Indice
- Il fatto
- I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
- Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
- Conclusioni
1. Il fatto
La Corte di Appello di Torino confermava una condanna emessa nei confronti di una persona accusata di avere commesso il al reato di evasione, rigettando la richiesta di concordato in appello formulata dall’imputato con parere favorevole del Procuratore generale.
In particolare, la richiesta non veniva accolta sul presupposto che fosse errato il calcolo pena, in quanto la riduzione della pena non era stata operata nella misura di un terzo, ai sensi dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen..
2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso il provvedimento emesso dai giudici di seconde cure proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato, che deduceva due motivi di ricorso, trattatati congiuntamente, in quanto (reputati) entrambi volti a dedurre l’illegittimità del rigetto dell’accordo con rinuncia sui motivi.
Nel dettaglio, si deduceva che l’art. 599-bis cod. proc. pen., pur avendo struttura similare all’istituto del patteggiamento, non contempla la necessaria riduzione di un terzo della pena che, pertanto, può essere rideterminata dall’accordo delle parti anche in misura inferiore.
Inoltre, si eccepiva altresì che la Corte territoriale, non ritenendo di accogliere il concordato sui motivi, avrebbe dovuto comunicare preventivamente tale decisione alle parti, in modo da consentire loro una rimodulazione dell’accordo.
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3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il ricorso era ritenuto fondato per le seguenti ragioni.
Si osservava innanzitutto come occorresse in via preliminarmente affrontare la questione relativa alla ammissibilità o meno dell’impugnazione del mancato accoglimento dell’accordo formulato dalle parti, registrandosi sul punto un orientamento giurisprudenziale secondo cui il ricorso per Cassazione non sarebbe consentito in quanto l’art. 599-bis cod. proc. pen., a differenza di quanto stabilito per il patteggiamento, non contempla la possibilità di sindacare il mancato accoglimento del concordato, come pure non è consentito di valutare l’immotivato rifiuto da parte del Procuratore generale posto che è stato affermato che non è ricorribile per Cassazione il provvedimento di rigetto della richiesta concorde delle parti di accoglimento dei motivi d’appello a norma dell’art. 599-bis cod. proc. pen. (Sez. 7, n. 20085 del 2/2/2021), rilevandosi al contempo come, a tale conclusione, la Corte di legittimità sia giunta valorizzando la mancanza di una norma che, sulla falsariga di quella dettata all’art. 448 cod. proc. pen. per il patteggiamento, consenta di proporre ricorso per cassazione nel caso di mancato accoglimento dell’accordo da parte del giudice.
Oltre a ciò, era per di più rilevato che il concordato in appello, pur perseguendo finalità deflattive, ha natura non assimilabile al patteggiamento, nella misura in cui interviene dopo una pronuncia di condanna in primo grado e, quindi, quando vi è già stata una piena valutazione sul merito dell’accusa. Ciò dunque comporterebbe, per la Suprema Corte, che la Corte di Appello è chiamata ad esercitare un vaglio di congruità non sindacabile in quanto «il diniego del consenso da parte del pubblico ministero o il rigetto della proposta di concordato da parte della Corte di appello sono passaggi procedurali non sottoposti ad alcuna forma di controllo processuale che, ove fosse previsto, complicherebbe la procedura, invece che semplificarla», fermo restando che principio in parte analogo è stato affermato in una precedente sentenza che ha ritenuto inammissibile il ricorso per Cassazione che censuri il dissenso del pubblico ministero alla proposta di definizione del processo ai sensi dell’art. 599-bis cod. proc. pen., in mancanza di una specifica previsione di legge che lo renda revisionabile (Sez. 2, n. 8605 del 5/11/2020).
Pur tuttavia, ad avviso degli Ermellini, pur a fronte di tale quadro ermeneutico, le sentenze sopra richiamate non compiono alcuna differenziazione tra l’inammissibilità del ricorso relativa al rigetto del concordato che interviene dopo che si è formato l’accordo tra le parti, rispetto all’impugnazione che veda sul mancato consenso del Procuratore generale, trattandosi, invero, di fattispecie che, a loro avviso, non paiono affatto sovrapponibili.
In effetti, se, nel caso in cui il Procuratore generale non presti parere favorevole al concordato, il ricorso per Cassazione non può essere proposto per il semplice motivo che l’impugnazione non concerne la sentenza, bensì un atto che costituisce espressione di un negozio processuale rimesso ad una delle parti del processo, tanto è vero che neppure nel patteggiamento è ammesso il ricorso diretto avverso il dissenso del pubblico ministero, a fronte del quale è stato introdotto un diverso controllo di legalità, demandato al giudice che procede il quale, ove ritenga il dissenso immotivato, potrà recepire la proposta di applicazione della pena, invece, la fattispecie posta all’attenzione della Cassazione nel caso di specie atteneva ad una situazione del tutto diversa, vale a dire ad un’ipotesi in cui l’accordo tra imputato e Procuratore generale era regolarmente intervenuto sicché si poneva solo il problema di sindacare l’illegittimità del rigetto da parte del giudice dell’appello.
Orbene, per i giudici di piazza Cavour, così circoscritto l’ambito della questione, la tesi secondo cui il mancato accoglimento del concordato non è suscettibile di impugnazione con il ricorso per Cassazione non può essere condivisa per una pluralità di ragioni.
In primo luogo, si rilevava come il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione non sia di ostacolo alla proponibilità del ricorso avverso la sentenza di appello che decida nel merito, senza accogliere il concordato sui motivi e sulla pena.
