, la quale ricorre allorquando un soggetto, per effetto di una menomazione fisica o psichica, si trova nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi. Va precisato che per gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza, e per quelli necessari a soddisfare le esigenze della vita quotidiana, il beneficiario conserva la piena capacità di agire (articolo 409 c.c.). Il soggetto sottoposto ad amministratore di sostegno conserva, quindi, una generale capacità di agire, salve le limitazioni espressamente previste[6].

5. Le sorti del contratto tra incapacità legale e naturale

Se una delle parti era legalmente incapace di contrattare, l’articolo 1425 del Codice civile prevede che il contratto è annullabile. L’incapacità legale a contrarre va tenuta distinta dalla c.d. incapacità naturale, ossia, come si ricava dall’articolo 428 del Codice civile, la condizione di chi, sebbene non interdetto, si trovi in stato di incapacità di intendere o di volere (anche transitoria), nel momento in cui stipula un negozio giuridico.

Precisamente, la capacità di intendere va intesa come l’idoneità del soggetto a rendersi conto del valore delle proprie azioni mentre la capacità di volere è l’attitudine a determinarsi in modo autonomo e a decidere quindi il proprio comportamento.

Non sempre l’incapacità di agire coincide con l’incapacità di intendere e di volere; si pensi al caso di un maggiorenne ubriaco oppure ad un malato di Alzheimer (fino a che non venga interdetto): tali soggetti, pur essendo capaci d’agire, in quanto maggiorenni, sono tuttavia incapaci d’intendere e di volere e quindi privi della cosiddetta capacità naturale[7].

Il secondo comma dell’articolo 1425 del Codice civile prevede, per tale ipotesi, l’annullabilità del contratto, qualora ricorrano le condizioni stabilite dall’articolo 428 c.c.; ai fini dell’annullabilità del contratto, pertanto, è necessario che, in ragione del pregiudizio che sia derivato o possa derivare al soggetto incapace, o per la qualità del contratto, risulti la malafede dell’altro contraente.

Si distingue, poi, la c.d. circonvenzione di incapace, regolata dall’art. 643 del Codice penale, la quale si diversifica ulteriormente dalla incapacità naturale in quanto, essendo causata con dolo dal soggetto agente, renderebbe il contratto nullo ai sensi dell’articolo 1418, comma 1 del Codice civile, e non semplicemente annullabile, perché la non osservanza della citata norma penale, perpetrando la violazione di una norma imperativa posta a tutela di un interesse pubblico, ricadrebbe nella previsione generale di nullità di cui all’articolo 1418 c.c.[8].

La giurisprudenza di legittimità ha delineato il discrimen tra l’incapacità naturale e l’incapacità legale definendo la prima non una totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, ma una menomazione, tale comunque da impedire la formazione della volontà cosciente, secondo un giudizio che è riservato al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivato. Ne consegue che, “in tema di annullamento del contratto, la prova dell’incapacità di intendere e di volere non deve essere necessariamente riferita alla situazione esistente al momento in cui l’atto impugnato venne posto in essere, essendo possibile cogliere tale situazione da un quadro generale anteriore e posteriore al momento della redazione dell’atto, traendo da circostanze note, mediante prova logica, elementi probatori conseguenti”[9].

Si consideri, in tal senso, che a differenza dell’infermità mentale, che viene in considerazione per la dichiarazione d’inabilitazione, consistente in un’alterazione delle facoltà mentali in un grado tale da determinare l’incapacità parziale di curare i propri interessi, per cui si richiede, a tal fine, la cooperazione di un altro soggetto, la incapacità naturale idonea a determinare, nel concorso di altri elementi, l’annullabilità degli atti giuridici compiuti dalla persona che ne è affetta richiede che, sia pure in via provvisoria, questa abbia le facoltà intellettive gravemente menomate, sì da essere totalmente incapace di valutare l’opportunità degli stessi atti ed anche di determinare, in relazione ad essi, una cosciente volontà[10]. Ne deriva che il grado e l’intensità della malattia mentale necessaria e sufficiente per la pronuncia d’inabilitazione sono inferiori a quelli richiesti per l’accertamento dell’incapacità naturale e anche l’avvenuta declaratoria d’inabilitazione non equivale alla dimostrazione dell’incapacità naturale dell’abilitato.

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Note: 

[1] Morlotti L., Diritto Privato, Cedam, 2022.

[2] AA.VV, Procedura civile e adr 2021, Ipsoa, 2021.

[3] Cian G., Trabucchi A., Commentario breve al Codice civile, Cedam, 2022.

[4] Ivi.

[5] Dittrich L., Diritto processuale civile – Tomo quarto, Utet Giuridica, 2019.

[6] Bianchi A., Macrì P.G., La valutazione della capacità di agire, Cedam, 2011.

[7] Morlotti L., op. cit.

[8] Cass. civ., 7 febbraio 2008, n. 2860, in Banca dati Wolters Kluwer.

[9] Cass. Civ., 25 ottobre 2018, n. 27061, in Banca dati Wolters Kluwer.

[10] Cass. civ., 11 febbraio 1994, n. 1388, in Mass. Giur. It., 1994.

Raffaele Nugnes

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