(Normativa di riferimento: R.d., 16/03/1942, artt. 216, 220)
Il fatto
Con ordinanza del 23/03/2018 il Tribunale di Napoli aveva rigettato l’appello proposto da P. G. e P. D. avverso l’ordinanza del Gip del Tribunale di Napoli Nord di rigetto dell’istanza di revoca o di sostituzione della misura cautelare degli arresti domiciliari che veniva, invece, sostituita nei confronti dei coindagati P. M., P. V. e A. S..
La vicenda cautelare, la cui genesi va individuata nell’ordinanza del Gip del Tribunale di Napoli Nord del 24.11.2017, coinvolgeva P. G., ritenuto ideatore e principale responsabile, ed i figli D., M. e V., nonché A. S., e riguarda plurime condotte di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale dirette a svuotare la “P. C. s.r.l.“, dichiarata fallita con sentenza del 23.7.2015 per un passivo di oltre 5 milioni di euro.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso tale provvedimento ricorrevano per cassazione i difensori di P. G. e P. D., Avv. G. D. M., Avv. P. D. V., Avv. G. L., i quali deducevano i seguenti otto motivi con cui lamentavano il vizio di motivazione apparente o illogica: 1) ci si doleva che il presupposto del Tribunale secondo cui il fallimento della P. C. fosse più sicuro che prevedibile avrebbe consentito di dare per scontato il dolo della bancarotta, senza un concreto confronto con le dinamiche gestionali, con il dato cronologico delle condotte asseritamente distrattive, la maggior parte delle quali risalirebbe ad anni molto precedenti rispetto alla declaratoria di fallimento, e con il dato documentale, illustrato nella memoria di P. G., secondo cui, fino alla immediata vigilia della declaratoria di fallimento, né lui né i suoi familiari avrebbero potuto immaginare il fallimento della società, intervenuto solo per l’insistito tentativo di speculazione di un creditore isolato, per un importo irrisorio e così la vendita delle azioni della T. I. sono state ritenute una svendita; 2) con riferimento al capo A) relativo alla vicenda T. I., il Tribunale, da un lato, avrebbe omesso di considerare che il P., acquistando le quote della T. I., che aveva “in pancia” l’area ex S. in Formia, non aveva rilevato solo immobile, ma anche i debiti della società, e che, dopo sette anni di spese ed oneri fiscali faraonici, il cespite era rimasto sprovvisto dei titoli edilizi occorrenti per l’operazione I. per cui erano state acquistate le quote della T.; e, inoltre, gli originari proprietari avevano respinto l’offerta di ottenere la retrocessione delle quote per meno di un quarto (due milioni di euro) del prezzo originario di vendita (otto milioni e 600 mila euro) sicché la perdita di valore I. della T. era evidente, dall’altro, avrebbe omesso di considerare le “altalene amministrative” culminate nel diniego definitivo dei titoli edilizi e nella sentenza del TAR, e lo stesso parere estimativo dell’Ing. D. L., ancorato alla concreta inutilizzabilità edilizia del fondo; inoltre, il giudice di merito avrebbe valorizzato l’introduzione del diritto di prelazione in capo ai soci T. per i futuri acquisti inter vivos di quote sociali, senza valutare che la prelazione non era stata esercitata, non essendovi stata alcuna offerta alternativa di acquisto delle quote, da un altro lato ancora, avrebbe omesso di considerare che:
a) la sentenza del TAR era intervenuta dopo anni che i titoli edilizi fossero già stati sostanzialmente denegati; era già intervenuta una progressiva erosione del patrimonio netto della T. dal 2008 al 2014, riscontrato dal diniego dei proprietari di accettare la retrocessione delle quote ad un quarto del prezzo di acquisto;
b) non era stato specificato il valore, neppure sommario, del cespite I. oggetto di distrazione; l’acquisto delle quote sociali comportava non solo l’acquisizione del cespite I., ma anche dei debiti immobiliari; il diritto di prelazione poteva ampliare la concorrenzialità nella compravendita delle quote della T.;
