Partendo dall’assunto teorico secondo cui la causa va intesa alla stregua di un elemento essenziale ai fini della ricostruzione fisiologica dei requisiti componenti e strutturanti il provvedimento amministrativo, è necessario partire proprio dall’analisi della sua nozione per collocare sia a livello semantico sia a livello operativo, la pregnante portata dello sviamento di potere.
Nel diritto amministrativo, infatti, la causa può inerire a due differenti concetti: può introdurre l’elemento finalistico legale astratto (la c.d. causa in senso proprio), ovvero può far insinuare un nuovo elemento, riconducibile -in senso lato- ai c.d. motivi (per utilizzare un lemma più spiccatamente privatistico).
Tali profili pubblico-civilistici, tuttavia, devono essere tenuti separati ed analizzati isolatamente dal momento che soltanto la prima concezione (quella della causa in senso proprio) è idonea a meglio tratteggiare e sussumere la fisiologia e fisionomia dello sviamento di potere.
Se la causa, dunque, gode di un proprio, autonomo, ambito dinamico presso il diritto amministrativo (area semantica impregnata dai principi di tipicità e legalità dell’agere pubblico), essa si identifica con il fine stabilito dalla legge in astratto ed ab origine (nella misura in cui questo s’atteggi a vincolo per la P.A. agente). Pertanto, non si tratta di rinvenire una causa propria, endemica e peculiare del singolo atto e rapportarla a determinati parametri o canoni di riferimento, quanto, piuttosto, di verificare la conformità dell’atto provvedimentale emanato rispetto allo scopo verso il quale il potere, di cui l’Amministrazione è investita e depositaria, è pre-orientato ed è stato, di fatto, corrisposto. In altre parole, si tratta di controllare se il fine effettivamente perseguito dall’atto sia o no riconducibile, sovrapponibile, al fine prefigurato dalla fattispecie normativa attributrice del potere medesimo, ovvero sia stato in qualche modo eluso -sviato appunto- perché si soddisfacesse un differente telos.
Lo sviamento di potere, allora, alla luce delle riflessioni appena plasmate, è assimilabile all’estrinsecazione del potere ultra vires inteso come “sconfinamento dai limiti oggettivo-causali della fattispecie”; interpretato, ancora, come esercizio di un potere per un interesse meramente diverso o incompatibile con quello evidenziato dalla regola prescrittiva.
Per mezzo di tale interpretazione, dunque (l’unica, tra l’altro, che sembra tenere in considerazione e rispettare la sussistenza di un potere discrezionale e riservato in capo all’Amministrazione Pubblica), lo sviamento corrisponde, in sostanza, al difetto della causa: l’atto provvedimentale soddisfa un intento, un proposito, che non può essere contemplato ed inglobato dalla fattispecie di riferimento attributrice del potere.
Nel diritto amministrativo, tuttavia, la causa si muove in un contesto peculiare, la cui ampiezza è circoscritta e delimitata dallo stesso ordinamento (il soggetto agente, quindi, non può promuovere alcuna attività che ne espanda l’area): potrebbe, dunque, essere utile raffrontare tale nozione con quella che si riscontra nel contesto privatistico.
In effetti, nel diritto privato la causa è qualificata alla stregua di elemento “relazionale” che permette di allocare e collocare l’obiettivo, il fine, perseguito dalle parti, all’interno del rapporto giuridico: ciascun contraente, cioè, ha diritto a che il proprio (giuridico) assetto subisca una mutazione, più o meno sostanziale, ove emerga una lecita causa che “giustifichi” detta trasformazione (a riprova di ciò, si può pensare alla pervasività con cui il difetto della causa incide sulla validità del negozio).
Nel diritto amministrativo, invece, la causa è stata ricollegata alla norma d’azione, a quella prescrizione, cioè, che incide direttamente sull’agire della P.A. (ad esempio, contiene una norma d’azione una legge che dica che il Comune X, nel procedimento Y, atto ad emanare il provvedimento Z, deve agire nella modalità W: qualora l’ente non si attenga a tale statuizione, integra la violazione di un interesse legittimo, indipendentemente dal fatto che tale vulnus abbia procurato o meno problemi concreti e tangibili al civis). Il tutto, nella ferma convinzione che ciò che è riconducibile al pubblico interesse possa trarre rilevanza giuridica per il solo tramite di quella specifica norma.
Tuttavia, se l’interesse pubblico influenza e condiziona l’agere della P.A. in quanto fine legale astratto da soddisfare in concreto, l’Amministrazione medesima non potrà che essere forzata al raggiungimento di quell’obiettivo e, correlativamente, chi subisce l’esercizio del pubblico potere sarà titolare di uno speculare diritto affinché l’azione posta in essere sia orientata al perseguimento di quello scopo: è così che il fine (pubblico) s’insinua (e permea) nel rapporto (pubblico).
