Lo straniero extracomunitario tra diritto amministrativo e diritto penale

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Il Consiglio di Stato viene nuovamente chiamato a derimere e delineare i complessi rapporti che regolano i provvedimenti amministrativi in materia di permanenza dello straniero extracomunitario sul territorio nazionale, il quale sia stato in precedenza sottoposto a procedimento penale, che sia stato definito con il ricorso al rito di cui all’art. 444 c.p.p., cioè il patteggiamento.
Il caso specifico attiene al diniego di rilascio della carta di soggiorno, cioè di quel documento che la persona extracomunitaria è legittimata a richiedere una volta trascorso un ininterrotto periodo di soggiorno di sei anni in Italia a precise condizioni, tratteggiate nel co. 1 ° dell’art. 9 d.l.vo 286/98.
Nella fattispecie che ci occupa, il Consiglio di Stato ha operato un rigoroso richiamo alla circostanza ostativa prevista dal comma 3° della citata disposizione normativa.
Quest’ultima è certamente previsione che mira a selezionare gli aspiranti all’ottenimento della carta di soggiorno, sulla base di una valutazione della presonalità degli stessi, in forza della considerazione che il rilascio della carta di soggiorno allo straniero extracomunitario favorisce – ai sensi del comma 4° dell’art. 9 – l’accesso a tutta una serie di diritti potestativi (quindi una situazione che eccede la mera facoltatività) significativamente di maggiore ampiezza e rilevanza di quelli riconosciuti al titolare del permesso di soggiorno.
Dunque, la qualificazione del rapporto fra Stato e cittadino straniero extracomunitario esige e presuppone che l’utente non versi in una condizione preliminare, tale da suscitare allarme sociale ed implicito legittimo sospetto di possibili ricadute recidivanti.
Quest’ultimo aspetto, anche se non espressamente previsto, può essere agevolmente desunto dalla circostanza che il legiuslatore ha previsto la possibilità di emendare la situazione ostativa, una volta che la persona abbia ottenuto la riabilitazione ai sensi del combinato disposto dagli artt. 178 c.p. e 683 c.p.p. .
Venendo al punctum dolens della vicenda, si può e si deve osservare che il pensiero dei giudici amministrativi appare del tutto ortodosso rispetto alla ratio della norma, che, come detto, riguardando la concessione di un’autorizzazione amministrativa qualificata, cioè di particolare rilievo e pregnanza per l’espansione appare improntata ad un rapporto assai stretto e rigoroso fra diritto in via di acquisizione ed assenza di elementi soggettivi negativi.
Tra questi viene fatta rientrare anche la sentenza resa dal giudice penale, quale ratifica del negozio processuale che vede come contraenti – ai sensi dell’art. 444 c.p.p. – il P.M. e l’imputato (od il suo difensore munito di procura speciale), in quanto siffatta sentenza deve essere considerata a tutti gli effetti come pronunzia di condanan, che accerta la responsabilità penale del soggetto patteggiante.
Si tratta, quindi, di una evidente modifica delle posizioni che altre sezioni del Consiglio di Sato avevano asusnto in proposito.
Va, in fatti, ricordato che la Sez. V, con la pronunzia 13-07-2006, n. 4417, A.P. c. Azienda Sanitaria Locale N. Omissis, precisò che le sentenze emesse ai sensi dell’art. 444 c.p.p., non potevano essere equiparabili a tutti gli effetti ad una sentenza di condanna e, quindi, non possono essere assunte a presupposto unico dell’applicazione del provvedimento sanzionatorio, pur riaffermando l’impossibilità ad escludere da siffatta premessa ogni rilevanza disciplinare della pena c.d. "patteggiata", giacché questa si fonda sempre sulla ritenuta imputabilità di un reato ad un soggetto ad opera di un Giudice competente.
Va indi, ancora, sottolineato come la stessa Sez. VI del Consiglio di Stato, recentemente, sentenza del 23-02-2007, n. 990, (R.M. c. Questura di Brescia), ha individuato una precisa distinzione fra sentenza di condanna o patteggiata, ponendosi, dunque, in evidente disarmonia rispetto all’orientamento preminente (V, ex plurimis Cass. pen. Sez. I, 12-04-2006, n. 16026 (rv. 234135), CED Cassazione, 2006, Arch. Nuova Proc. Pen., 2007, 3, 402, Riv. Pen., 2007, 3, 333) che, invece, ha sempre sostenuto che la sentenza di patteggiamento deve essere equiparata ad una sentenza di condanna e, quindi, deve venire considerata come dotata di efficacia extra-procedimentale.