c) si lamentava, infine, una sistematica parafrasi del provvedimento del Gip, mediante la tecnica del copia-incolla; 3) con riferimento al capo F), relativo alla vicenda della V. S. M., si sosteneva che il Tribunale avrebbe valorizzato esclusivamente la differenza tra il prezzo pagato dalla P. C. per le quote acquistate nel 2008 e quello assai inferiore di vendita ad altra società (G. H.) del gruppo familiare nel 2012, trascurando i rilievi difensivi secondo cui il mercato degli immobili oscilla in maniera rilevantissima, e dipende dal concretizzarsi o dal venir meno delle possibilità di realizzare effettivamente sull’immobile le iniziative speculative programmate, ed omettendo di considerare la ricostruzione tecnico-contabile della CTP, secondo cui la oggettiva differenza tra prezzo di acquisto e prezzo di vendita è risultata plausibile; anche in tal caso, si lamentava, infine, una parafrasi letterale del provvedimento del Gip, mediante la tecnica del copia-incolla; 4) con riferimento alla distrazione relativa all’acquisto dell’immobile in discesa G., si sosteneva che il Tribunale avrebbe omesso di considerare che il versamento effettuato dalla P. C. non era stato eseguito per l’acquisto dell’immobile in via G., ma solo come garanzia in pegno denaro per l’operazione di apertura di credito finalizzata all’ottenimento del mutuo per l’acquisto del bene; e le somme, una volta svincolate, era state poi restituite in parte alla P. C. e in parte compensate con crediti della G. H. documentati da un atto stragiudiziale di ricognizione di debito, con importo, data e causale certe; ci si doleva altresì della pretesa fittizietà della N. T., coinvolta nel finanziamento per l’acquisto dell’immobile, il Tribunale abbia omesso di considerare la consistente produzione documentale difensiva (visure camerali, bilanci, modelli 770) attestante l’assunzione di numerosi operai e l’operatività della società; 5) con riferimento al capo E), relativo alla distrazione degli interessi sul prestito di D. e M. P., l’ordinanza avrebbe liquidato ogni questione in base all’esorbitanza della somma restituita, che evidenzierebbe un’operazione assolutamente antieconomica e ingiustificata, potendo la P. C. ricorrere al credito bancario; la motivazione sarebbe stato il frutto di puro arbitrio deduttivo, ed elusiva rispetto alla valenza usuraria dell’operazione affermata dal titolo genetico; 6) con riferimento alla bancarotta documentale di cui al capo G, il Tribunale avrebbe dedotto dalla mera mancata consegna della documentazione societaria al curatore, rilevante ai sensi dell’art. 16 I.f., la diversa fattispecie fraudolenta di sottrazione, senza considerare la necessità del dolo specifico, e, soprattutto, la circostanza del successivo rinvenimento dell’intera documentazione della società fallita e dell’intero gruppo dove risultava custodita; 7) con riferimento al capo H relativa alla bancarotta per mancato pagamento dei debiti erariali, ci si lamentava dell’omessa motivazione avendo il Tribunale ritenuto incontestato il fatto, senza neppure chiarire l’entità del debito erariale, e senza considerare che P. G., nel memoriale, aveva chiarito di aver privilegiato il pagamento di altre obbligazioni aziendali; in ogni caso, l’ordinanza non avrebbe motivato sul perché l’inadempimento del debito erariale costituisca distrazione; 8)con riferimento alle esigenze cautelari, il Tribunale avrebbe omesso di motivare in ordine alle specifiche censure difensive e, con particolare riferimento a P. D., mancava una compiuta verifica della concretezza ed attualità del pericolo di recidiva, ed una valutazione mirata delle condizioni personali e processuali dei singoli indagati, nonché del tempo tra le condotte contestate e l’adozione della misura fermo restando che D. P. risultava amministratore della sola E. O. s.r.I., non coinvolta in alcuna situazione critica, non era titolare di ruoli gestionali o decisionali nell’ambito delle società del gruppo di famiglia, era stato amministratore della fallita fino al febbraio 2013, e le condotte contestategli risalivano al 2008-2010.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
La Cassazione accoglieva il ricorso proposto in riferimento al motivo concernente la bancarotta fraudolenta documentale.
