In un panorama in cui cresce sempre più l’interesse per la tutela della salute psicofisica del lavoratore, diviene un’esigenza anche ai fini giuridici, focalizzare l’attenzione sulle problematiche emergenti nei contesti lavorativi. Nasce proprio da questo bisogno, l’individuazione di un grave disagio lavorativo, chiamato Straining, termine coniato dal dott. H. Ege, psicologo specializzato in Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni, esperto del settore tra i primi a tirar fuori l’argomento mobbing in Italia ed a cui si deve il merito di aver scoperto un fenomeno spesso confuso con due delle tematiche conflittuali più conosciute, presenti in ambito lavorativo: il Mobbing appunto e lo Stress occupazionale. Lo Straining, dall’inglese “ to strain”, ha un significato molto simile a quello di “to stress”, stringere, distorcere, mettere sotto pressione e indica, infatti, una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima (il lavoratore), subisce da parte dell’aggressore (lo strainer) che solitamente è un superiore, almeno un’ azione ostile e stressante, i cui effetti negativi sono di durata costante nel tempo. La vittima, inoltre, deve trovarsi in persistente inferiorità rispetto allo strainer, la cui azione viene diretta volontariamente contro una o più persone, sempre in maniera discriminante. Lo Straining, si differenzia dal Mobbing, per il modo in cui è perpetrata l’azione vessatoria. Nello Straining, invece, viene meno il carattere della continuità delle azioni vessatorie. Per parlare di Straining, quindi, è sufficiente anche una sola azione, purché i suoi effetti siano duraturi nel tempo, come nei casi di demansionamento o di trasferimento. Prima che venisse coniato un termine adatto non solo per indicare e descrivere questo tipo di conflitto organizzativo, ma anche in grado di dargli una certa valenza psicologica e giuridica, tra coloro che si ritenevano vittime di Mobbing, erano presenti vicende lavorative che non rientravano oggettivamente in questo fenomeno. Stando così le cose, questi lavoratori non erano in grado di sostenere le loro ragioni in tribunale, e quindi, non era loro riconosciuto il relativo danno causato dalle vessazioni subite. |
Flavia M., neurologa, dipendente dell’Azienda Ospedaliera di Brescia ha chiesto al locale Tribunale, tra l’altro, di condannare al risarcimento del danno non patrimoniale per il trattamento ostile e svilente, definito “mobbing”, tenuto verso di lei dal primario del reparto. Il Giudice ha nominato un CTU che ha accertato un danno biologico del 10% in relazione ad un disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso poi cronicizzato. Sono venuti in considerazione due episodi, verificatisi nel corso di un anno, per i quali il primario è stato condannato in sede penale per l’atteggiamento ingiurioso tenuto verso la collega. Pertanto il Tribunale ha accolto la domanda determinando il risarcimento in € 30.000,00. Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dalla Corte di Brescia, che ha peraltro modificato la qualificazione del trattamento subito dalla neurologa definendolo “straining”.
La Corte ha rilevato che la situazione determinatasi per la lavoratrice poteva essere qualificata come straining ovvero situazione lavorativa conflittuale di stress forzato, in cui la vittima subisce azioni ostili limitate nel numero e/o distanziate nel tempo (quindi non rientranti nei parametri del mobbing) ma tale da provocarle una modificazione in negativo, costante e permanente, della condizione lavorativa; il suddetto “stress forzato” può essere provocato appositamente ai danni della vittima con condotte caratterizzate da intenzionalità o discriminazione – come è avvenuto nella specie per i due episodi che hanno visto il primario come protagonista – e può anche derivare dalla costrizione della vittima a lavorare in un ambiente di lavoro disagevole, per incuria e disinteresse nei confronti del benessere lavorativo; è sufficiente, come si è detto, anche un’unica azione ostile purché essa provochi conseguenze durature e costanti a livello lavorativo, tali per cui la vittima percepisca di essere in una continua posizione di inferiorità rispetto ai suoi aggressori; nella specie si riscontrano tutti i parametri di riconoscimento dello straining: ambiente lavorativo, frequenza e durata dell’azione ostile (nella specie almeno semestrale), le azioni subite appartengono ad una delle categorie tipizzate dalla scienza (che sono: attacchi ai contatti umani, isolamento sistematico, cambiamenti delle mansioni, attacchi contro la reputazione della persona, violenza o minacce di violenza), posizione di costante inferiorità percepita come permanente.
Questa decisione è stata confermata dalla Suprema Corte con sentenza n. 3291 del 19 febbraio 2016 (Pres. Stile, Rel. Tria). Ciò che conta – ha affermato la Cassazione – è che, nella specie, sia stata accertato il compimento di una condotta contraria all’art. 2087 cod. civ. e alla successiva normativa in materia, di importazione comunitaria, senza che abbia rilievo – sotto il profilo di una eventuale ultrapetizione – la originaria prospettazione della domanda giudiziale in termini di danno da mobbing e non da straining, in tale diversa qualificazione (mutuata dalla scienza medica) è stata effettuata dalla Corte bresciana lasciando inalterati sia il petitum che la causa petendi e non attribuendo un bene diverso da quello domandato o introducendo nel tema controverso nuovi elementi di fatto.
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