Si tratta di una impostazione che si è rifatta alla presa di posizione delle Sez. Unite, [sentenza 29-11-2005, n. 17781 (rv. 233518), D., CED Cassazione, 2006, Arch. Nuova Proc. Pen., 2006, 5, 490, Arch. Nuova Proc. Pen., 2007, 2, 226, Riv. Pen., 2007, 1, 84] che hanno ravvisato quale titolo per ritenere la sentenza di patteggiamento, giudicata vera e propria sentenza di condanna, quello dell’equiparazione legislativa fra le due ipotesi in discussione.
In questo modo e così opinando, la giurisprudenza ha riempito di pregnante contenuto confirmativo quella locuzione, contenuta nell’alinea del comma 1 bis dell’art. 444 c.p.p., che già di per sé sanciva il principio secondo il quale “salve diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata ad una pronunzia di condanna”.
Sotto quest’ultimo profilo, poi, si deve rilevare che l’equiparazione della sentenza di patteggiamento alla sentenza di condanna resa all’esito del dibattimento o del giudizio abbreviato, nonpare circoscritta al solo aspetto formale, ma pare espandersi anche sul piano materiale.
Vale a dire che la circostanza che la sentenza patteggiata presupponga necessariamente che il giudice pervenga ad affermare, preliminarmente, l’esclusione della ricorrenza delle condzioni di applicabilità dell’art. 129 c.p.p., cioè dell’esistenza di condizioni di proscioglimento dell’imputato dagli addebiti mossigli, permette – dunque – di sostenere la sussistenza, seppure in maniera sommaria, di una valutazione involgente la struttura del fatto ascritto e l’addebitiabilità, in punto di responsabilità, dello stesso all’imputato.
Consegue, quindi, che anche se la ratio e la dommatica che sorregge l’istiuto del patteggiamento non suppongono una ricca e dettagliata ricostruzione del tipo di quella che può avvanire in sede dibattimentale, in relazione al fatto per cui è processo, [nonchè delle specifiche condotte di ogni singolo eventuale protagonista della vicenda giudiziaria], non può assolutamente proclamarsi, nel rito negoziale sulla pena di cui all’art. 444 c.p.p., l’assenza di un accertamento positivo di quei passaggi logico-storici che deve presidiare una giudizio di responsabilità penale.
Ergo senza la necessità di ricorrere a presunzioni (iuris et de iure o iuris tantum non importa) è, peraltro, osservazione palese, a parere dei giudici amministrativi di appello, quella secondo la quale l’opzione, riconosciuta ex lege all’imputato (ed al suo procuratore speciale) e consistente nel domandare ed ottenere la determinazione preventiva e concordata della pena, sia cartina di tornasole del riconoscimento:
  1. della responsabilità in fatto del singolo,
  2. della correttezza del nomen iuris attribuito alla condotta attribuita,
  3. della congruità della sanzione che si intende accettare a proprio carico.
Si potrà opinare, semmai, del rigore in base al quale è stato ispirato il testo dell’art. 9, comma terzo, del d.lgs. n. 286/1998, laddove, nel testo vigente alla data di adozione dell’atto impugnato, individuava come condizione ostativa al rilascio della carta di soggiorno l’ipotesi in cui nei confronti dello straniero “sia stato disposto il giudizio per taluni dei delitti di cui all’art. 380 nonché, limitatamente si delitti non colposi, all’art. 381, o pronunziata condanna anche non definitiva, salvo che abbia ottenuto la riabilitazione”, conferendo, in tale maniera un valore di negativa assimilazione a comportamenti (tutti penalmente rilevanti), peraltro, differenti tra loro sul piano parametrico della gravità e dell’allarme sociale.
E’, infatti, indubbio che esista una patente differenza fra l’insieme dei reati contenuti nella previsione dell’art. 380 c.p.p. e quelli sanciti nel testo dell’art. 381 c.p.p., non foss’altro proprio per la circostanza che nell’un caso si prevede l’obbligatorietà dell’arresto e nell’altro, invece, si sancisce la facoltatività dello stesso.
Una simile scelta, peraltro, non viola il criterio di ragionevolezza razionalità, posto che il legislatore, come si è detto, in precedenza, ha ritenuto che l’acquisizione di un titolo di permanenza sul suolo nazionale, munito di un carattere di notevole espansività, in ordine alla posizioni soggettive di diritto ed alel facoltà di cui può godere il cittadino straniero, debba presuporre nel soggetto che venga a fruire di un siffatta beneficio (un vero privilegio) un’assenza assoluta di elementi negativi e di contrasto con quei parametri cardine del nostro ordinamento giuridico, uno dei quali è proprio quello della tutela dell’alveo sociale, la quale subisce indubbio attentato ogni qualvolta si sia in presenza di commissione di reati e di relative condanne.
 