Prima di esaminare questa doglianza, gli ermellini osservavano innanzitutto come il motivo, con cui si lamentava il mancato riesame dell’intera vicenda cautelare (p. 20 del ricorso), per quanto privo di specificità, fosse manifestamente infondato in quanto l’esercizio, da parte dell’indagato, di una facoltà processuale (la rinuncia al riesame inizialmente proposto) non consente una trasmutazione della morfologia dell’appello cautelare al di fuori del perimetro normativo dell’art. 310 cod. proc. pen., e ciò stante il fatto come sia pacifico che la cognizione del giudice di appello nel procedimento incidentale sulla libertà, di cui all’art. 310 cod. proc. pen., è limitata ai punti della decisione impugnata attinti dai motivi di gravame (e a quelli con essi strettamente connessi e da essi dipendenti) (Sez. U, n. 8 del 25/06/1997, omissis, Rv. 208313), essendo l’appello cautelare disciplinato dall’art. 310 cod. proc. pen. governato dal principio devolutivo (Sez. 6, n. 19008 del 21/04/2016, S, Rv. 267209); sicché, in sede di appello avverso la ordinanza di rigetto della richiesta di revoca di misura cautelare personale, il Tribunale non è tenuto a riesaminare la sussistenza delle condizioni legittimanti il provvedimento restrittivo, dovendosi limitare al controllo che l’ordinanza gravata sia giuridicamente corretta e adeguatamente motivata in ordine ad eventuali allegati nuovi fatti, preesistenti o sopravvenuti, idonei a modificare apprezzabilmente il quadro probatorio o a escludere la sussistenza di esigenze cautelari, ciò in ragione dell’effetto devolutivo dell’impugnazione e della natura autonoma del provvedimento impugnato (Sez. 2, n. 18130 del 13/04/2016, omissis, Rv. 266676).
Si evidenziava altresì la manifesta infondatezza della censura con la quale, a margine di ciascuno dei motivi proposti, si lamentava il vizio di motivazione apparente, per l’utilizzo della tecnica del copia-incolla e per la lamentata parafrasi del provvedimento del Gip facendosi presente, al riguardo,
che, concernendo l’adozione di un provvedimento giurisdizionale e la produzione di effetti giuridici, l’introduzione, nell’art. 292, comma 2, lett. c bis), cod. proc. pen., del requisito dell’autonoma valutazione deve essere inteso non già quale mero attributo “estetico“, o “stilistico“, trattandosi di profilo estraneo alla celebre ragion pratica, bensì in senso epistemologico: l’autonoma valutazione, in altri termini, deve consistere in una autonoma decisione essendo il provvedimento giurisdizionale un atto d’autorità, non già un atto di scienza (come, ad es., un’opera letteraria) fermo restando però che l’autonomia della valutazione, e quindi della decisione, non può ritenersi compromessa dalla riproduzione, più o meno fedele, del provvedimento gravato (o, in primo grado, della richiesta del P.M.), in quanto ciò che rileva ai fini dell’integrità dell’autonomia del giudice è la conoscenza degli atti del procedimento e la volontà che sostiene il giudizio atteso che il provvedimento che riproduca, più o meno fedelmente, o comunque richiami, quello oggetto di gravame (ma il discorso è analogo anche per altri atti) assume una propria oggettiva consistenza, e, in assenza di affidabili criteri di classificazione del pensiero autonomo, non può ritenersi per ciò solo indiziante una valutazione, e quindi una decisione, priva di autonomia, o, come pure si è detto, una cessione di imparzialità in quanto la decisione cautelare che richiami, in maniera più o meno estesa, il provvedimento impugnato, condividendo altresì le valutazioni in esse eventualmente proposte, deve ritenersi frutto di autonoma valutazione in quanto assunta da un diverso organo giudiziario, sulla base della conoscenza degli atti del procedimento e della formulazione di un giudizio autonomo stante il fatto che valutazione autonoma non vuol dire valutazione diversa o difforme.
Venendo a trattare il motivo con cui si lamentava l’insussistenza del dolo di bancarotta, in considerazione della non prevedibilità del fallimento al momento della commissione delle condotte distrattive contestate, la Corte osservava che, oltre a essere stati dedotti profili di merito non consentiti in sede di legittimità, questa doglianza fosse ad ogni modo manifestamente infondata in quanto, secondo quanto autorevolmente chiarito anche dalle Sezioni Unite, ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non è necessaria l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento, essendo sufficiente che l’agente abbia cagionato il depauperamento dell’impresa, destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività (Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, omissis, Rv. 266804), e l’elemento soggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è costituito dal dolo generico, per la cui sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, omissis, Rv. 266805).
