LO STATUTO DEL CONTRIBUENTE NELL’ OTTICA DEL “GIUSTO PROCESSO”

Redazione 08/05/01
Sommario

Premessa…………………………………………………………………………………….
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I – Lo Statuto del contribuente – Principi generali……………………………….
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A) Garante del contribuente……………………………………………………………….
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B) Verifiche fiscali…………………………………………………………………………..
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C) Interpello…………………………………………………………………………………
Pag. 6

D) Legge finanziaria. Effetti sui principi dello Statuto…………………………………..
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II – Giusto processo – Principi generali……………………………………………………
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A) Parti del processo tributario. Contraddittorio………………………………..
Pag. 14

B) Divieto di prova testimoniale e giuramento nel processo tributario – interrogatorio libero…………………………………………………………………………………………

Pag. 17

Conclusioni………………………………………………………………………………….
Pag. 21

PREMESSA

Con l’inizio del nuovo millennio, molte cose sono cambiate (e altre, forse, dovranno cambiare) in vari campi e sotto molti punti di vista.
Il panorama giuridico, in particolare, risulta caratterizzato da un momento riformatore di grande importanza. Siamo al cospetto, infatti, di notevoli modificazioni dell’ordinamento, con particolare riferimento alla materia tributaria e a quella relativa ai procedimenti civile, penale e tributario.
Al riguardo, infatti, occorre focalizzare l’attenzione su particolari e nuovi istituti giuridici che si propongono di migliorare il rapporto esistente tra pubblica amministrazione e contribuente, rendendolo più trasparente e maggiormente equilibrato.
Il riferimento è, da un lato, allo Statuto del contribuente e, dall’altro, alla riforma del processo in generale (e quindi anche di quello tributario), che oggi assume la più significativa denominazione di “giusto processo”. Si tratta di norme che assumono notevole rilievo in virtù del loro specifico obiettivo, che è quello di tutelare il cittadino nei suoi rapporti con l’ente pubblico.

I – STATUTO DEL CONTRIBUENTE – PRINCIPI GENERALI

Lo Statuto del contribuente (Legge 27 luglio 2000, n. 212, pubblicata in G.U. 31 luglio 2000, n. 177, ed entrata in vigore il 1° agosto 2000), costituisce un provvedimento di fondamentale importanza per le novità introdotte in seno ai rapporti tra cittadino ed amministrazione finanziaria.
Si tratta di una legge, il cui tormentato iter parlamentare si è concluso la scorsa estate dopo essere stata formalmente racchiusa in diverse proposte di legge[1] e dopo aver trovato la sua prima elaborazione sistematica nel lontano aprile 1998 con il Disegno di legge n.1286-B (ex C.4818) presentato dal Ministro delle finanze Visco di concerto col Ministro del tesoro e del bilancio e della programmazione economica Ciampi e col Ministro degli affari esteri Dini, approvato dal Senato della Repubblica il 22 aprile 1998, modificato dalla Camera dei deputati il 2 marzo 2000 e trasmesso dal Presidente della Camera dei deputati alla Presidenza il 3 marzo 2000. Tale ultimo testo inoltre, è stato, prima, approvato interamente dalla Commissione finanze del Senato in sede referente e, poi, dall’intera assemblea in data 12 luglio 2000.
Il testo dello Statuto, nella sua stesura definitiva, è costituito da 21 articoli e contiene importanti disposizioni riguardanti gli strumenti previsti a favore del contribuente per facilitare e rendere maggiormente equilibrati i suoi rapporti con il Fisco.
E’ lo stesso articolo 10 del suddetto Statuto, infatti, che si occupa di ridisegnare tali rapporti, definendoli “improntati al principio della collaborazione e della buona fede”.
I principi introdotti dalla nuova legge, inoltre, risultano vincolanti sia per il Fisco (vedi, per esempio, l’obbligo di chiarezza richiesto per la redazione della modulistica e della relative istruzioni), sia per il legislatore tributario (vedi, per esempio, il principio di irretroattività delle norme tributarie).
Le disposizioni contenute nello Statuto del contribuente, emanate in attuazione degli artt. 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono, a norma del suo art. 1, comma 1, “ principi generali dell’ordinamento tributario e possono essere derogate o modificate espressamente e mai da leggi speciali”. Questo vuol dire che tali principi sono immediatamente applicabili e che la loro modifica può avvenire in casi eccezionali e solo con legge ordinaria. Si escludono, pertanto, da un lato, “l’adozione di norme interpretative in materia tributaria” (ex art. 1, comma 2), dall’altro, la possibilità di imporre nuovi tributi attraverso l’emanazione di decreti legge (ex art. 4).
Il richiamo alle norme costituzionali assume notevole rilievo in ordine alla funzione che lo Statuto si prefigge, ossia il rispetto dei principi di uguaglianza, di capacità contributiva, di legalità, di equità, di trasparenza, di imparzialità ed efficienza dell’azione amministrativa.
L’articolo 3 della legge n. 212/2000, per esempio, stabilisce che “le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo”, ed aggiunge che esse “si applicano solo a partire dal periodo d’imposta successivo” a quello di emanazione e che “non possono prevedere adempimenti a carico dei contribuenti la cui scadenza sia fissata anteriormente al sessantesimo giorno dalla data della loro entrata in vigore”.
Ancora, l’art. 5, introduce il diritto di informazione del contribuente, prevedendo che l’amministrazione finanziaria assuma “idonee iniziative volte a consentire la completa e agevole conoscenza delle disposizioni legislative e amministrative vigenti in materia tributaria, anche curando la predisposizione di testi coordinati e mettendo gli stessi a disposizione dei contribuenti presso ogni ufficio impositore (…). L’amministrazione finanziaria deve portare a conoscenza dei contribuenti tempestivamente e con mezzi idonei tutte le circolari e le risoluzioni da essa emanate, nonché ogni altro atto o decreto che dispone sulla organizzazione, sulle funzioni e sui procedimenti”.
Il 1° comma dell’articolo successivo, inoltre, prevede il dovere per l’amministrazione finanziaria di “assicurare l’effettiva conoscenza da parte del contribuente degli atti a lui destinati”, mentre il 3° comma statuisce che vengano assunte “iniziative volte a garantire che i modelli di dichiarazione, le istruzioni e, in generale, ogni altra comunicazione siano messi a disposizione del contribuente in tempi utili, siano comprensibili anche ai contribuenti sforniti di conoscenze in materia tributaria e che il contribuente possa adempiere le obbligazioni tributarie con il minor numero di adempimenti e nelle forme meno costose e più agevoli “.
Collegata a tale disposizione, risulta quella contenuta nell’art. 7, relativa alla “chiarezza e motivazione degli atti”, in cui si dettano le regole in ordine alla redazione dei provvedimenti da parte dell’amministrazione finanziaria. Gli atti di quest’ultima, infatti, devono essere “motivati indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’Amministrazione”.
In applicazione del principio della buona fede (ex art. 10 dello Statuto, già citato), si dispone che “non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall’amministrazione medesima, o qualora il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni od errori dell’amministrazione stessa”.