Rimini, lì   13 Giugno 2007
 
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Consiglio di Stato
 
Sezione VI
 
Decisione 22 maggio 2007, n. 2592
 
Fatto e Diritto
 
1). Con la sentenza di estremi indicati in epigrafe il Tar per la Puglia, sede di Bari, Sez. II^, respingeva il ricorso proposto dal cittadino albanese R. F. avverso il decreto del Questore della Provincia di Bari Cat. A. 12/2004/Imm. n. 6/C.S. del 28.06.2004, recante il rifiuto di rilascio della carta di soggiorno, per essere il predetto straniero incorso con sentenza emessa il 24.07.2003 ai sensi dell’art. 444 c.p.p. in condanna a mesi dieci di reclusione per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e minacce aggravate, nonché a mesi due di arresto per porto abusivo di coltello di genere proibito.
 
Avverso la decisone del Tar per la Puglia il R. ha proposto atto di appello e, a confutazione delle conclusioni del primo giudice, ha dedotto:
 
– che erroneamente si è inteso equiparare la sentenza emessa con il rito del patteggiamento ad una sentenza di condanna in senso stretto, in assenza di un accertamento positivo e costitutivo della responsabilità dell’imputato ove, in particolare, si consideri che all’irrogazione della pena su consenso della parte non segue l’applicazione delle misure di sicurezza ed ogni effetto penale si estingue decorsi cinque anni;
 
– che l’Amministrazione di p.s. non doveva negare con carattere di automatismo il rilascio della carta di soggiorno, ma verificare in concreto la sussistenza degli estremi di pericolosità sociale ostativi al suo rilascio.
 
Il Ministero dell’Interno si è costituito in resistenza.
 
2). L’appello è infondato e la sentenza gravata merita conferma.
 
2.1). L’art. 9, comma terzo, del d.lgs. n. 286/1998, nel testo vigente alla data di adozione dell’atto impugnato, individua come condizione ostativa al rilascio della carta di soggiorno l’ipotesi in cui nei confronti dello straniero “sia stato disposto il giudizio per taluni dei delitti di cui all’art. 380 nonché, limitatamente si delitti non colposi, all’art. 381, o pronunziata condanna anche non definitiva, salvo che abbia ottenuto la riabilitazione”.
 
Si tratta di norma che, nel selezionare le condizioni soggettive per potere aspirare alla stabile permanenza nel territorio nazionale, richiede l’assenza di precedenti per le ipotesi di reato ivi previste, e ciò a garanzia che le condizioni di ordine pubblico non ricevano aggravio per l’ingresso e permanenza nel territorio nazionale di soggetti che siano incorsi in violazioni della legge penale.
 
Se tale è la “ratio” della norma che , peraltro, agli effetti dell’applicazione della preclusione del rilascio della carta di soggiorno non richiede neanche la definitività della condanna e prende in considerazione anche l’ipotesi di solo inizio dell’azione penale, non vi è ragione di escludere dalla sua valenza precettiva i casi in cui la pena per i reati ivi previsti sia stata applicata con il rito di cui all’art. 444 c.p.p.
 
Anche la sentenza emessa nella forma processuale disciplinata dall’art. 444 accerta la responsabilità agli effetti della legge penale, pur se con peculiarità di rito.
 
La semplificazione del procedimento – che muove dal dato confessorio di richiesta di applicazione della pena da parte dell’imputato ed introduce un momento negoziale di prospettazione della sua entità – non sottrae tuttavia l’esito del processo alla potestà esclusiva dello Stato autorità di sanzionare l’illecito penale. Il momento c.d. negoziale investe, invero, il “quantum” della pena, ma non certo il merito della sussistenza degli estremi della responsabilità penale che, ancorché con cognizione sommaria, è sempre accertata dal giudice.
 