Per quel che invece riguardava il secondo motivo, concernente la vicenda “T. I.” (capo A), la Corte lo dichiarava inammissibile, non soltanto perché non si confrontava con l’intero tessuto argomentativo del provvedimento impugnato, del quale si limitava a richiamare estratti indebitamente parcellizzati, ma anche perché proponeva doglianze eminentemente di fatto, riservate al merito della decisione, e perciò manifestamente infondata.
A tal proposito si metteva in risalto, sotto il primo profilo appena enunciato, che, ai fini della configurabilità dell’ipotesi di inammissibilità dell’impugnazione per genericità dei motivi, in quest’ultima rientra non solo la aspecificità dei motivi stessi, ma anche la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentative della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (Sez. 1, n. 4521 del 20/01/2005, omissis, Rv. 23075) sicché è inammissibile il ricorso per cassazione che, offrendo al giudice di legittimità frammenti probatori o indiziari, solleciti quest’ultimo ad una rivalutazione o ad una diretta interpretazione degli stessi, anziché al controllo sulle modalità con le quali tali elementi sono stati raccolti e sulla coerenza logica della interpretazione che ne è stata fornita (Sez. 5, n. 44992 del 09/10/2012, omissis, Rv. 253774) mentre, sotto un diverso profilo, ossia in ordine all’inammissibilità delle doglianze relative alla valutazione della natura distrattiva delle condotte contestate, si osservava come esse sollecitassero, in realtà, una rivalutazione di merito preclusa in sede di legittimità; infatti, pur essendo formalmente riferite a vizi riconducibili alle categorie del vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., sono in realtà dirette a richiedere a questa Corte un inammissibile sindacato sul merito delle valutazioni effettuate dalla Corte territoriale (Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995, omissis, Rv. 203767; Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, omissis, Rv. 207944; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, omissis, Rv. 214794) rilevandosi in particolare che, con le censure proposte, i ricorrenti non lamentavano una motivazione mancante, contraddittoria o manifestamente illogica – unici vizi della motivazione proponibili ai sensi dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen. ma una decisione erronea, in quanto fondata su una valutazione asseritamente sbagliata stante il fatto che il controllo di legittimitàconcerne il rapporto tra motivazione e decisione, non già il rapporto tra prova e decisione; sicché il ricorso per cassazione che devolva il vizio di motivazione, per essere valutato ammissibile, deve rivolgere le censure nei confronti della motivazione posta a fondamento della decisione, non già nei confronti della valutazione probatoria sottesa, che, in quanto riservata al giudice di merito, è estranea al perimetro cognitivo e valutativo della Corte di Cassazione.
A fronte di tale quadro ermeneutico, si evidenziava per contro come il Tribunale avesse invece affermato, con apprezzamento di fatto immune da censure, e dunque insindacabile in sede di legittimità, la natura distrattiva della condotta con la quale P. G. (procuratore della fallita, e, in realtà, amministratore di fatto, nonché socio al 5,5 % e amministratore della T. I.), in concorso con A. S., liquidatore della fallita, ha acquisito la quota di partecipazione della quale la “P. C.” era titolare nella T. I., pari al 94,5 %, versando la modesta somme di C 25.207,00, sebbene il valore fosse superiore ad oltre 8 milioni di euro rilevandosi al riguardo che A., quale liquidatore della P. C., socio di maggioranza della T. I., in presenza di una perdita quasi integrale del capitale sociale, votava per la riduzione del capitale ed il contestuale aumento, che, in mancanza di risorse della P. C. (già in stato di liquidazione e priva di risorse sufficienti), veniva sottoscritto dal solo P. G., l’altro socio, che, titolare di una quota del 5,5%, diveniva socio unico della T. I. mediante una vera e propria svendita del valore.
Viceversa, le doglianze del ricorrente, che si concentravano essenzialmente sulla contestazione del valore della T., che non avrebbe più avuto un valore di oltre 8 milioni di euro, come all’epoca dell’acquisto (avvenuto nel 2008), per il diniego dei titoli edilizi da parte delle amministrazioni e, nel 2017, del giudice amministrativo adìto, erano, ad avviso della Corte, ictu oculi inammissibili perché lamentavano una errata valutazione di merito, in tal senso sollecitando una non consentita rivalutazione da parte di questa Corte.
