L’oralità ed immediatezza della decisione sono principi che ci possiamo ancora permettere?

Nota a commento della Sentenza n° 132/2019 della Corte Costituzionale del 20.05.2019, depositata il 29.05.2019, con la quale è stata dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Siracusa degli artt. 511, 525, comma 2, e 526 comma 1 c.p.p., in relazione all’art. 111 Cost. con ordinanza n° 114/2018 e alla informazione provvisoria di decisione delle SS.UU. Penali sulla questione n° 29466 del 30.05.2019 (P.M. in proc. Klevis BAJRAMI). 

 

La questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Siracusa con ordinanza n° 114/2008 e la decisione della Corte Costituzionale con sentenza n° 132/2019

La Corte Costituzionale ha deciso con sentenza n° 132/2019, emessa il 20.05.2019, depositata in Cancelleria il 29.05.2019, una questione di legittimità costituzionale degli artt. 511, 525 comma 2 e 526 comma 1 c.p.p., in relazione all’art. 111 Cost., nella parte in cui – secondo la prospettazione del Tribunale di Siracusa (alquanto singolare, come vedremo) la necessità di riascoltare sempre e comunque i testi, in caso di mutamento della composizione dell’organo collegiale, a fronte del mancato consenso della difesa alla utilizzazione, mediante lettura, dei verbali delle dichiarazioni precedentemente rese dai testimoni dinanzi al collegio in diversa composizione, in dibattimenti di elevata complessità e in caso di frequente mutamento della composizione di uno (o più membri) dell’organo giudicante, si porrebbe in contrasto con il principio di ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost. e comporterebbe il rischio della prescrizione dei reati, finendo per porsi in contrasto con l’efficienza dell’amministrazione della giustizia impedendo l’attuazione della giurisdizione ex art. 111 comma 1 Cost.

La questione è stata prospettata nell’ambito di un procedimento penale a carico di dirigenti aziendali per associazione a delinquere ed altri reati (tra cui, secondo la prospettazione accusatoria, rientra anche l’ipotesi di reato di cui all’art. 629 c.p. commessa a carico di alcuni dipendenti) nella quale è stato registrato, per 6 volte, nel dibattimento di primo grado, il mutamento della composizione del collegio ed il diniego delle difese alla utilizzazione dei verbali di prova delle dichiarazioni rese dai testimoni precedentemente escussi dinanzi al diverso collegio giudicante, con necessità di procedere alla rinnovazione integrale dell’istruttoria dibattimentale e con la (quasi) certezza della prescrizione di tutti i reati contestati agli imputati nel caso fosse ritenuto indispensabile procedere – ancora una volta – alla nuova intimazione dei testi già sentiti e non fosse possibile utilizzare ex art. 111 Cost. i verbali di prova già assunti e legittimamente inseriti nel fascicolo per il dibattimento.

Il Tribunale di Siracusa ritiene che la necessità di dover citare nuovamente i testimoni già sentiti in contraddittorio – a seguito di ogni mutamento della composizione del collegio giudicante, per non violare il principio di immutabilità di cui all’art. 525 comma 2 c.p.p., previsto a pena di nullità assoluta della sentenza – si ponga in contrasto con il principio di ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., da un lato, in quanto comporterebbe che, in caso di dibattimenti complessi e di mutamento frequente della composizione dell’organo giudicante, i procedimenti penali avrebbero una durata indefinita ed infinita nel tempo, senza che (ad avviso del remittente) vi siano ragioni effettive e concrete di tutela del diritto di difesa nell’obbligo di riascolto dei testimoni, ad ogni mutamento del collegio, posto che nel caso di specie nessuna nuova domanda era stata posta ai testi riconvocati che si erano limitati a confermare le loro precedenti dichiarazioni e senza dunque che dalla loro riconvocazione fosse emerso alcun nuovo elemento o tema escludendosi quindi che dal contatto del testimone con il nuovo giudice fosse derivato alcun contributo ed elemento nuovo ed utile alla futura formazione del suo libero convincimento; dall’altro, che la necessità di ricitare i testi, ad ogni mutamento della composizione dell’organo giudicante, sarebbe in contrasto anche con il principio di efficienza (e, verrebbe da dire, di effettività) dell’amministrazione della giustizia, di cui all’art. 111 comma 1 Cost., di cui sarebbe in sostanza impedita l’attuazione per l’impossibilità di celebrare e concludere il processo in tempo utile e per la certezza della prescrizione dei reati contestati agli imputati, con inevitabile pregiudizio delle “istanze civilistiche delle persone offese costituitesi parti civili”.

