Inquadramento generale
Il nostro ordinamento giuridico mostra sempre maggiore attenzione al sistema delle confische cd. per sproporzione, per tali intendendosi la confisca di prevenzione di cui all’art. 24 del D. Lgs. n. 159/2011 e quella allargata ex art. 12 sexies del D. L. n. 306/1992; quest’ultima inserita, altresì, nell’art. 240 bis c.p. con il D. Lgs. n. 21/2018 in materia di riserva di codice. I due istituti, pur distinguendosi laddove la confisca allargata è misura praeter delictum che, in quanto tale, prescinde da qualsivoglia accertamento di reati in capo al preposto a differenza della confisca misura di sicurezza che presuppone l’accertamento di taluno dei reati indicati dallo stesso legislatore; presentano elementi di vicinanza che le rendono passibili di uno studio comparativo ed orizzontale, volto ad analizzarne la ratio e gli effetti, con specifico riguardo alla loro legittimazione costituzionale. Entrambe, infatti, sorgono in un periodo storico nel quale forte era l’esigenza per lo Stato di contrastare ed arginare la criminalità organizzata, al tempo connotata dal periodo di grande stragismo. Parallelamente, si prende coscienza della necessità di congegnare un meccanismo strategico più complesso il quale, oltre ad agire sul versante squisitamente penalistico, operi sul piano della ricchezza frutto di traffici delittuosi e, a sua volta, oggetto di possibile reimpiego nella criminalità, nonché pericolo di inquinamento per il regolare corso dell’economia legale. Sin dagli albori, il sistema delle confische allargate ha sollevato preoccupazioni nella più autorevole dottrina con riguardo alla difficile conciliazione con i principi che informano la Costituzione e che si profilano quali limiti invalicabili per il procedimento penale. Tuttavia, la giurisprudenza, costituzionale e di legittimità, ha sempre mantenuto costanza nel tracciare un nitido confine fra le misure in esame e le sanzioni penali, onde affermare la non necessaria osservanza di precetti, quali quello della presunzione di innocenza di cui al II comma dell’art. 27 Cost. dettati unicamente per l’area penale in senso stretto[1]. Inoltre, si tratta di una ricostruzione coerente anche alla luce della giurisprudenza comunitaria la quale, a partire dalla sentenza Engel c. Paesi Bassi del 1976 ha abbracciato una concezione autonomistica di materia penale, elaborando propri parametri alla cui stregua valutare la configurabilità o meno di “sanzione penale” al fine di applicarvi le relative garanzie convenzionali. In tale impostazione la qualificazione offerta alla pena dal diritto interno costituisce un mero punto di partenza, da ponderare alla luce della natura della violazione, oltre che della natura e gravità della sanzione irrogabile.
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I profili maggiormente problematici
Analizzando il sistema delle confische allargate da una prospettiva dinamico-funzionale che tenga conto, cioè, dalla sua concreta applicazione ed effetti, punti di criticità emergono dinanzi al principio di ragionevolezza dell’art. 3 Cost. Esso si atteggia, infatti, quale limite alla libertà del legislatore, affinchè le sue scelte si pongano in coerenza rispetto al sistema complessivamente considerato[2]. Con riguardo alle forme di ablazione per sproporzione, il principio di ragionevolezza rileva tanto sul versante del giudizio di sproporzione fra il valore del bene ed il patrimonio del pervenuto, quanto in relazione alla presunzione dell’origine illecita dei beni. Peraltro, la situazione è resa maggiormente articolata dinanzi a categorie di pericolosità comune circa la misura di prevenzione, ovvero a fronte dell’implementazione del catalogo dei reati presupposto per la misura di sicurezza. Se inizialmente era quantomeno limpido il nesso fra la categoria criminologica colpita e la ratio legis, è evidente come la dilatazione del campo applicativo ha finito per rendere ancora più labili i contorni. La Corte Costituzionale, in varie occasioni, ha blissato il vizio di ragionevolezza dietro al carattere relativo della presunzione di illiceità della res in ragione della possibilità della parte di dimostrare la lecita origine della cosa, assolvendo quello che non viene considerato un’inversione dell’onere probatorio, bensì un mero onere di allegazione. Tuttavia, volgendo lo sguardo al dato letterale delle disposizioni di riferimento (ossia l’art. 24 D. Lgs. n. 159/2011 e l’art. 240 bis c.p.) sembra emergere un vero e proprio obbligo per il giudice di provvedere all’ablazione ogni qual volta sussista il presupposto oggettivo (per la misura di sicurezza: commissione di taluno dei reati presupposti e sproporzione fra il reddito dichiarato o l’attività lavorativa svolta dal pervenuto al tempo dell’acquisto del singolo bene; per la misura praeter delictum la pura e semplice sproporzione) ed il soggetto non sia riuscito a dimostrare la lecita provenienza del bene (peraltro, a seguito della L. n. 161/2017, la prova non può essere fornita adducendo che si tratti