A) GARANTE DEL CONTRIBUENTE
Di fondamentale importanza, è la previsione dell’istituzione di un nuovo organo nell’interesse del contribuente: si tratta del c.d. “Garante del contribuente” che, a norma dell’art. 13, è istituito “presso ogni direzione regionale delle entrate e direzione delle province autonome”. Si tratta di un organo collegiale, operante in piena autonomia, “costituito da tre componenti scelti e nominati dal presidente della commissione tributaria regionale o sua sezione distaccata nella cui circoscrizione è compresa la direzione regionale delle entrate (…)”. E’ un organo, pertanto, che ha la funzione di verificare l’agibilità al pubblico degli uffici tributari, rivolgere loro raccomandazioni, attivare l’autotutela dei contribuenti.
A norma del comma 6 dello stesso articolo, infatti, “anche sulla base di segnalazioni inoltrate per iscritto dal contribuente o da qualsiasi altro soggetto interessato che lamenti disfunzioni (…) o qualunque altro comportamento suscettibile di incrinare il rapporto di fiducia tra cittadini e amministrazione finanziaria, rivolge richieste di documenti o chiarimenti agli uffici competenti (…), e attiva le procedure di autotutela nei confronti di atti amministrativi di accertamento o di riscossione notificati al contribuente (…).
Molto importante risulta il richiamo che il comma 9 dell’articolo in esame fa degli artt. 5 e 12 della medesima legge: in particolare, il primo si riferisce alle c.d. “informazioni del contribuente “, mentre il secondo ai “diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali”. Entrambe le disposizioni assumono notevole importanza poiché prevedono significative forme di tutela a favore del contribuente, il cui rispetto è assicurato dal Garante il quale vigila affinché gli uffici rispettino tali diritti nonché i termini previsti per il rimborso d’imposta (ex comma 10 dell’art. 13 citato).
Il garante del contribuente, inoltre, provvede ad individuare i “casi di particolare rilevanza in cui le disposizioni in vigore ovvero i comportamenti dell’amministrazione determinano un pregiudizio dei contribuenti o conseguenze negative nei loro rapporti con l’amministrazione” (ex comma 11 dell’art. 13 citato).
Semestralmente, poi, tale organo “presenta una relazione sull’attività svolta al ministro delle Finanze, al direttore regionale delle entrate, ai direttori compartimentali delle dogane e del territorio nonché al comandante di zona della Guardia di Finanza, individuando gli aspetti critici più rilevanti e prospettando le relative soluzioni” (ex comma 12 dell’art. 13 citato).

B) VERIFICHE FISCALI
L’art. 12 della legge n. 212/2000 ha introdotto, inoltre, particolari diritti e garanzie a tutela del contribuente sottoposto a verifiche fiscali. Queste ultime, infatti, da tenersi nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali agricole, artistiche o professionali, “Sono effettuate sulla base di esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo (…). Si svolgono, salvo casi eccezionali e urgenti adeguatamente documentati, durante l’orario ordinario di esercizio delle attività e con modalità tali da arrecare la minore turbativa possibile allo svolgimento delle attività stesse nonché alle relazioni commerciali o professionali del contribuente”. E’ previsto, inoltre, per il contribuente, il diritto, al momento dell’inizio della verifica, “di essere informato delle ragioni che l’abbiano giustificata e dell’oggetto che la riguarda, della facoltà di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi di giustizia tributaria, nonché dei diritti e degli obblighi che vanno riconosciuti al contribuente in occasione delle verifiche”.
Sempre a tutela del contribuente, l’art. 15 prevede un “codice di comportamento per il personale addetto alle verifiche tributarie”, e ne dispone l’emanazione da parte del ministro delle Finanze affinché siano regolate “le attività del personale addetto alle verifiche tributarie”. Tale codice, inoltre, dovrà essere aggiornato “anche in base alle segnalazioni delle disfunzioni operate annualmente dal garante del contribuente”.
Il 2° comma dell’art. 10, poi, si occupa delle “sanzioni”, prevedendo che esse non siano irrogate (e che non siano richiesti interessi moratori) nel caso in cui il contribuente “si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall’amministrazione medesima, o qualora il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni od errori dell’amministrazione stessa”. Parimenti, il comma successivo, dispone che le medesime sanzioni non siano comunque irrogate qualora la violazione derivi da “obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria[2] o quando si traduc(a) in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta (…)”.