Il Tribunale propone, dunque, una soluzione, davvero singolare: di dichiarare l’illegittimità costituzionale degli artt. 511, 525 comma 2, 526 comma 1, c.p.p. se interpretati nel senso che ad ogni mutamento della persona fisica di un giudice, la prova possa ritenersi legittimamente assunta solo se i testimoni già sentiti nel dibattimento depongano nuovamente in aula davanti al giudice persona-fisica che deve deliberare sulle medesime circostanze o di rigettare la questione stabilendo che ciò debba avvenire solo allorquando non siano violati i principi costituzionali della effettività e della ragionevole durata del processo (il termine viene individuato nel limite di anni 3 previsto dalla legge 24.03.2001 n. 89, oltre il quale cesserebbe – come proposto dal remittente – l’obbligo del riascolto dei testi già sentiti e dovrebbe essere possibile utilizzare le dichiarazioni rese in precedenza dagli stessi dinanzi al precedente giudice, anche in caso di diversità tra il giudice che ha partecipato al dibattimento e quello che deve decidere).

La questione è stata, come prevedibile, dichiarata inammissibile della Corte Costituzionale, per la indeterminatezza del quesito (posto in termini di alternatività) con cui sostanzialmente – senza seguire la via ritenuta rispettosa dei principi di ragionevole durata e di efficienza della amministrazione della giustizia dichiarando perciò utilizzabili i verbali delle prove assunte dinanzi al precedente organo giudicante ed escludendo la necessità di un riascolto dei testimoni a seguito dell’ennesimo mutamento della composizione del collegio – il Tribunale chiedeva conforto alla Corte Costituzionale sulla correttezza della soluzione prospettata.

Ma – al di là dell’esito (piuttosto scontato) della inammissibilità di una questione così prospettata – la Corte Costituzionale ha colto l’occasione per intervenire, sollecitando il legislatore ad introdurre ragionevoli deroghe al principio di identità tra giudice che assume la prova e giudice che decide e idonei meccanismi “compensativi” che, nel rispetto del diritto di difesa, siano idonei ad evitare un uso distorto e strumentale del dovere (ed obbligo) di nuova audizione dei testimoni già assunti dinanzi al tribunale in diversa composizione che possa compromettere la ragionevole durata del procedimento penale e l’efficienza dell’amministrazione della giustizia.

La sentenza non fa altro che registrare come il modello del nostro processo penale, improntato sui principi di oralità ed immediatezza e concentrazione tra istruttoria e decisione, sia ben diverso dalla realtà pratica, in cui difficilmente un processo si conclude nella medesima udienza fissata per l’istruttoria ed in cui le udienze dibattimentali, con l’ascolto dei testimoni, si susseguono nei procedimenti a distanza di un lasso di tempo considerevole e nei procedimenti di elevata complessità durano anche anni, con la conseguenza che il giudice non può mantenere un ricordo vivo e vivido (o un contributo conoscitivo qualificato derivante dal contatto diretto con la fonte di prova) a distanza di anni di quanto dichiarato dal testimone o percepito in occasione della formazione della prova dinanzi a se e che, dunque, per il giudicante tutto si riduce, in sostanza, ad una lettura delle trascrizioni già depositate ed allegate al fascicolo per il dibattimento.

La Corte Costituzionale non arriva (e non può) arrivare a smentire il diritto vivente, che esclude la possibilità di utilizzare i verbali di prova delle dichiarazioni dei testimoni assunti dinanzi al diverso giudice quando le parti abbiano richiesto la sua nuova audizione ed essa possa aver luogo; ma, con la solita incisività (che l’ha vista assumere un ruolo preponderante e di guida nei confronti del legislatore), lancia un messaggio al Parlamento sulla necessità di “rivedere” – prevedendo dei meccanismi di compensazione – il principio di immutabilità di cui all’art. 525 comma 2 c.p.p. e afferma la natura disponibile del diritto alla nuova assunzione della prova della parte in caso di mutamento della identità del giudicante, dichiarando la legittimità di sue ragionevoli limitazioni ad opera del Legislatore e la possibile sua subvalenza rispetto alle esigenze di ragionevole durata e di efficienza dell’amministrazione della giustizia.