Pure il terzo motivo, concernente la vendita delle quote di V. S. M. s.r.l. (capo F), veniva dichiarato inammissibile e, nel rinviare a quanto già esposto in relazione al motivo precedente, la Cassazione evidenziava come la P. C. avesse acquistato, nell’aprile del 2008, le quote di partecipazione al capitale sociale della “V. S. M. s.r.l.“, per un prezzo complessivo di C 2.983.100,00; nell’ottobre del 2012 le ha cedute alla G. H., rappresentata da P. V. (rispettivamente figlia e sorella degli odierni ricorrenti G. e D.), per il prezzo di C 893.296,18 e, dunque, la clamorosa sproporzione tra prezzo di acquisto e prezzo di vendita, ritenuta dai giudici della cautela indice della natura distrattiva dell’operazione, era stata oggetto di doglianze che si erano concentrate sulla contestazione del valore delle quote di partecipazione: il mercato I. è soggetto a rilevanti oscillazioni, ed il valore dipende dalle possibilità di realizzare le iniziative speculative programmate.
Si faceva oltre tutto presente come siffatte doglianze, oltre ad essere inammissibili, perché sollecitavano una rivalutazione del merito non consentita in sede di legittimità, men che meno in sede cautelare, fossero anche del tutto generiche non argomentando in alcun modo, in maniera concreta, sulle asserite cause della notevole svalutazione.
Il quarto motivo, concernente la distrazione della somma impiegata per l’acquisto dell’immobile in discesa G. (capo B), era reputato inammissibile e, a tal proposito, si evidenziava, una volta osservato che le doglianze del ricorrente si concentrassero sul rilievo che il versamento non fosse stato eseguito per l’acquisto dell’immobile, ma solo per la garanzia in pegno denaro per l’operazione di apertura del credito finalizzata all’ottenimento del mutuo, e che le somme erano state in parte restituite alla P. C., in parte compensate con crediti della G. H., come questi motivi, così formulati, sollecitavano una rivalutazione non consentita del merito essendo generici oltre a non confrontarsi con la motivazione dell’ordinanza impugnata, che aveva, sul punto, evidenziato: che il prezzo dell’immobile venne pagato grazie al denaro messo in parte a disposizione dalla P. C., e non restituito; che la deduzione concernente l’estinzione del debito da parte della G. H., per compensazione con un credito asseritamente esistente nei confronti della P. (ma attestato soltanto da un atto stragiudiziale, in assenza di dimostrazione dei flussi finanziari), oltre a sfuggire alle ordinarie logiche imprenditoriali, non considera che il lussuoso immobile di via G. è stato acquistato da R. e V. P. quali persone fisiche, e non per conto di una società; l’accollo del debito, peraltro, sarebbe avvenuto senza corrispettivo, per un mero atto di liberalità.
Il quinto motivo, concernente la distrazione della somma di C 228.160,00 (capo E), veniva anch’esso ritenuto inammissibile.
La Corte metteva in risalto a tal fine che le doglianze del ricorrente, che si limitavano a contestare l’affermata esorbitanza della somma restituita, erano del tutto generiche, oltre che concernenti valutazioni riservate al merito atteso che, a prescindere dall’oggettiva esorbitanza della somma restituita, comprensiva di oltre 228 mila euro a titolo di interessi asseritamente maturati in due anni, andava comunque rammentato, ad avviso della Corte, che, in tema di bancarotta, qualora il socio creditore si identifichi con lo stesso amministratore della società, la condotta di quest’ultimo, volta alla restituzione, in periodo di dissesto, di finanziamenti in precedenza concessi, integra il reato di bancarotta per distrazione e non quello di bancarotta preferenziale (Sez. 5, n. 34505 del 06/06/2014, omissis, 264277).
Pure al settimo motivo, concernente la bancarotta impropria di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, I.f. (capo H), veniva destinata la medesima sorte processuale dei precedenti (ossia la sua inammissibilità).