C) INTERPELLO
Grande portata innovativa ha, inoltre, l’art. 11 dello Statuto, che disciplina la figura dell’ “Interpello” (detto anche tax ruling) e il cui 1° comma prevede che: “ciascun contribuente può inoltrare per iscritto all’amministrazione finanziaria, che risponde entro centoventi giorni, circostanziate e specifiche istanze di interpello concernenti l’applicazione delle disposizioni tributarie a casi concreti e personali, qualora vi siano obiettive condizioni di incertezza sulla corretta interpretazione delle disposizioni stessa (…). La risposta dell’amministrazione finanziaria, scritta e motivata, vincola con esclusivo riferimento alla questione oggetto dell’istanza di interpello, e limitatamente al richiedente. Qualora essa non pervenga al contribuente entro il termine di cui al comma 1, si intende che l’amministrazione concordi con l’interpretazione o il comportamento prospettato dal richiedente”. Come si può notare, in definitiva, il diritto di interpello rientra nel generale principio di semplificazione e trasparenza delle procedure tributarie, consistente in un’attività di supporto prevista a favore del contribuente per la corretta applicazione delle norme tributarie. In tal modo, il soggetto passivo d’imposta può chiedere all’amministrazione finanziaria una valutazione (di diritto e/o di merito) riguardo la normativa tributaria applicabile ad un atto, un fatto o un negozio giuridico che intenda o abbia già posto in essere.
Decorso inutilmente il termine di 120 giorni dall’inoltro dell’interpello, subentra il meccanismo del “silenzio-assenzo” ed il comportamento prospettato dal contribuente si ritiene implicitamente accettato.
Il diritto di interpello si riferisce a tutte le materie fiscali e deve essere disciplinato da un apposito regolamento. La legge n. 413/1991 ed altre norme speciali, peraltro, avevano già istituito un diritto analogo anche se limitato a determinate materie, quali quelle riguardanti le attività delle società (fusioni, trasformazioni, ecc.). Tali disposizioni, pertanto, prevedono che l’amministrazione finanziaria, possa essere interpellata al fine di ottenere un parere relativo alla correttezza fiscale di particolari adempimenti contabili.
A norma del comma 5 dell’art. 11 dello Statuto, “Con decreto del ministro delle Finanze (…) sono determinati gli organi, le procedure e le modalità di esercizio di interpello e dell’obbligo di risposta da parte dell’amministrazione finanziaria”. L’emanazione di tale decreto è prevista, a norma del 1° comma dell’art. 18, entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore dello Statuto.
Il Ministero delle Finanze, tuttavia, prima ancora di emanare il decreto previsto, ha pubblicato un’importante circolare (n. 99/E, del 18 maggio 2000), con cui ha reso operative le regole dell’interpello, dando la possibilità al contribuente di utilizzare tale mezzo di tutela in tempi più brevi rispetto a quelli annunciati dallo stesso Statuto.
In particolare, la circolare prevede quattro tipi di interpello: 1) ordinario, che consiste nel servizio di consulenza giuridica ordinariamente offerta ai contribuenti; 2) ex lege n. 413/1991, che consiste nella preventiva interpretazione di alcune specifiche operazioni che potrebbero risultare elusive; 3) ex art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973, che mira a consentire la disapplicazione della normativa antielusiva; 4) speciale, previsto per gli investitori non residenti, mirante alla consulenza giuridica a favore di tali soggetti che vogliano effettuare investimenti nel territorio italiano.
Il Ministero ha anche previsto che, in attesa dell’entrata in vigore dello Statuto, fosse organizzato un servizio di consulenza giuridica mirante all’individuazione del trattamento fiscale più adeguato ad una determinata fattispecie. Tale servizio prevede tre livelli differenti: 1) Ufficio delle entrate territorialmente competente, che si occupa dei quesiti più agevoli; 2) Direzione regionale delle entrate, che risponde alle questioni provenienti dai dipendenti degli uffici delle entrate; 3) Direzione centrale, che risolve i quesiti formulati dalle Direzioni regionali o dagli Ordini professionali che rivestano interesse di portata generale.
Entro 90 giorni dalla ricezione dell’interpello, occorre rendere nota la risposta.
Le disposizioni dello Statuto, costituiscono norme di principio che spesso potrebbero risultare non in linea con le norme del sistema tributario italiano vigente. Pertanto, l’art. 16 della legge n. 212/2000 così recita: “Il Governo è delegato ad emanare, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, previo parere delle competenti commissioni parlamentari, uno o più decreti legislativi recanti le disposizioni correttive delle leggi tributarie vigenti strettamente necessarie a garantire la coerenza con i principi desumibili dalle disposizioni della presente legge”. Entro lo stesso termine, inoltre, il Governo provvede ad abrogare le norme regolamentari che risultino incompatibili con quanto disposto dallo Statuto.
In ottemperanza a tale disposizione, è stato emanato il Decreto legislativo n. 32, del 26 gennaio 2001, recante “Disposizioni correttive di leggi tributarie vigenti, a norma dell’articolo 16 della legge 27 luglio, n. 212, concernente lo statuto dei diritti del contribuente”. Si tratta di un provvedimento importante, che ha apportato modifiche sostanziali alle precedenti normative in materia tributaria che necessitavano di un adeguamento ai nuovi principi introdotti dallo Statuto[3].

D) LEGGE FINANZIARIA. EFFETTI SUI PRINCIPI DELLO STATUTO
I numerosi passi avanti riscontrabili con l’approvazione dello Statuto – considerato la magna charta dei diritti dei contribuenti – tuttavia, hanno subìto una repentina battuta d’arresto a causa dell’emanazione della Legge 23/12/2000, n° 388 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge Finanziaria 2001), in G.U. n° 302 del 29/12/2000.
Sono circa 50, infatti, gli articoli che, secondo alcuni autori, sarebbero in contrasto in modo grave e ripetuto, con almeno 200 violazioni riscontrate[4], le disposizioni contenute nella legge n. 212/2000.
Emblematico, al riguardo, è stato ritenuto il disposto del 4° comma dell’art. 18 della Finanziaria, che contiene una deroga espressa allo Statuto. In particolare, il suddetto comma, prevede che “ In deroga alle disposizioni dell’art. 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212, concernente l’efficacia temporale delle norme tributarie, i termini e la liquidazione e l’accertamento dell’imposta comunale sugli immobili, scadenti al 31 dicembre 2000, sono prorogati al 31 dicembre 2001, limitatamente alle annualità d’imposta 1995 e successive (…)”. La disposizione, violerebbe, pertanto quanto previsto dal citato articolo dello Statuto che così recita: “ I termini di prescrizione e di decadenza per gli accertamenti di imposta non possono essere prorogati”.
Ma non basta; nonostante il 2° comma dell’art. 1 della legge n. 212/2000 preveda che “l’adozione di norme interpretative in materia tributaria può essere disposta soltanto in casi eccezionali e con legge ordinaria, qualificando come tali le disposizioni di interpretazione autentica”, l’art. 51 della Finanziaria 2001, relativo alla programmazione delle assunzioni, prevede ai commi 3° e 4° delle interpretazioni che non sono qualificate espressamente come autentiche e che non sono state ripartite in due distinti articoli (la stessa violazione è stata riscontrata, peraltro, nell’art. 33).
Ancora, il 3° comma dell’art. 2 dello Statuto che dispone che “i richiami di altre disposizioni contenuti nei provvedimenti normativi in materia tributaria si fanno indicando anche il contenuto sintetico della disposizione alla quale si intende fare rinvio”, sarebbe stato, secondo alcuni autori, disatteso da numerosi articoli della Finanziaria, ed in particolare: artt. 2-4, 6-15, 17-21, 24, 25, 27, 28, 30, 31, 33-35, 37, 38, 40-46, 48-51.
Il 4° comma dello stesso articolo, inoltre, che statuisce che “le disposizioni modificative di leggi tributarie (debbano) essere introdotte riportando il testo conseguentemente modificato”, risulterebbe violato dai seguenti articoli della Finanziaria: nn. 2, 4, 6, 10, 16, 18, 21, 23, 27, 28, 30, 31, 33-35, 37, 40, 42, 43, 49, 51.
Il 2° comma dell’art. 2 ed il 2° comma dell’art. 16 della Finanziaria, poi, non avrebbero rispettato quanto disposto dal 1° comma dell’art. 3 della legge n. 212, in cui si legge: “Salvo quanto previsto dall’art. 1, comma 2, le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo. Relativamente ai tributi periodici, le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono”.
L’art. 39, comma 2, della Finanziaria, inoltre, risulterebbe in contrasto con quanto previsto dall’art. 3, comma 2 dello Statuto che così recita: “In ogni caso, le disposizioni tributarie non possono prevedere adempimenti a carico dei contribuenti la cui scadenza sia fissata anteriormente al sessantesimo giorno dalla data della loro entrata in vigore o dell’adozione dei provvedimenti di attuazione in esse espressamente previsti”.
Risulterebbero evidenti, pertanto, le numerose incongruenze esistenti tra le disposizioni contenute nella legge 212/2000 e quelle introdotte successivamente dalla Finanziaria 2001.