Prima di addentrarci sul significato della decisione della Corte Costituzionale in commento (che più che un obiter dictum, o un mutamento del suo orientamento – come si è affermato da più parti – appare porsi, piuttosto, ad avviso dello scrivente, come una sollecitazione al Legislatore mossa da un lucido e disincantato esame della distanza a volte siderale esistente tra il modello astrattamente previsto normativamente del nostro processo penale e la sua quotidiana declinazione nella realtà pratica, spesso in termini completamente diversi se non opposti), occorre evidenziare come il tema della immutabilità del giudice ex art. 525 comma 2 c.p.p. sia stato recentemente affrontato e risolto, per una singolare coincidenza di tempi e circostanze, anche dalle Sezioni Unite Penali con la decisione assunta il 30.05.2019 in P.M. proc. Klevis BAJRAMI (questione n. 29466), che ne ha determinato il significato ed i limiti di applicazione.

Appare opportuno, dunque, analizzare anche la decisione adottata dalle SS.UU. Penali (della quale esiste solo la informazione provvisoria di decisione allo stato, e non, ovviamente, ancora le motivazioni), in modo da cercare di comprendere quale sia la valenza assegnata ai principi di oralità ed immediatezza dalla Suprema Corte ed i limiti stabiliti di (ragionevole) deroga agli stessi e per poter verificare se gli approdi della Consulta e delle Sezioni Unite in subiecta materia coincidano o meno.

Volume dedicato

Significato e limiti del principio di immutabilità del giudice di cui all’art. 525 comma 2 c.p.p. 

La Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, è stata chiamata, recentemente, a pronunciarsi ed ha deciso in data 30.05.2019 la questione penale pendente n° 29466.

In particolare, le questioni sottoposte all’attenzione delle Sezioni Unite Penali erano le seguenti:

  1. Se il principio di immutabilità di cui all’art. 525 cod. proc. pen. richieda la corrispondenza, rispetto al giudice che abbia proceduto alla deliberazione finale, del solo giudice dinanzi al quale la prova sia stata assunta ovvero anche del giudice che abbia disposto l’ammissione della prova stessa”;
  2. Se, ai fini di ritenere la sussistenza del consenso della parte alla lettura degli atti assunti da collegio che sia poi mutato nella sua composizione, sia sufficiente la mancata opposizione delle stesse ovvero sia invece necessario verificare la presenza di ulteriori circostanze che la rendano univoco”.

Il caso concreto era (ed è) semplice.

Il Tribunale di Chieti, in Composizione Collegiale, ha condannato l’imputato Klevis BAJRAMI – in concorso con altri soggetti, nei cui confronti si è proceduto separatamente – alla pena ritenuta di giustizia in relazione ad una serie di reati di spaccio di sostanza stupefacente, commessi in varie località tra l’agosto 2014 ed il gennaio 2015.

La Corte d’Appello di L’Aquila, in accoglimento dell’appello proposto dal difensore dell’imputato, ha dichiarato la nullità della suddetta sentenza, ritenendo la pronuncia di condanna emessa in violazione del principio di immutabilità del giudice previsto dall’art. 525 comma 2 c.p.p. in quanto il collegio giudicante era stato modificato tra la prima udienza in cui era stata dichiarata l’apertura del dibattimento ed emessa l’ordinanza ammissiva delle prove e le udienze successive nelle quali erano state assunte le prove testimoniali, sicché alla deliberazione della sentenza avevano partecipato magistrati in parte diversi rispetti a quelli che avevano partecipato all’istruttoria ed osservando come fosse irrilevante che le parti avessero prestato acquiescenza alla utilizzazione delle prove acquisite dal precedente collegio tenuto conto che quella inosservanza aveva determinato una nullità assoluta della sentenza per cui non potevano trovare applicazione causa di decadenza o sanatoria del vizio.