Invero, la Corte, una volta premesso che, con l’appello, il ricorrente si era limitato a contestare soltanto l’entità del debito erariale, non l’an, sicché doveca ritenersi nuovo il motivo concernente la qualificazione giuridica dell’operazione, evidenziava al riguardo che la contestazione concerneva la sistematica omissione degli obblighi tributari e contributivi, fin dal 2005, che aveva condotto ad un passivo di oltre 5 milioni di euro e, quanto alla rilevanza penale della condotta contestata, si rammentava come la giurisprudenza della Cassazione fosse consolidata nell’affermare che il sistematico inadempimento dei debiti erariali e/o contributivi, se, da un lato, arreca sicuri vantaggi all’impresa sotto forma di risparmio dei relativi costi, dall’altro, aumenta ingiustificatamente l’esposizione nei confronti dell’erario e degli enti previdenziali, così rendendo “prevedibile il conseguente dissesto della società” (Sez. 5, n. 15281 del 08/11/2016, dep. 2017, omissis, Rv. 270046); sicché, in tema di bancarotta fraudolenta fallimentare, le operazioni dolose di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, legge fall. possono consistere nel sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali e previdenziali, frutto di una consapevole scelta gestionale da parte degli amministratori della società, da cui consegue il prevedibile aumento della sua esposizione debitoria nei confronti dell’erario e degli enti previdenziali (Sez. 5, n. 24752 del 19/02/2018, omissis, Rv. 273337; ex multis, Sez. 5, n. 47621 del 25/09/2014, omissis, Rv. 261684; Sez. 5, n. 15281 del 08/11/2016, dep. 2017, omissis, Rv. 270046; Sez. 5, n. 29586 del 15/05/2014, omissis, Rv. 260492).
Veniva altresì reputato infondato l’ottavo motivo, concernente le esigenze cautelari, oltre che generico per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentative della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (Sez. 1, n. 4521 del 20/01/2005, omissis, Rv. 230751).
Con riferimento a P. G., infatti, gli ermellini osservavano come il ricorso si fosse limitato a lamentare il decorso del tempo dall’applicazione della misura e l’insussistenza delle esigenze cautelari del pericolo di reiterazione e dell’inquinamento probatorio, in maniera del tutto assertiva mentre, con riferimento a P. D., si postulava come il ricorso aveva dedotto che l’indagato fosse stato l’ amministratore di una sola società del gruppo, non coinvolta nel procedimento, e che il ruolo di amministratore della fallita fosse cessato nel 2013, mentre le condotte contestate risalgono al periodo 2008-2010.
A fronte di ciò, i giudici di Piazza Cavour denotavano come l’ordinanza impugnata, nel confermare la misura domiciliare applicata, avesse, al contrario, compiutamente evidenziato le circostanze di fatto dalle quali era stata desunta, con apprezzamento di fatto immune da censure, e dunque insindacabile in sede di legittimità, l’attuale e concreto pericolo di reiterazione di reati della stessa specie e di inquinamento probatorio.
Inoltre, con più specifico riferimento a P. D., si faceva presente in questa pronuncia come il Tribunale, con apprezzamento di fatto immune da censure, e dunque insindacabile in sede di legittimità, avesse evidenziato che egli aveva assunto o eseguito in prima persona le decisioni gestionali che avevano integrato le condotte distrattive (il versamento per l’acquisto della villa in discesa G., la distrazione delle quote di V. S. M., e delle somme contestate ai capi D ed E, la bancarotta impropria di cui al capo H), e nel periodo in cui costui aveva rivestito la carica di amministratore della fallita fino alla cessazione di fatto dell’attività imprenditoriale allorquando, dinanzi ad una imponente situazione debitoria, si faceva sostituire formalmente da A. S., uomo di fiducia della famiglia P..
Orbene, nel rammentare che, ai fini della valutazione delle esigenze cautelari in relazione al delitto di bancarotta fraudolenta, il tempo trascorso dalla commissione del fatto deve essere determinato avendo riguardo all’epoca in cui le condotte illecite sono state poste in essere e non al momento in cui è intervenuta la dichiarazione di giudiziale di insolvenza, la quale, ancorché determini il momento consumativo del reato, non costituisce riferimento utile per vagliare il comportamento dell’indagato, ai sensi dell’art. 274 cod. proc. pen., collocandosi fuori della sua sfera volitiva (Sez. 5, n. 9280 del 14/10/2014, dep. 2015, omissis, Rv. 263586), la Corte osservava altresì com le condotte distrattive contestate a P. D. si fossero sviluppate lungo l’intero arco della vita sociale nel quale egli ha rivestito il ruolo di amministratore della P. C., fino alla fine del 2012 (cessione di V. S. M. – capo F).