Questa, quindi, la posizione di alcuni autori[5], ma anche del Ministero delle Finanze, che in un’importante circolare[6] del novembre 2000, alla lettera A) del paragrafo 2, ”Disposizioni rivolte al legislatore”, così dispone: “(…) il legislatore dello Statuto si propone di creare le basi, in ambito tributario, per una produzione normativa più stabile nel tempo, oltre che più chiara ed organica nelle modalità di formulazione tecnica. Avendo tuttavia pari dignità rispetto alla legge ordinaria, le nuove norme non raggiungono la stessa forza cogente della legge di rango costituzionale. Da ciò discende che esse non hanno valore assoluto, per cui le leggi successive regolanti analoghe materie potrebbero in linea di principio derogarvi, sia pur nel rispetto delle modalità o dei vincoli imposti dalla nuova normativa.
Ancora, la citata circolare prosegue affermando che: “Le norme dello Statuto potranno essere derogate o modificate da leggi ordinarie solo espressamente e non potranno mai essere modificate o derogate da leggi speciali (art. 1, comma 1). Tale principio si ispira alla c.d. regola di fissità, in base alla quale le eventuali deroghe future rimarrebbero senza effetto, se non previste espressamente in modo specifico. Inoltre, i decreti legge sono esclusi dalle fonti abilitate ad apportare modifiche strutturali all’imposizione (art. 4) ed a rendere interpretazione autentica (art. 3, comma 1). Anche qui vale l’osservazione secondo cui, collocandosi sullo stesso piano gerarchico della legge ordinaria, essi potrebbero in linea di massima non attenersi a questa prescrizione. Il principio di certezza giuridica è ora affermato anche in campo fiscale, tramite la enunciazione che impedirà alle disposizioni tributarie di avere effetto retroattivo (art. 3, comma 1). Tuttavia, il principio di irretroattività della legge fiscale non ha valore costituzionale (Corte Costituzionale 11 giugno 1999, n. 229). La legge futura, pertanto, potrebbe ugualmente derogarvi, in presenza di espressa volontà in senso contrario rispetto a questa previsione dello Statuto, salvo il vincolo di ragionevolezza (art. 3 della Costituzione) sempre vagliabile dal Giudice delle leggi”.
Le suddette osservazioni, a parere di chi scrive, possono condividersi anche con specifico riferimento al principio di irretroattività della legge fiscale che non avrebbe valore costituzionale (C. Cost. 11 giugno 1999, n. 229), per cui “la legge futura potrebbe ugualmente derogarvi in presenza di espressa volontà in senso contrario rispetto a questa previsione dello Statuto, salvo il vincolo di ragionevolezza (art. 3 cost.) sempre vagliabile dal Giudice delle leggi”.
Si ritiene, però, che anche le altre leggi successive allo Statuto e regolanti analoghe materie, potrebbero, in linea di principio, derogare le norme dello stesso, ma dovrebbero rispettarne le modalità o i vincoli imposti dalla nuova normativa, così come precisato, anche, dalla stessa circolare. Pertanto, laddove detti vincoli e modalità non fossero rispettati, le norme future non potrebbero sottrarsi al principio del “vincolo di ragionevolezza sempre vagliabile dal Giudice delle leggi”.
Tale principio è stato ribadito dalla Corte Costituzionale proprio con riferimento all’art. 53 Costituzione, laddove si ribadisce chiaramente che “Il precetto enunciato nell’art. 53, comma 1, citato va interpretato quale specificazione del generale principio di uguaglianza, nel senso che a situazioni uguali devono corrispondere uguali regimi impositivi e, correlativamente, a situazioni diverse un trattamento tributario diseguale. Sul piano garantistico costituzionale, esso deve essere inteso come espressione dell’esigenza che ogni prelievo tributario abbia causa giustificatrice in indici concretamente rivelatori di ricchezza. In riferimento a tali indici, costituenti il presupposto dell’imposizione tributaria, i soggetti rivelano capacità contributiva e idoneità alla obbligazione d’imposta, deducibile esclusivamente dal collegamento fra i soggetti medesimi e le fattispecie cui la norma tributaria attribuisce tale efficacia, secondo valutazioni riservate al legislatore. Il che, secondo il disposto dell’art. 53, comma 1, Cost., cui deve riconoscersi valore precettivo e non meramente programmatico e applicabilità anche in materia d’imposte indirette, non esclude tuttavia il controllo della legittimità della norma sotto il profilo dell’assoluta arbitrarietà ed irrazionalità (C. Cost., 6 /7/1972, n°120, Giur. Cost., 1972, p. 1289; Giust. Civ., 1972, III, p. 229).
Ne consegue, a parere di chi scrive, che, anzitutto, l’art. 1, comma 1, dello Statuto stabilisce un’attuazione degli artt. 3, 23, 53 e 97 della Costituzione e la valenza di principi generali nell’ordinamento tributario dello Statuto stesso. In secondo luogo, contrariamente a quanto già rilevato in generale in ordine al valore delle disposizioni del medesimo Statuto, con la Legge Finanziaria del 23/12/2000, n. 388 non risultano rispettate le modalità ed i vincoli imposti dalla nuova normativa.
Infine, la Legge Finanziaria 2001 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato), in un contesto più generale e non proprio specifico, è stata emanata il 23/12/2000, prima ancora che lo Statuto diventasse efficace a norma dell’art. 16 dello stesso e non sono stati considerati, con parziale inosservanza della delega del legislatore, i contrasti sopra riportati nelle norme correttive di cui al Decreto Lgs. n. 32 del 26 gennaio 2001, recante “Disposizioni correttive alle leggi tributarie vigenti, a norma dell’art 16 della legge 27 luglio n. 212, concernete lo statuto dei diritti del contribuente”, emanato dal Governo delegato nei termini dei 180 giorni così come previsto e prescritto dall’art. 16 citato.
Concludendo sul punto, e a proposito delle osservazioni di cui al punto 5), potrebbe, a parere di chi scrive, ritenersi anche per tali incongruenze, la violazione del principio di ragionevolezza e di razionalità, se non di arbitrarietà, da sottoporre al Giudice delle leggi sulla base della sentenza della Corte Costituzionale n°229/1999, anche con riferimento all’art. 53 della Costituzione.