Avverso la sentenza della Corte d’Appello, ha proposto ricorso per Cassazione il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’appello territoriale, denunciano la inosservanza o erronea applicazione dell’art. 525 c.p.p., per avere la Corte distrettuale omesso di considerare che il Tribunale che aveva deliberato la decisione impugnata era composto dagli stessi tre giudici che avevano assunto le prove dichiarative e che il collegio nella sua precedente e diversa composizione (essendo cambiato un solo componente) si era limitato a dichiarare l’apertura del dibattimento ed a ammettere le prove prima che intervenisse il mutamento della sua composizione; nonché per non aver tenuto conto che, in ogni caso, dopo il mutamento della composizione del collegio, le parti non avevano chiesto la riassunzione di alcuna delle prove dichiarative già assunte dal precedente collegio ed avevano dunque implicitamente prestato il consenso alla utilizzazione dei verbali di prova già assunti (a tale proposito, e per una migliore comprensione della vicenda, occorre chiarire – a quanto emerge dalla lettura dell’ordinanza di remissione – che la difesa di uno dei coimputati che successivamente non avrebbe proposto appello aveva eccepito la nullità ex art. 525 comma 2 c.p.p. al Tribunale di Chieti soltanto al momento della discussione finale e che tale eccezione era stata respinta dal primo giudice che l’aveva ritenuta infondata).

La questione sottoposta all’attenzione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione era, dunque, pertanto, declinata in questi (duplici) termini:

1) Il significato da attribuire all’espressione “partecipazione al dibattimento”, ai fini della verifica del rispetto del principio di immutabilità di cui all’art. 525 comma 2 c.p.p.;

2)  Quando può ritenersi validamente prestato il consenso alla lettura, ex art. 511 c.p.p., degli atti assunti davanti al collegio in diversa composizione ai fini della utilizzabilità delle suddette dichiarazioni ai fini della decisione.

La Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ha risolto le suddette questioni affermando il seguente principio di diritto: “Per il principio di immutabilità di cui all’art. 525 cod. proc. pen. il giudice che procede alla deliberazione finale deve essere lo stesso che ha disposto l’ammissione della prova; non di meno, i provvedimenti in tema di ammissione della prova si intendono confermati se non espressamente modificati o revocati; a seguito della rinnovazione del dibattimento, il consenso delle parti alla lettura ex art. 511 cod. proc. pen. degli atti assunti dal collegio in diversa composizione non è necessario quando la ripetizione dell’esame, già svolto dinanzi al giudice diversamente composto, non abbia avuto luogo in mancanza della richiesta della parte che ne aveva domandato l’ammissione oppure perché non ammessa o non più possibile”.

Le Sezioni Unite hanno, dunque, chiarito che il mutamento della persona fisica del giudicante può riguardare il giudice che ha espletato l’accertamento della regolare costituzione delle parti e dichiarato l’apertura del dibattimento.

In tal caso, infatti, non risulta violato il principio di immutabilità di cui all’art. 525 comma 2 c.p.c. purchè vi sia identità fisica tra il giudice (evidentemente diverso da quello che ha espletato le formalità inerenti alla verifica della regolare costituzione delle parti e di apertura) che ha ammesso la prova e quello che delibera.

Per potersi ritenere rispettato il principio di immutabilità di cui all’art. 525 comma 2 c.p.p. – in un’ottica che valorizza la necessaria identità e corrispondenza fra il giudice/persona fisica che provvede con ordinanza, ex art. 495 c.p.p., sulle prove richieste dalle parti (individuando così i temi di prova rilevanti ai fini del giudizio e sui quali verrà condotta ed espletata la successiva istruttoria dibattimentale) e quello davanti al quale le prove si formano nel contraddittorio tra le parti che viene chiamato ad assumere la deliberazione finale – è, dunque, indispensabile che sia superata la fase dell’apertura del dibattimento e siano ammesse le prove in quanto è a partire da tale provvedimento che si può (e si deve esigere) che il giudice che le ammette e davanti al quale si costituiscono sia lo stesso che decide.

Ciò significa che il provvedimento di ammissione delle prove è il requisito per poter andare a verificare il rispetto del principio di immutabilità.

Sempre che (sembra questo il significato della seconda affermazione di principio delle SS.UU.) il provvedimento di ammissione della prova non venga espressamente modificato o revocato da parte di altro giudice.