Ritenere, altresì, “la violazione del vincolo di scopo” (nella menzionata forma dello “sconfinamento dai limiti oggettivo-causali della fattispecie”) alla stregua di un difetto della causa, può determinare sovversive conseguenze in punto di invalidità del provvedimento amministrativo: la prescrizione, (richiamata all’interno della fattispecie normativa di cui all’art. 21-septies della l. n. 241 del 1990) riguardante la categoria della nullità del provvedimento amministrativo, pare, in effetti, esercitare un’influenza estemporanea sulle ricostruzioni or-ora avanzate.
La disposizione tratteggia, infatti, accanto all’ipotesi di nullità, per così dire, testuale (“nei casi previsti dalla legge, cioè) del provvedimento, un’ulteriore previsione: quella relativa ad una nullità di stampo “strutturale” intendendo con ciò che tale (strutturalmente nullo, quindi) è il provvedimento lacunoso di quegli elementi ritenuti essenziali (o fondamentali) dal punto di vista ontologico.
Ivi giunti, allora, è agevole prospettarsi che lo sviamento –interpretato come vizio della causa- cagioni la nullità dell’atto; esito giurisdizionale quest’ultimo che caratterizzava la figura dello straripamento di potere.
Siffatta sanzione si rivela a dir poco cogente qualora si sposi quell’impostazione di pensiero che riconosce proprio nella causa il presupposto primo dell’atto ed il motivo ultimo dello stesso, nonché l’oggettiva extrema ratio della corresponsione del potere alla P.A. in virtù del soddisfacimento del pubblico interesse posto a monte di tutto (non si comprende come, quindi, la sua assenza possa determinare un minore impatto sul provvedimento rispetto alle ipotesi di carenza di potere in concreto; figura questa, si ricordi, che deriva proprio dalla mancanza di elementi essenziali del provvedimento o di presupposti richiesti ex lege affinché un potere possa definirsi esistente in capo alla P.A.).
Dal punto di vista operativo, poi, il regime della nullità garantisce una tutela effettiva: infatti, nei confronti di un provvedimento nullo si ritiene che l’istituto della decadenza non debba essere innescato dal momento che non appare possibile estendere ad un atto improduttivo di effetti giuridici, ed incapace di dipanarli, una categoria concepita per atti efficaci, almeno in via provvisoria (con la naturale conseguenza di un incremento, operativo-dinamico sempre, dell’azionabilità del diritto di sottoporre al vaglio dell’A. G. il provvedimento viziato).
Per il tramite di questa ricostruzione dogmatica, l’idea che la nullità sia stata introdotta legislativamente per preservare e proteggere un interesse di matrice pubblicistica, può essere archiviata: la possibilità di verificare che il target effettivamente perseguito dall’atto provvedimentale sia conforme e sovrapponibile al fine evidenziato dalla fattispecie legale astratta, diviene, così, oggetto di una pretesa –propria e legittima- del cittadino che, appunto, mediante la promozione dell’azione di nullità rende possibile tale monitoraggio. Pretesa cui è, così, conferita la consistenza piena, lo spessore tipico, del diritto soggettivo.
Resterà, pertanto, fuori dalla valutazione di legittimità tutto ciò che, al suo interno, non è mai penetrato, ossia: la valutazione e ponderazione in senso stretto di quegli interessi –rectius: motivi- che incarnano l’ “essenza del potere riservato alla Pubblica Amministrazione” (e come tale non sottoponibile a vaglio in sede giudiziaria).
Fonti bibliografiche
Sull’eccesso di potere (quale vizio di legittimità del provvedimento amministrativo), nozioni teoriche:
– Caringella F., Mazzamuto S., Morbidelli G., Manuale di Diritto Amministrativo, Dike Giuridica Edit. 2009, pag. 1117;
– Caringella F., Mazzamuto S., Morbidelli G., Manuale di Diritto Amministrativo, Dike Giuridica Edit., IV ediz. aggiornata al correttivo processuale ed alla legge di stabilità, 2011, pagg. 1420-1423.
Sullo sviamento di potere, quale presupposto per la nullità del provvedimento amministrativo:
– Cudia C., Funzione amministrativa e soggettività della tutela (dall’eccesso di potere alle regole del rapporto), in Università di Firenze – Pubblicazioni della facoltà di Giurisprudenza, Giuffrè Edit., Milano 2008, pagg. 241-250;
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