Nonostante le rilevate contraddizioni del legislatore, di cui si è fatto cenno, tuttavia, si è dell’avviso che la legge n. 212/200 rimane uno strumento di importanza fondamentale per la tutela dei diritti del contribuente, soprattutto a fronte del notevole aumento del numero di contenziosi tra amministrazione finanziaria ed utenti.

II – GIUSTO PROCESSO. PRINCIPI GENERALI
A questo punto, avendone già accennato in premessa, è opportuno verificare se l’istituto esaminato possa considerarsi in linea con il principio del “giusto processo”.
In particolare, con lo Statuto del contribuente si è cercato di dare una nuova veste ai rapporti intercorrenti tra il cittadino e l’amministrazione finanziaria, soprattutto in vista del principio di cui all’articolo 111 della Costituzione, novellato, che mira ad un’effettiva parità processuale tra le parti in qualunque tipo di giudizio.
Il suddetto articolo, infatti, ha recentemente subìto delle importanti modifiche ad opera della legge costituzionale 2/99 “Inserimento dei principi del giusto processo nell’art. 111 della Costituzione” (pubblicata nella G.U. n. 300 del 23 dicembre 1999). In particolare, sono stati inseriti cinque nuovi commi, il primo dei quali afferma che “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”; mentre il successivo indica quali requisiti fondamentali alla base di ogni processo, il “contraddittorio tra le parti in condizione di parità”, la “terzietà ed imparzialità del giudice”, la “ragionevole durata”.
Il terzo comma, invece, richiama le garanzie riconosciute dall’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo alla persona accusata di un reato nel processo penale.
Il quarto ed il quinto comma, infine, affermano che il processo penale è regolato dal “principio del contraddittorio” nella formazione della prova e che la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore.
In tal modo, quindi, si è colmata una lacuna della nostra Costituzione che, precedentemente, sempre con l’art. 111, si occupava esclusivamente dei provvedimenti giurisdizionali e della loro impugnazione, omettendo riferimenti al “processo” che, invece, costituisce il presupposto fondamentale dei provvedimenti stessi.
E’ stato grazie alla giurisprudenza della Corte Costituzionale, infatti, che si è potuto costruire un concetto di “giusto processo”, peraltro già ravvisato nei principi contenuti nella prima parte della Costituzione. Occorreva, tuttavia, una previsione costituzionale esplicita, soprattutto in considerazione della notevole evoluzione subita dal principio in esame dal 1948 in poi.
Numerosi sono, infatti, le convenzioni e i patti internazionali in cui il concetto del “giusto processo” ricorre (“Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” di New York del 1948; “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” di Roma del 1950; “Patto internazionale sui diritti civili e politici” di New York del 1966; “Convenzione americana sui diritti umani” del 1969; “Statuto istitutivo della Corte Penale Internazionale” del 1998).
Il principio di “giusto processo”, naturalmente, è applicabile ad ogni tipo di procedimento giudiziario e, di conseguenza, anche a quello tributario, caratterizzato, peraltro, dalla presenza di parti in causa che non si trovano propriamente in una situazione di vera e propria parità data, forse, la preminenza dell’attore pubblico (il Ministero delle Finanze) sul contribuente.