In tal caso, essendo mutati i themi probandum (come necessariamente avviene quando si modifica un provvedimento di ammissione delle prove o lo si revoca, in toto o in parte qua), sembra di comprendere che sarà questo successivo giudice/persona fisica che ha inciso sull’ordinanza ammissiva a dover partecipare all’istruttoria ed anche a assumere la deliberazione finale, per potersi ritenere rispettato il principio di immutabilità di cui all’art. 525 comma 2 c.p.p.

Se invece il provvedimento di ammissione delle prove precedentemente adottato non viene espressamente modificato o revocato, invece (come avviene, peraltro, nella maggior parte dei casi, in cui le parti si riportano alle richieste già di prova già formulate, anche se – a quanto statuito dalle SS.UU. – ora non sarebbe più necessario procedere in tal senso, essendo una formalità non necessaria stante la presunzione di ultrattività dell’ordinanza di ammissione delle prove ex art. 495 c.p.p.), qualora muti l’organo giudicante, esso deve ritenersi implicitamente confermato e, quindi, sarà l’organo giudicante diversamente composto (subentrato a quello precedente) a dover partecipare all’istruttoria e concludere a pena di nullità assoluta del giudizio ex art. 525 comma 2 c.p.p.

Non così lineare appare, invece, la soluzione adottata dalle SS.UU. in relazione alle condizioni per poter ritenere non necessario il consenso delle parti alla lettura degli atti ex art. 511 c.p.p. assunti davanti al tribunale in diversa composizione.

Infatti, se è vero che la lettura ed utilizzazione dei verbali di prova già assunti è consentita quando la ripetizione dell’esame precedentemente svolto dinanzi al giudice in diversa composizione non abbia avuto luogo (art. 511 comma 2 c.p.p.) per mancanza di richiesta della parte che ne ha domandato l’ammissione (che evidentemente non ha interesse ad una nuova audizione ponendo domande a chiarimenti o nuovi interrogativi, potendosi ritenere dunque sussistente un implicito consenso alla utilizzazione di tale atto ai fini della prova) oppure perché non è più possibile (sempre che – ad avviso dello scrivente – si tratti di un’ipotesi di accertata impossibilità di natura oggettiva, ex art. 111 comma 5 Cost., che impedisca la ripetizione dell’esame e quindi precluda un nuovo espletamento della medesima prova, già assunta dalle parti in contraddittorio dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale, per cause di natura obiettiva che devono essere diverse ovviamente dalla volontà del dichiarante di sottrarsi al confronto con l’imputato ed il suo difensore che ne determinerebbe, altrimenti e per converso, l’inutilizzabilità), qualche perplessità suscita il riferimento alla non necessità del consenso alla lettura ex art. 511 c.p.p. quando la ripetizione dell’esame non abbia avuto luogo “… perché non ammessa”.

Tale limitazione non pare ragionevole in quanto, nel caso in cui la parte abbia insistito, a seguito del mutamento della persona fisica del giudicante, per la ripetizione dell’esame di un teste già escusso e ne abbia domandato l’esame (ad esempio, per poter formulare nuove domande o richiedere chiarimenti al teste già sentito), porterebbe a ritenere utilizzabile il verbale di prova precedentemente formatosi senza che vi sia alcun contatto tra la fonte di prova precedentemente sentita ed il nuovo giudice, in violazione del principio di oralità, nonostante la riassunzione di tale prova sia stata domandata e sia concretamente possibile.

Probabilmente, il riferimento delle SSUU alla possibilità di dare lettura ed utilizzare i verbali di prova assunti dinanzi al giudice in diversa composizione nel caso in cui la ripetizione non sia stata ammessa riguarda l’ipotesi di manifesta superfluità ed irrilevanza della prova ex art. 495 c.p.p. che non venga (ad esempio) ammessa dal nuovo giudice persona fisica o venga revocata.

Anche così però, si comprende poco questa limitazione in quanto, al momento del mutamento della persona fisica del giudicante, occorrendo una nuova ammissione delle prove o comunque ritenendosi confermato (salvo modifiche) il provvedimento precedente, pare difficile ipotizzare un caso concreto in cui il nuovo giudice decida di escludere preventivamente, a priori, la ripetizione di un esame che non si è svolto davanti a lui ritenendolo addirittura manifestamente superfluo o irrilevante e ciò, in particolare, dopo che un precedente provvedimento ammissivo ha ritenuto tale prova non manifestamente irrilevante e superflua ammettendola e sfogandola.