Infine, con rilievo che concerneva entrambi i ricorrenti, la Cassazione asseriva come non apparisse ridondante evidenziare, con riferimento al pericolo di recidiva, che non andava confuso il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie, con il pericolo di reiterazione dello stesso fatto-reato; dal tenore dell’art. 274, lett. c), c.p.p., emerge in maniera evidente che l’oggetto del periculum è la reiterazione di astratti reati della stessa specie, non del concreto fatto-reato oggetto di contestazione, che, talvolta, non potrebbe neppure essere naturalisticamente reiterato (come nell’ipotesi di più grave aggressione al bene vita dell’omicidio) sicché il pericolo di reiterazione non poteva essere escluso dall’attuale assenza di cariche sociali in altre società, a maggior ragione nel caso di P. D., che, per stessa ammissione del ricorrente, era amministratore di una società del gruppo imprenditoriale (la E. O.s.r.I.).
Veniva, invece, stimato fondato il motivo concernente il reato di bancarotta fraudolenta documentale (capo G).
Una volta premesso che, sia l’imputazione provvisoria, che l’ordinanza impugnata, facevano riferimento ad una condotta di “omesso deposito” delle scritture contabili presso la cancelleria del Tribunale fallimentare e di omessa consegna al curatore, nonché al rinvenimento di parte della documentazione nel corso delle operazioni di perquisizione, il Supremo Consesso affermava che, dal provvedimento impugnato (e dalla stessa imputazione), da un lato, non si evinceva se la condotta contestata riguardasse la sottrazione o occultamento di scritture contabili, ovvero la tenuta in guisa da non consentire la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, o, ancora, la mera omessa consegna delle scritture, rilevante ai sensi dell’art. 220, in relazione all’art. 16 n. 3 I.f., dall’altro, non era stata accertata quale sarebbe stata la consistenza delle scritture contabili rinvenute in sede di perquisizione: se riguardino la P. C. s.r.l. o altre società del gruppo imprenditoriale; se, nel primo caso, le scritture contabili siano complete o meno rilevandosi al contempo come restasse, in ogni caso, carente la motivazione in ordine alla sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta documentale, sia sotto il profilo della ricostruzione del fatto, sia sotto il profilo della qualificazione giuridica, in quanto la mera “omessa consegna” delle scritture contabili può integrare il reato di cui all’art. 220 I.f., ma non, di per sé, la bancarotta fraudolenta documentale, nella cui dimensione offensiva può, invece, essere assorbita (Sez. 5, n. 16744 del 13/02/2018, omissis, Rv. 272684) in caso di qualificazione multipla della condotta.
Tal che, alla luce di quanto enunciato in riferimento a quest’ultimo motivo, se ne faceva conseguire l’annullamento del provvedimento impugnato nei confronti di P. G. limitatamente al capo G) dell’incolpazione provvisoria con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Napoli, ed il rigetto, nel resto, del ricorso di P. G., e di quello di P. D..
Conclusioni
La sentenza in oggetto, nella parte in cui si postula che l’omessa consegna delle scritture contabili esclude la sussistenza del delitto di bancarotta fraudolenta documentale, è condivisibile in quanto già nella decisione citata in questa stessa pronuncia (vale a dire: Cass. pen., sez. 5, n. 16744 del 13/02/2018), gli ermellini erano giunti alla medesima conclusione.
Difatti, nella pronuncia n. 16744, i giudici di legittimità ordinaria avevano similmente asserito che la “fattispecie prevista dalla L. Fall., art. 216, comma 1, n. 2) – e cioè quella di tenuta della contabilità in guisa da impedire la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari (ovvero, in altri termini, il delitto di bancarotta fraudolenta documentale ndr.) – è (…) logicamente incompatibile con la condotta di omessa tenuta dei libri contabili posto che “la stessa presuppone l’effettiva esistenza di questi ultimi, esaurendosi nella loro fraudolenta compilazione con le modalità descritte” e, pertanto questa fattispecie “non può essere configurata laddove la contabilità non venga rinvenuta, perchè sottratta, distrutta o, per l’appunto, mai tenuta” il che può avvenire quando, come nel caso di specie, le scritture contabili non siano mai state consegnate.
Ove si verifichi detta circostanza, dunque, come evidenziato nella sentenza qui in commento, può configurarsi il delitto di denuncia di creditori inesistenti e altre inosservanze da parte del fallito ovvero, come indicato nella decisione appena citata, il solo reato di bancarotta semplice documentale ma non quello di bancarotta fraudolenta documentale e, pertanto, qualora sia stato erroneamente contestato quest’ultimo illecito penale, spetterà al difensore dell’imputato eccepire tale violazione procedurale nei modi e nelle forme previste dal codice di rito.
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