A) PARTI DEL PROCESSO TRIBUTARIO. CONTRADDITTORIO
In materia tributaria, comunque, il concetto di “contraddittorio tra le parti”, era già contenuto nell’art. 10 del D. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 in cui si legge che “sono parti nel processo dinanzi alle Commissioni tributarie oltre al ricorrente, l’ufficio del Ministero delle Finanze o l’ente locale o il concessionario del servizio di riscossione che ha emanato l’atto impugnato o non ha emanato l’atto richiesto ovvero, se l’ufficio è un centro di servizio, l’ufficio delle entrate del ministero delle finanze al quale spettano le attribuzioni sul rapporto controverso”; ma anche negli artt. 23 e 16 dello stesso decreto che disciplinano la costituzione delle parti in giudizio analogamente a quanto previsto dall’art. 101 c.p.c. e la notifica della copia del ricorso giurisdizionale.
Una delle parti in causa, tuttavia, sembrerebbe trovarsi, prima facie, in una posizione privilegiata[7], poiché, a norma del 4° comma dell’art. 1 del Decreto lgs. n. 545 “Ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria”, “Il numero delle sezioni di ciascuna commissione può essere adeguato, in relazione al flusso medio dei processi, con decreto del Ministro delle Finanze di concerto con il Ministro del tesoro ed il Ministro della giustizia”. Il comma successivo, poi, dispone che per l’istituzione di nuove commissioni occorre un analogo Decreto del Ministro delle Finanze, sempre coadiuvato dai Ministri del Tesoro e della giustizia.
A norma dei commi 1, 5 e 6 dell’art. 9 dello stesso decreto, inoltre, “I componenti delle commissioni tributarie sono nominati con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministro delle finanze”; quest’ultimo, inoltre, “stabilisce con proprio decreto il termine e le modalità per le comunicazioni di disponibilità agli incarichi da conferire” nonché le esclusioni previste in caso di assenza dei requisiti previsti.
Anche nell’ambito del trattamento economico dei giudici tributari (ex art. 13 del decreto n. 545), è previsto l’intervento del Ministro delle Finanze che, sempre con decreto, di concerto con il Ministro del Tesoro, “determina il compenso fisso mensile spettante ai componenti delle commissioni tributarie”, nonché un compenso aggiuntivo per ogni ricorso definito, anche se riunito ad altri ricorsi.
Il medesimo Ministro, poi, interviene, sempre a mezzo di decreto, in caso di procedimenti disciplinari (ex art. 16, 6° comma del decreto in esame) le cui sanzioni deve essere deliberate dal consiglio di presidenza della giustizia tributaria.
Quest’ultimo organo, inoltre – la cui composizione è regolato dall’art. 17 del decreto citato e che costituisce l’organo di autogoverno della magistratura tributaria – “è costituito con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro delle Finanze, ed ha sede in Roma presso il Ministero delle Finanze”.
Le elezioni di tale consiglio, poi, a norma dell’art. 21 del decreto n. 545/1992, “(…) sono indette con decreto del Ministero delle finanze pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana almeno trenta giorni prima della data stabilita”. L’ufficio elettorale centrale, infine, è istituito presso il medesimo Ministero che provvede alla relativa nomina.
Del resto, nell’art. 24, relativo alle attribuzioni del consiglio di presidenza, si legge che tale organo “formula al Ministro delle finanze proposte per l’adeguamento e l’ammodernamento delle strutture e dei servizi; (…) predispone elementi per la redazione della relazione del Ministro delle finanze; (…) “ esprime parere sulla ripartizione fra le commissioni tributarie dei fondi stanziati nel bilancio del Ministero delle finanze per le spese di loro funzionamento”.
Ancora, lo scioglimento dell’organo in esame, “qualora ne sia impossibile il funzionamento” è previsto, a norma dell’art. 28 del decreto, con “decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministero delle finanze, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri”.
A norma dell’articolo successivo, inoltre, “Il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro delle finanze hanno facoltà di chiedere al consiglio di presidenza e ai presidenti delle commissioni informazioni circa il funzionamento della giustizia tributaria ed i relativi servizi (…). Il Ministro delle finanze presenta entro il 31 dicembre di ogni anno una relazione al Parlamento sull’andamento dell’attività degli organi di giurisdizione tributaria sulla base degli elementi predisposti dal consiglio di presidenza”.
Secondo quanto disposto dall’art. 32 del decreto n. 545, “Agli uffici di segreteria delle commissioni tributarie sono addetti dipendenti del Ministero delle finanze (…)”. Quest’ultimo, di concerto con il Ministero del tesoro, “con proprio decreto determina ogni anno le variazioni da apportare alle dotazioni di contingente in relazione alle variazioni del numero di sezioni e del flusso dei ricorsi presso ogni commissione tributaria”.
L’articolo successivo, poi, prevede che “al personale addetto agli uffici di segreteria delle commissioni tributarie spetta il trattamento economico previsto per le rispettive qualifiche dalle disposizioni concernenti il personale del Ministero delle finanze” e che “l’attribuzione delle indennità (sia) fatta con decreto del Ministro delle finanze, di concerto con il Ministro del tesoro”.
Per quanto riguarda l’insediamento delle commissioni tributarie, l’art. 42 del decreto citato dispone che esso avvenga, in unica data, “entro il 1° aprile 1996 con decreto del Ministro delle finanza pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana almeno 60 giorni prima”.
L’articolo successivo, infine, ha previsto che i primi componenti delle commissioni tributarie regionali e provinciali rivolgessero la domanda di nomina “al Ministro delle finanze con le modalità ed entro i termini (…) stabiliti dallo stesso Ministro”. Quest’ultimo, inoltre, ha provveduto alla designazione di una commissione adibita alla formazione degli elenchi per la nomina a presidente di sezione, a vicepresidente e a giudice, ma anche alla proposta delle “nomine dei componenti (delle) commissioni tributarie provinciali e regionali nella prima applicazione del decreto”, poi disposte con decreto del Presidente della Repubblica.
L’intervento costante del Ministero delle Finanze all’interno del decreto che disciplina la composizione delle commissioni tributarie, come si può notare, è indiscutibile. Proprio questa sua caratteristica, tuttavia, potrebbe facilmente dare adito a critiche negative a causa della possibile mancanza di imparzialità della giurisdizione tributaria sia dal punto di vista formale sia da quello sostanziale (art. 104, 1° comma, Cost.)
Nel processo tributario, infatti, le parti in causa sono, da un lato, il cittadino-contribuente e, dall’altro, l’amministrazione finanziaria. Entrambi i soggetti dovrebbero avere diritto ad essere giudicati in modo assolutamente neutrale dai giudici che, in quanto tali, devono essere super partes. Nel procedimento davanti alle commissioni tributarie, tuttavia, questo diritto, a parere di alcuni, non sarebbe tutelato in modo congruo, proprio a causa dell’eccessiva dipendenza della giurisdizione tributaria dal Ministero delle finanze – che è anche parte in causa – per quanto concerne sia la fase organizzativa sia la fase gestionale.
Verrebbe meno, in tal modo, uno dei requisiti fondamentali previsti dall’art. 111 della Costituzione – così come novellato dalla legge n. 2/99 – vale a dire la c.d. “terzietà ed imparzialità del giudice”.
Affinché tale principio venga rispettato, quindi, si auspicano interventi atti a riconsiderare l’intera impostazione della questione, magari prevedendo l’affidamento delle funzioni ora di pertinenza del Ministero delle finanze ad altro organo “estraneo” al contraddittorio tributario, sì da garantire un’effettiva parità processuale tra le parti.