Una simile decisione sarebbe, poi, presa sulla base della lettura delle fonoregistrazione e difficilmente potrebbe ritenersi condivisibile in quanto adottata a seguito di lettura dell’atto scritto e non del contatto diretto con la fonte di prova, che, fino a prova contraria (chiedo scusa per il gioco di parole), non si potrebbe certo presumere manifestamente superflua prima di assumerla nuovamente innanzi a sé quando la ripetizione dell’esame sia stata domandata e sia concretamente possibile.

Ma sotto questo aspetto sarà il deposito delle motivazioni delle SSUU a chiarire la portata di tale riferimento e le ipotesi in cui sia ritenuto non necessario il consenso delle parti alla lettura degli atti ex art. 511 c.p.p. assunti dinanzi al giudice in diversa composizione.

A questo punto, appare possibile formulare delle considerazioni conclusive.

Conclusioni

La sentenza della Corte Costituzionale n° 132/2019 – nel dichiarare l’inammissibilità della questione sollevata dal Tribunale di Siracusa – contiene un pressante invito rivolto al legislatore, ad adottare meccanismi “compensativi” funzionali a garantire l’obiettivo della correttezza della decisione.

In altri termini, la Corte Costituzionale – fotografando la distanza che separa il modello accusatorio del nostro procedimento penale e la quotidianità pratica della sua declinazione in termini affatto diversi (in cui, spesso e volentieri, non vi è alcuna immediatezza tra istruttoria e decisione a cui è finalizzato il rispetto del principio di oralità che finisce per svilire, a volte, il valore del contatto diretto tra il giudice e la fonte di prova al momento della sua formazione dinanzi a lui nel contraddittorio tra le parti e per ridurre così il contributo conoscitivo che apporta concretamente alla formazione ed espressione del libero convincimento del giudice) – ci invita a trovare metodiche (rispettose del diritto di difesa) necessarie a garantire la conservazione ed immutabilità della prova che ne eviti la dispersione e al contempo a ripensare alla necessità di mantenere il principio di immutabilità tra giudice che assume la prova (o ne dispone l’ammissione) e giudice che decide.

Ci invita ad accettare la possibilità che vengano introdotte ragionevoli eccezioni al principio di immutabilità, attualmente concepito come rigido e fisso (e non a caso sanzionato con la nullità assoluta ex art. 525 comma 2 c.p.p.).

La domanda si può porre così: l’oralità ed immediatezza della decisione sono principi che ci possiamo ancora permettere?

Questo pare essere il vero e proprio interrogatorio che si pone – e ci pone – la Corte Costituzionale.

O in altri termini: a fronte di tutte le condanne per violazione della ragionevole durata dei processi che l’Italia subisce (e del loro pesante impatto economico), delle problematiche organizzative che spesso precludono allo stesso giudice che ha partecipato all’istruttoria di concludere il processo con sentenza, del fatto che la rinnovazione integrale dell’istruttoria dibattimentale tutte le volte in cui muta la persona fisica del giudicante finirebbe per comportare in un numero rilevante di casi la prescrizione dei reati e l’impossibilità di conseguire una decisione sul merito dei fatti contestati anche per l’imputato, non è meglio fare a meno di tale rigido principio di immutabilità tra giudice che ammette le prove e che decide?

Ed utilizzare le prove che si sono assunte ai fini della decisione e che comunque sono allegate al fascicolo per il dibattimento, perché tanto – per come (non) funziona l’amministrazione della giustizia – il nuovo giudice penale che arriva quelle considererà e quelle soltanto senza poter trarre alcun apporto conoscitivo ulteriore dal contatto privilegiato e diretto con la fonte di prova, che, a distanza di anni, se dovrà essere risentita, nulla più si ricorderà?

La domanda è legittima.

E’ giusto ed opportuno porsela.

Ma, ad avviso dell’autore, va rispedita al mittente, come la provocazione sottostante (l’oralità ed immediatezza della decisione sono principi che ci possiamo ancora permettere?).