Quanto su esposto trova riscontro nella disciplina positiva dell’istituto in base alla quale l’applicazione della pena a seguito del c.d. patteggiamento avviene sempre su motivata valutazione da parte del giudice dell’insussistenza dei presupposti per addivenire ad una sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p. (perché il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato, ecc.) e previo accertamento della corretta qualificazione giuridica del fatto ascritto e delle circostanze ad esso afferenti, quali presupposti della formulazione della richiesta di applicazione negoziata della pena.
 
A mezzo del modello processuale delineato dall’art. 444 c.p.p. e segg. si perviene all’ascrizione dell’illecito penale ad un soggetto determinato, muovendo dall’ammissione di responsabilità dello stesso inquisito congiunta alla proposta dell’applicazione della pena in misura determinata, e lo stesso art. 445, primo comma, c.p.p. espressamente qualifica come “pronuncia di condanna” la sentenza che definisce il processo.
 
Pertanto l’inibitoria al rilascio della carta di soggiorno prevista dall’art. 9, comma terzo, del d.lgs. n. 286/1998 trova applicazione anche nei casi di pene inflitte, per i reati ivi presi in considerazione, con il rito di cui all’art. 444 c.p.p.
 
2.2). A differenza dei casi in cui dai fatti accertati in sede penale si debbano trarre conseguenze ulteriori agli affetti di altre disposizioni di legge (come avviene nei casi di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti per fatti ascritti in sede penale), ove ricorrano precedenti penali quali identificati dal richiamato art. 9 del d.lgs. n. 286/1998 la determinazione del Questore di segno negativo si configura come atto dovuto.
 
Ciò esclude, diversamente da quanto sostenuto dall’appellante, che la predetta Autorità debba procedere caso per caso alla valutazione delle pericolosità sociale dello straniero e della sussistenza di allarme sociale derivante per il suo soggiorno nel territorio dello Stato.
 
Né il criterio di automatismo quanto alla preclusione della permanenza in Italia recepito dall’art. 9, comma terzo, del d.lgs. n. 286/1998 si pone in contrasto con i diritti di libertà personale che risulterebbero, a dire dell’appellante, oggetto di irragionevole compressione, poiché dette prerogative non hanno carattere assoluto, ma devono bilanciasi con altri interessi di rilievo pubblico (nella specie il controllo dei flussi migratori nei loro effetti sulle condizioni di ordine e sicurezza pubblica), così che possono prevedersi limiti e condizioni che nella specie, assumendo e riferimento l’assenza in capo allo straniero di precedenti per reati di maggiore gravità, non si configurano né irragionevoli, né sproporzionati.
 
L’appello va , quindi, respinto.
 
Le spese del giudizio possono essere compensate fra le parti stante anche l’assenza di specifica attività difensiva da parte dell’Amministrazione intimata.
 
3). Il difensore dell’appellante ha prodotto istanza per la liquidazione del compenso per gratuito patrocinio corredata della delibera di ammissione del competente Ordine Professionale per il presente grado di giudizio.
 
L’art. 116 del d.P.R. n. 115/2002, con rinvio al precedente art. 82, rimette all’Autorità Giudiziaria la liquidazione dell’onorario e delle spese al difensore nei limiti dei “valori medi delle tariffe professionali vigenti”, tenuto conto dell’“impegno professionale”. L’art. 2, comma secondo, del d.l. n. 223/2006, convertito nella legge n. 248/2006, ha mantenuto fermo il riferimento alle tariffe professionali agli effetti della liquidazione di compensi per gratuito patrocinio.
 
In relazione alla natura della controversia ed all’impegno professionale richiesto ed applicato l’art. 130 del menzionato D.P.R. n. 115/2002, che dimezza i compensi spettanti ai difensori di soggetti ammessi al gratuito patrocinio, si configura congrua la liquidazione di euro 2000,00 per onorari; euro 620,00 per diritti; euro 340,00 per spese generali, oltre *** e Cap dovuti per legge.
 
P.Q.M.
 
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta:
 
– respinge l’appello in epigrafe.
 
– compensa fra le parti le spese del giudizio;
 
– liquida in favore dell’avv.to **********’******* i corrispettivi per gratuito patrocinio indicati al punto 3) della motivazione;
 
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa

Zaina Carlo Alberto

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