B) DIVIETO DI PROVA TESTIMONIALE E GIURAMENTO NEL PROCESSO TRIBUTARIO – INTERROGATORIO LIBERO
A titolo esemplificativo, sempre in tema di principi che risulterebbero contrastanti con quelli del “giusto processo”, occorre ricordare l’art. 7 del Decreto lgs. n.546/1992 che, al suo 4° comma, prevede la non ammissibilità del giuramento e della prova testimoniale. Secondo alcuni autori, tale divieto costituirebbe una penalizzazione della sfera difensiva del contribuente attesa invece la facoltà, per l’amministrazione finanziaria, di assumere facilmente informazioni di vario tipo grazie anche alla collaborazione della Guardia di Finanza.
La Corte Costituzionale, tuttavia, con ordinanze n. 506 del 10/12/1987 e n. 76 del 23/2/1989, e con la recente sentenza n. 18 del 21 gennaio 2000, ha affermato che “l’esclusione della prova testimoniale nel processo tributario non costituisce, di per sé, violazione del diritto di difesa, potendo quest’ultimo, ai fini della formazione del convincimento del giudice, essere diversamente regolato dal legislatore, nella sua discrezionalità, in funzione delle peculiari caratteristiche dei singoli procedimenti”. La Corte, inoltre, ha proseguito disponendo l’ammissibilità, in sede processuale, delle dichiarazioni rese da terzi, nella fase di accertamento, agli organi dell’Amministrazione finanziaria. Tali dichiarazioni, tuttavia, non hanno valore di testimonianza ma di elementi indiziari che “mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione”.
Secondo alcuni autori[8], la sentenza della Corte, testè richiamata, ha delineato un sistema che “da un lato, sacrifica la prova testimoniale e, dall’altro, riconosce efficacia probatoria e dichiarazioni di scienza, e, quindi, pur sempre di contenuto testimoniale, ma assunte senza le garanzie che sono proprie della prima”.
Si aggiunge[9], inoltre, che “La Corte Costituzionale, per il caso in cui il contribuente contesti la veridicità delle dichiarazioni di terzi, pur riconoscendo a queste ultime un valore probatorio ridotto ai minimi termini, non ha potuto fare a meno di ammettere che, nella situazione ipotizzata, la Commissione tributaria, ove le parti ne facciano richiesta, può e deve rinnovare e, se del caso, integrare l’attività istruttoria svolta dall’ufficio impositivo facendo uso degli ampi poteri inquisitori ad essa attribuiti dal primo comma dell’art. 7 (D. lgs. 31 dicembre 1992, n° 546). Con questa conseguenza assai poco soddisfacente: che tale istruttoria suppletiva è destinata ad allungare i tempi di durata del processo tributario più di quel che si verificherebbe se i terzi potessero essere ascoltati in udienza quali veri e propri testimoni; e ciò proprio in barba alle esigenze in vista delle quali si assume essere stato sancito dal comma 4 dell’art. 7”.
Ancora, sembra interessante l’ulteriore rilievo dello stesso autore[10], secondo cui: “L’esistenza di limiti probatori in ambito giurisdizionale tributario appare, poi, difficilmente giustificabile, in riferimento alle diverse regole stabilite dal Codice di procedura penale che trovano applicazione nel processo penale tributario. Si pensi al presunto evasore fiscale imputato, ex art. 4, D. Lgs. n. 74/2000, del delitto di dichiarazione infedele, il quale si configura allorquando l’imposta evasa risulti superiore a lire 200 milioni e l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione (anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi) superi del 10% l’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o sia comunque superiore a lire 4 miliardi. Ebbene, verificandosi tali fattispecie, il contribuente potrà difendersi in sede penale con l’ausilio della prova testimoniale, strumento che invece gli sarà precluso davanti al giudice tributario la cui tutela avesse invocato, qualora l’illecito fiscale contestatogli non superi la suddetta soglia di punibilità. Si potrebbe giungere a pensare che lo Stato si accontenti di un grado di giustizia minore in sede tributaria, salvo riconoscere al cittadino-contribuente piene garanzie difensive a condizione che commetta una più grave violazione fiscale. Concludendo, si deve ritenere che la modifica dell’art. 111 della Costituzione non potrà essere a lungo ignorata dal legislatore anche in sede di regole processuali tributarie. Si impone ormai la realizzazione del “giusto” processo tributario, la quale implica innanzitutto la rimozione dei limiti probatori e la piena attuazione del diritto alla prova. D’altro canto, l’aver conferito al giudice tributario (art. 7, comma 1, D. Lgs. n. 546/1992) ampi poteri istruttori in ordine all’integrazione dell’attività svolta dagli Uffici finanziari, non costituisce certamente espressione di un sistema processuale modellato sui principi della parità tra accusa e difesa e del contraddittorio, bensì è indice della natura eccessivamente inquisitoria del processo tributario”.
Pur apprezzando quanto rilevato dagli autori sopra richiamati, si osserva, anzitutto, che la sentenza della Corte Costituzionale esaminanda non ha certamente stabilito un nuovo mezzo di prova da aggiungere a quelli già esistenti nel rito processuale civile per il richiamo di cui all’art. 1, comma 2 del D. Lgs. 31/12/1992, n° 546, limitandosi a riconoscere efficacia probatoria a dichiarazioni di scienza che possono, non da sole, concorrere a formare il convincimento del giudice.
Ciò precisato, è più agevole condividere le osservazioni esposte dagli autori per ultimo richiamati, anche se non si conviene, da parte di chi scrive, per quanto concerne gli “ampi poteri istruttori da parte del giudice tributario (art. 7, comma 1 già cit.) in ordine alla integrazione dell’attività svolta dagli uffici finanziari che non costitui(rebbe) certamente espressione di un sistema processuale modellato sui principi della parità tra accusa e difesa nonché del contraddittorio, bensì è indice della natura eccessivamente inquisitoria del processo tributario”.
Si deve riconoscere, invece, che il legislatore del 1992 ha confermato gli indispensabili poteri delle commissioni tributarie ai fini istruttori. Ed, inoltre, ha previsto che le stesse commissioni possano disporre, anche d’ufficio una consulenza tecnica con compensi spettanti ai consulenti tecnici non eccedenti quelli previsti dalla L. 8/7/1980, n. 319 e successive modificazioni ed integrazioni; fermo restando l’onere delle stesse secondo il principio della soccombenza. A differenza di quanto consentito dall’art. 35 del D.P.R. 636/1972 che, invece, prevedeva: “La parte che vi abbia interesse, può chiedere la nomina di un consulente tecnico d’ufficio e ne sopporta le spese”.
Inoltre, deve osservarsi con riferimento a quanto esposto in tema di “prova testimoniale indiziaria”, che possa applicarsi, anche nel rito tributario, l’art. 116 del c.p.c., secondo cui: “il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti….. e può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti danno a norma dell’art. 117, stesso codice, .…. (“interrogatorio non formale delle parti”) che stabilisce “la facoltà del giudice di ordinare, in qualunque stato o grado del processo, la comparizione personale delle parti in contraddittorio tra loro per interrogarle liberamente sui fatti della causa e le stesse parti possono farsi assistere da un difensore”.
Tale possibilità, a parere di chi scrive, può evincersi dal combinato disposto di cui all’art. 61 del D. Lgs. n°546/1992, relativo alle norme applicabili nel procedimento di appello, nonché all’art. 49 dello stesso decreto in ordine alla applicabilità delle disposizioni del Titolo III, Capo I, del Libro II del codice di procedura civile, escluso l’art. 337 e fatto salvo quanto disposto nello stesso decreto; ancora, all’art. 359 del c.p.c. in ordine al rinvio, nei procedimenti di appello, “in quanto applicabili, alle norme dettate per il procedimento di primo grado davanti al tribunale se non sono incompatibili con le disposizioni dello stesso Capo”. Con conclusivo effetto dell’applicabilità degli artt. 116 e 117 c.p.c., anche al procedimento tributario, in ossequio al disposto dell’art. 1 del D. Lgs. n°546/1992, comma secondo, in base al quale: ”i giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esso non disposto (è il caso degli artt. 116 e 117 cit.) e con esse compatibili, le norme del c.p.c.”.
Queste conclusioni, sempre a parere di chi scrive, da un lato, possono costituire motivo per avere delle perplessità in ordine ai mezzi di prova c.d. “testimoniale indiziaria”; mezzi che non siano quelli ricavabili dall’interrogatorio libero delle parti, come sopra precisato, ma non di terzi. Si rende, d’altronde, comunque, più agevole il compito del giudice tributario quando trovasi al cospetto della necessità di prove “testimoniali e indiziarie”, delle quali si è interessata la Corte Costituzionale con la sentenza sopra indicata; avvalendosi contestualmente o esclusivamente dell’applicazione degli artt. 116 e 117 c.p.c. e soddisfare, così, più adeguatamente la parità di trattamento tra le parti davanti al giudice ai fini del prudente apprezzamento delle prove, dei fatti e della decisione. (art. 111 della Cost. Novellato).