E’ lo Stato a dovere garantire che i processi penali si possano celebrare in un tempo ragionevole (art. 111 Cost.), in condizioni di parità e dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale.

E nella nostra Costituzione e nel codice di rito è previsto – e recepito – un modello processuale di stampo accusatorio, nel quale punti fermi sono i principi di oralità ed immediatezza e concentrazione tra istruttoria e decisione.

E’, dunque, responsabilità dello Stato amministrare in modo efficiente ed effettivo la giustizia, facendo in modo che il processo penale sia equo e rispettoso dei principi costituzionali stabiliti nella Carta Fondamentale e che possa concludersi in tempi ragionevoli assicurando una decisione di merito sull’imputazione formulata in danno dell’accusato.

I disservizi nell’amministrazione della giustizia ed i problemi della organizzazione dei servizi essenziali (tra cui vi è senz’altro il funzionamento e l’amministrazione della giustizia penale) non possono però essere fatti ricadere sull’imputato, che non ha alcuna responsabilità in merito e neppure alcun potere di intervento, ed a cui invece va garantito un processo equo.

E un processo penale, per dirsi equo, deve potersi svolgere in contraddittorio, in condizioni di parità con l’accusa (cosa già di per sé difficile a distanza di anni), dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale, davanti al quale si forma la prova e che deve essere poi lo stesso che assumerà la deliberazione finale nei confronti dell’imputato in modo da poter formare ed esprimere il proprio libero convincimento sull’imputazione, in modo corretto ed aderente ai fatti per come ricostruiti ed emersi innanzi a lui.

In questo contesto, e nell’attuale ordinamento processuale, l’oralità ed immediatezza sono, dunque, ancora un valore da preservare.

E non sono certamente difficoltà logistiche in alcun modo imputabili o riconducibili al comportamento dell’accusato (come il frequente trasferimento o sostituzione dei giudici persone fisiche) – superabili con un’adeguata organizzazione e funzionamento del servizio giustizia, purtroppo spesso carenti nel nostro Paese – a dover intralciare il processo di accertamento della verità processuale, già di per sé difficile ed irto di ostacoli, accettando di affidarsi allo scritto e alle fonoregistrazioni piuttosto che privilegiare il contatto diretto del giudice e delle parti con la fonte di prova in modo da garantire, con l’esame e con il controesame del teste (tipici di un sistema accusatorio come il nostro, che sia e deve aspirare ad essere sempre improntato al rispetto del principio del contraddittorio nella formazione della prova), l’apporto di un valido e idoneo contributo conoscitivo essenziale per la espressione e formazione del libero convincimento del nuovo giudice e quindi per l’emissione di una giusta decisione.

Va bene, dunque, pensare a “meccanismi compensativi” ma senza rinunciare allo spirito e alla sostanza del processo penale accusatorio e al contraddittorio nella formazione della prova – di cui l’oralità e l’immediatezza della decisione sono principi fondanti – quale metodo affidabile per la formazione della conoscenza e per conseguire una decisione aderente all’imputazione che sia corretta e rispettosa del diritto di difesa.

Specialmente per chi è chiamato a giudicare “in corsa” e debba perciò potersi formare un proprio convincimento sui fatti per cui è processo, privilegiando il ricorso ed il contatto diretto con la fonte di prova e gli utili elementi conoscitivi, propedeutici ed utili alla generazione di conoscenza, che soltanto tale contatto può dare.

Ecco perché l’oralità e l’immediatezza della decisione, e l’immutabilità del giudice ex art. 525 comma 2 c.p.p. (che ne è l’espressione massima, per la sua rigidità e il carattere estremo delle conseguenze processuali – nullità assoluta – che genera la sua violazione), sono principi che possiamo, e dobbiamo, ancora permetterci e che hanno senso, ora più che mai, in un’epoca storica di arretramento delle garanzie difensive.

Dobbiamo, semmai, metterci in condizione di “far funzionare” in concreto tali principi rifuggendo da scorciatoie e scappatoie e colmare la distanza (questo sì) tra modello ideale e realtà pratica.

Perchè è anche vero che di soli principi si muore.

 

Avv. Dainelli Riccardo

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