di provento di evasione fiscale). Di tal guisa si aprono squarci di inquietanti automatismi che poco hanno a che vedere con la definizione di presunzione relativa. Infatti, quest’ultima funge da semplificazione dell’accertamento del giudice, offrendogli un metodo di giudizio precostituito che, però, non si sostituisce certo alla sua validazione. Sul punto, tentativi di apertura e correzione in senso costituzionalmente orientato si rinvengono laddove la Corte Costituzionale apre a possibilità di apprezzamento in capo all’organo giudicante qualora, seppur in assenza di dimostrazione da parte del soggetto interessato, la sproporzione risulti di per sé elemento neutro, inadeguato a sussumere la fattispecie concreta in quella astratta[3]. Inoltre, si tratta di un orientamento coerente, altresì, con la direttiva 2014/42 UE in materia di sequestro e confisca dei proventi di reato, la quale, all’art. 5, prevede l’applicazione della confisca allargata ad ipotesi nelle quali il giudicante abbia maturato una propria convinzione in ordine alla derivazione criminale dei beni. Detta lettura si carica di ancor più significato ove la si coordini con il criterio della correlazione temporale in virtù della quale si richiede che l’acquisto da giustificare si inquadri in un passato non eccessivamente remoto al fine di addossare al soggetto dimostrazioni che, di fatto, sarebbero inverosimili[4]. Inoltre, trattandosi, di ablazione di un bene attinente al patrimonio del soggetto, è necessario prestare attenzione anche al diritto di proprietà di cui all’art. 42 Cost. Conseguentemente, occorre che la misura ablativa sia irrogata nell’intento di perseguire superiori interessi generali quale, appunto, la salvaguardia dell’economia legale e la lotta a forme criminogene che, poiché svolte in forma continuata e professionale, divengono produttive di ricchezze, in un circolo vizioso nel quale il crimine prolifera e si incrementa. Tutto ciò si inserisce perfettamente con il quadro tracciato dall’art. 1 par. 2 Prot. n. 1 della Convenzione Edu che richiede ai fini della conformità al paradigma convenzionale che le misure di ablazione di beni di proprietà privata siano necessarie nell’interesse generale; sull’onda della clausola di limitazione così formulata, la Corte europea ha elaborato il cd. test di proporzionalità tripartito: idoneità a realizzare un fine di interesse generale, necessarietà, bilanciamento. Infine, resta da menzionare quello che, forse, è l’aspetto più critico, vale a dire il principio di presunzione di innocenza sancito dal II comma dell’art. 27 Cost. Seppur si tratti di confische disposte a prescindere dall’accertamento di una responsabilità in sede penale, è evidente, parimenti, come la presunzione di illecita genesi di ricchezza postuli la presunzione di commissione di fatti di reato presupposto in capo al soggetto. Ragionando in questi termini, emerge, pertanto, una sorta di presunzione di colpevolezza in assenza del relativo accertamento processuale, nonché della relativa sentenza di condanna. Se questo è lo scenario, celarsi dietro l’esclusione delle misure in parola dal coacervo della materia penale onde escludervi le più alte garanzie per l’interessato, sembra peccare di eccessivo formalismo, con il rischio di animare “frode alle etichette”. Se così fosse il disegno del sistema delle confische per sproporzione, ben venga il tentativo offerto dalla più recente giurisprudenza costituzionale di riadattare le vesti delle fattispecie legali alla luce delle esigenze costituzionali, nonché del diritto vivente, ove l’invito rivolto al legislatore di adottare una logica selettiva coerente con l’esigenza di neutralizzare fatti sintomatici di un illecito arricchimento che prescinde il singolo fatto di reato accettato, sembra far breccia nel ritorno alla costituzionalità di un sistema sempre più alluvionale e più che mai bisognoso di ritrovare coerenza.
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Bibliografia
- Pulitanò D. “Sullo statuto costituzionale delle confische” (contributo) Giurisprudenza Penale rivista 1/2019;
- Milone S. “La confisca allargata al banco di prova della ragionevolezza e della presunzione di innocenza” (approfondimento) Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa, 1/06/2018;
- Finocchiaro S. “Due pronunce della Corte Costituzionale in tema di principio di legalità e misure di prevenzione in tema di principio di legalità e misure di prevenzione a seguito della Sentenza De Tommaso della Corte Edu” (contributo) Diritto Penale Contemporaneo, 04/03/2019;
- Corte Cost. Sent. n. 24/2019;
- Corte Cost. Sent. n. 25/2019;
- Corte Cost. Sent. n. 33/2018
Note
[1] In questi termini si è espressa la Corte di Cassazione a S. U. con sent. n. 920/2003
[2] Sul punto Corte Cost. sent. n. 236/2016
[3] Corte Cost. sent. n. 33/2018
[4] Sul punto è costante e consolidata la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, si veda, ad esempio la sent. delle S.U n. 4880/2014
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