Locazione, covid e buona fede come fonte integrativa del contratto

La dottrina (Rodotà, Franzoni, Galgano), in ambito contrattuale, non esclude la possibilità di riconoscere una portata integrativa alla buona fede, disciplinata nell’art. 1375 c.c. In particolare, tale filone dottrinale riconosce alla buona fede oggettiva il ruolo di fonte di integrazione del contratto che, raccordato direttamente con il principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost., costituisce una clausola generale volta a fissare le regole di condotta cui le parti del contratto devono attenersi. Per tale tesi si tratta, quindi, di clausola generale che, a differenza delle altre fonti di integrazione previste dall’art. 1374 c.c., rappresenta uno strumento di portata molto più ampia proprio nella misura in cui il carattere indeterminato del precetto consente al giudice notevoli margini di azione per adeguare le pattuizioni contrattuali in modo da individuare in concreto i comportamenti esigibili in base ai canoni di lealtà e salvaguardia. Nello specifico, secondo il citato orientamento, le suddette circostanze vengono a verificarsi nel caso dei cosiddetti contratti relazionali implicanti un rapporto continuativo tra le parti e che mal tollerano la risoluzione del contratto. All’interno della suddetta categoria si ritiene rientrino anche i contratti di locazione di beni immobili per l’esercizio di attività produttive.

La posizione della Cassazione

Secondo la Cassazione, la buona fede in executivis è da intendersi come regola d’interpretazione ed esecuzione del contratto, ma anche come sua fonte integrativa che consente di preservare l’assetto giuridico ed economico stabilito dai contraenti anche in mancanza di regole negoziali specifiche (Cass. civ., Sez. I, 12/11/2018, n. 28987). Per i giudici supremi la buona fede integrativa impone a ciascuna parte l’adozione di comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere del neminem laedere, senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a suo carico, siano idonei a preservare gli interessi dell’altra parte.

Buona fede, locazione e problema Covid: la giurisprudenza di merito

Una conduttrice che esercita attività alberghiera e di ristorazione, mediante ricorso ex art. 700 c.p.c, si è rivolta nello scorso mese di marzo al Tribunale di Lecce, chiedendo la riduzione dei canoni semestrali relativi a due distinti contratti di locazione nella misura del 50% (o in quella ritenuta di giustizia), con riferimento ai  semestri decorrenti rispettivamente da marzo e da maggio 2021; la ricorrente ha dichiarato di aver subito, per effetto della crisi epidemiologica, rilevanti e gravose perdite dei ricavi, soprattutto in considerazione delle numerose cerimonie (matrimoni, battesimi, ecc.) e prenotazioni delle stanze cancellate o rinviate sine die, con restituzione degli acconti ricevuti, oltre che in conseguenza del mancato utilizzo del ristorante a causa dell’imposta chiusura e limitazioni; di aver richiesto di riequilibrare i contratti di locazione attraverso una riduzione del canone concessa dalla locatrice solo in occasione della prima ondata della pandemia e rifiutata, invece, per i periodi successivi. Nell’accogliere la richiesta dell’albergatore, il Tribunale ha sottolineato che, anche in presenza dell’intervento generale del legislatore per fare fronte alla crisi economica causata dal Covid-19, deve ritenersi doveroso in tale ipotesi fare ricorso alla clausola generale di buona fede e di solidarietà sancito dall’art. 2 della Carta costituzionale al fine di riportare il contratto entro i limiti dell’alea normale; di conseguenza lo stesso Tribunale ha disposto la riduzione del canone di locazione del primo contratto del 20% per il semestre marzo-agosto 2021 e del 5% per il semestre maggio-ottobre per il secondo contratto (Trib. Lecce 24 giugno 2021). Lungo questa linea di pensiero, in un caso analogo, il Tribunale di Roma (Trib. Roma 27 agosto 2020) ha precisato che qualora si ravvisi una sopravvenienza nel sostrato fattuale e giuridico che costituisce il presupposto della convenzione negoziale, quale quella determinata dalla pandemia del Covid-19, la parte che riceverebbe uno svantaggio dal protrarsi dell’esecuzione del contratto alle stesse condizioni pattuite inizialmente deve poter avere la possibilità di rinegoziarne il contenuto, in base al dovere generale di buona fede oggettiva (o correttezza) nella fase esecutiva del contratto. Del resto, si è anche rilevato che, a fronte di eventi straordinari, sussiste un obbligo per le parti di cooperare secondo correttezza e buona fede al fine di riequilibrare il sinallagma contrattuale in un’ottica che riconduca le prestazioni entro i limiti della normale e prevedibile alea e che, in mancanza di un adeguamento spontaneo, deve ammettersi l’intervento sostitutivo del giudice (Trib. Firenze 27 gennaio 2021). Secondo una diversa opinione, però, il giudice non può fare applicazione del c.d. criterio della buona fede integrativa al fine di addivenire ad una rimodulazione degli obblighi negoziali a carico dei contraenti, salvo incorrere nella violazione dell’autonomia contrattuale delle parti, costituente limite insuperabile anche per il giudice (così, ad esempio, si veda: Trib. Biella 17 marzo 2021).

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