Infine, l’art. 22, 1° comma, del citato decreto, prevede che “il ricorrente, entro trenta giorni dalla proposizione del ricorso, a pena d’inammissibilità deposita, nella segreteria della commissione adita, l’originale del ricorso notificato a norma degli artt. 137 ss. c.p.c.(…). L’art. successivo, tuttavia, disponendo che “l’ufficio del ministero delle finanze, l’ente locale o il concessionario del servizio di riscossione nei cui confronti è stato proposto il ricorso si costituiscono in giudizio entro 60 giorni dal giorno in cui il ricorso è stato notificato, consegnato o ricevuto a mezzo del servizio postale, e non prevedendo, pertanto, un analogo termine perentorio, lascerebbe pensare alla possibilità, per la parte resistente, di una costituzione tardiva, che lederebbe il principio di parità, correttezza e lealtà processuale.

CONCLUSIONI
In conclusione, dalla lettura attenta dello Statuto del contribuente e dei principi del “giusto processo”, come già precisato in premessa, si può evincere una linea di sviluppo incredibilmente armonica tra normative apparentemente differenziate dal punto di vista cronologico, ma in realtà convergenti e attuative di una giustizia “giusta” correlata ad una giusta legislazione, sia a livello nazionale sia a livello europeo per quanto concerne gli indispensabili strumenti di operatività al di fuori ed all’interno di qualsivoglia riforma.
Si può notare, ad esempio, come, in alcune norme dello Statuto, ricorra proprio la corrispondenza legislativa nell’ottica del “giusto processo”: si veda, a titolo dimostrativo, l’art. 7 dello Statuto, concernente la “chiarezza e la motivazione degli atti”, in cui si afferma che “gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati (…) indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione”. Naturalmente, la chiarezza dell’atto ricevuto, nonché la sua motivazione, mettono in condizione il contribuente di poter conoscere le pretese della controparte e di poter preparare la propria linea di difesa per far tutelare i propri diritti.
Ancora, l’art. 5, prevedendo il dovere, per l’amministrazione finanziaria, di “assumere idonee iniziative volte a consentire la completa e agevole conoscenza delle disposizioni legislative e amministrative vigenti in materia tributaria (…)”, mira a tutelare il contribuente e a porlo, rispetto all’ente pubblico, in una posizione di parità e di effettiva cognizione della normativa.
Infine, anche l’art. 1, mira ad una tutela del soggetto debole, quale è il cittadino, prevedendo che le disposizioni dello Statuto “costituiscono i principi generali dell’ordinamento tributario e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali”: in tal modo, quindi, si è voluto evitare un avvicendamento di leggi e leggine che potessero minare la chiarezza del processo tributario e la condizione di parità delle parti, così come stabilito dal nuovo art. 111 della Costituzione.

Appare chiara, dunque, la portata innovativa della legge n. 212/2000 che, con i suoi principi, mira ad un’effettiva protezione dei diritti del cittadino e ad una loro più completa attuazione nell’ambito del processo tributario.
Si auspicano, al riguardo, maggiori interventi di questo tipo, sì da giungere alla completa attuazione dei principi contenuti nel nuovo articolo della nostra carta costituzionale, primi fra tutti, quelli del “contraddittorio tra le parti in condizione di parità” e della “terzietà ed imparzialità del giudice”.

Prof. Dott. Angelo Sodo
Procuratore generale della Corte Suprema di Cassazione (a.r.)
Presidente della Commissione tributaria regionale della Puglia (Sez. stacc. Lecce)
Docente del Corso di Perfezionamento di Diritto Tributario presso l’Università di Bari

Dott. Rita Sodo
Dottore in giurisprudenza Università Statale di Milano
[1] PdL C.5079/90, PdL C.254/92, PdL C.1124/92, PdL C.1125/92, PdL C.391/94, PdL S.1244/94, PdL C.324/96, PdL C.1286/96, PdL C.4546/98, PdL C.4818/98.
[2] Tale punto della norma era già previsto dall’art. 6, comma 2, D. lgs. n. 472/97 che dichiara non punibile l’autore della violazione che sia determinata dall’incertezza della norma (c.d. “errore di diritto incolpevole”).
[3] In particolare, le modifiche riguardano: D.P.R.. 29 settembre 1973, n. 600, concernente l’accertamento delle imposte sui redditi; D.P.R.. 26 ottobre 1972, n. 633, in materia di imposta sul valore aggiunto; Decreto lgs. 18 dicembre 1997, n. 462, concernente l’unificazione ai fini fiscali e contributivi delle procedure di liquidazione, riscossione ed accertamento; T.U. delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, approvato con D.P.R.. 26 aprile 1986, n. 131; T.U. delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni, approvato con decreto lgs. 31 ottobre 1990, n. 346; Decreto lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, concernente la liquidazione e l’accertamento dell’imposta comunale sugli immobili; Decreto lgs. 15 novembre, n. 507, recante revisione ed armonizzazione di tributi locali; Decreto lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, concernente disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni tributarie; D.P.R.. 29 settembre 1973, n. 602, concernente la riscossione dei tributi; Decreto lgs. 8 novembre 1990, n. 374, concernente il riordinamento degli istituti doganali e la revisione delle procedure di accertamento; Decreto-legge 21 giugno 1961, n. 498.
[4] Vedi Italia Oggi del 23 dicembre 2000, pag. 25.
[5] Vedi Italia Oggi, 23 dicembre 2000, pag. 25.
[6] Ministero delle Finanze, Dipartimento delle entrate – Direzione regionale delle entrate per la Puglia, Circolare n.6/UDR/2000 del 28/11/2000, oggetto: Statuto del contribuente. Legge 27 luglio 2000, n. 212.
[7] Vedi, sull’argomento, Villani Maurizio, Per un “giusto” processo tributario, Congedo editore, 2000.
[8] Del Sole A., Ingiusto processo tributario, in Corriere Tributario, n° 37/2000, p. 2710; Russo P., Il divieto della prova testimoniale nel processo tributario: un residuato storico che resiste all’usura del tempo, in Rass. Trib. n° 2/2000, pp. 567 ss.
[9] Vedi nota precedente.
[10] Del Sole A., op. cit.

Redazione

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