Infatti, dal momento che il concordato in appello, sia in caso di rigetto che di accoglimento, determina l’adozione di un’ordinaria sentenza di secondo grado, in quanto tale impugnabile in Cassazione secondo la disciplina ordinaria, il fatto che non sia prevista una disciplina derogatoria per l’impugnazione del concordato in appello non consente affatto di ritenere, per la Corte di legittimità, che il ricorso per Cassazione sia in tal caso precluso, bensì determina l’applicabilità dei principi generali e, quindi, depone nel senso dell’ammissibilità del ricorso.
Del resto, l’impugnabilità è stata espressamente riconosciuta anche nel caso in cui il concordato sia stato recepito essendosi ritenuto che in tale ipotesi è ammissibile il ricorso in Cassazione avverso la sentenza emessa ex art. 599-bis cod. proc. pen. che deduca motivi relativi alla formazione della volontà della parte di accedere al concordato in appello, al consenso del Procuratore generale sulla richiesta ed al contenuto difforme della pronuncia del giudice mentre sono inammissibili le doglianze relative a motivi rinunciati o alla mancata valutazione delle condizioni di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 30990 del 1/6/2018).
Ciò posto, un ulteriore argomento reputato a favore della ricorribilità in Cassazione era ravvisato in un ragionamento di ordine logico-sistematico, che veniva formulato nei seguenti termini: “Le pronunce che hanno escluso l’ammissibilità del ricorso giungono alla conclusione secondo cui il rigetto del concordato sarebbe frutto di una scelta non sindacabile compiuta dal giudice di appello, ma in tal modo si introduce un grave vulnus al diritto di difesa, nonché una palese violazione dell’interesse dell’imputato ad accedere ad un trattamento sanzionatorio di favore. La scelta del giudice di appello di non ammettere il concordato determina effetti di estremo rilievo e, pertanto, ove non si consentisse il controllo sulla legittimità della stessa con il ricorso per cassazione, si porrebbero fondati dubbi di legittimità costituzionale. Ove si ammettesse che il rigetto del concordato non sia in alcun modo sindacabile, si impedirebbe all’imputato di ottenere il controllo su una decisione fortemente pregiudizievole, posto che il concordato, consentendo una determinazione della pena sulla base dell’accordo tra le parti, ha un innegabile effetto premiale”.
Orbene, fatto questo ragionamento, un ulteriore motivo a supporto della tesi favorevole all’impugnabilità del rigetto del concordato, ad avviso del Supremo Consesso, era desumibile dal raffronto con il similare istituto del patteggiamento.
Invero, pur tenendo conto delle differenze tra i due istituti, per la Corte di legittimità, è sintomatico che nel patteggiamento la giurisprudenza ammette pacificamente la possibilità di impugnare, sia pur non autonomamente, l’ordinanza di rigetto della richiesta di applicazione della pena atteso che, in tal senso, è stato recentemente ribadito che l’ordinanza di rigetto della richiesta di patteggiamento non è immediatamente impugnabile per abnormità, trattandosi di provvedimento non definitivo in relazione al quale è riconosciuto un potere impugnatorio specifico, benché differito, essendo consentito appellare la sentenza che, all’esito del giudizio ordinario, non abbia riconosciuto la legittimità della richiesta di applicazione della pena concordata (Sez. 6, n. 33764 del 21/06/2021).
Orbene, per la Cassazione, siffatto principio, sia pur con l’inevitabile adeguamento alle peculiarità dell’istituto, è applicabile anche al concordato in appello, dovendosi ritenere che il rigetto della richiesta debba poter essere sottoposta a controllo che, trattandosi di decisione assunta in appello, non potrà che intervenire mediante la proposizione del ricorso in Cassazione.
Orbene, declinando tale criterio ermeneutico rispetto al caso di specie, e, di conseguenza, passando al merito della questione, gli Ermellini, una volta fatto presente come la Corte di Appello avesse ritenuto di non accogliere la richiesta formulata dalle parti che avevano determinato la pena per il reato di cui all’art. 385 cod. pen. partendo dalla pena-base di un anno di reclusione, ridotta per il rito concordato a mesi 9 e giorni 10 di reclusione, mantenendo fermo il giudizio di equivalenza tra attenuanti generiche e la recidiva già operato in primo grado e, sulla base di tale computo, quindi, risultava come le parti avessero operato una riduzione per il rito abbreviato inferiore al limite massimo di 1/3, la cui applicazione avrebbe comportato la determinazione della pena finale in mesi 9 di reclusione, facevano presente come tale scelta non fosse stata condivisa dalla Corte di Appello secondo cui l’accordo non poteva essere recepito in quanto la riduzione della pena «doveva essere operata nella misura di un terzo “secco”» ai sensi dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., trattandosi
di una decisione che si poneva in contrasto con il dettato dell’art. 599-bis cod. proc. pen., in base al quale le parti «indicano al giudice anche la pena sulla quale sono d’accordo» senza che sia prevista una riduzione in misura fissa.
Ed allora, quanto detto comportava, per la Corte di legittimità, che essendo, nel concordato in appello, le parti libere di determinare l’entità della pena finale non essendo prevista la misura della riduzione, come il giudice potrà sindacare la pena concordata esclusivamente con riguardo alla congruità della stessa e, pertanto, ciò che rileva è la pena finale che le parti sottopongono al giudice affinchè ne valuti la congruità, a nulla rilevando se nella sua determinazione siano incorsi in errori di calcolo, fermo restando che, sempre ad avviso del Supremo Consesso, tale conclusione è ulteriormente avvalorata dal fatto che, qualora il giudice recepisca la pena indicata, l’entità della stessa non potrà più essere oggetto di contestazione, se non nel caso di pena illegale.
Ebbene, nel caso di specie, la Corte di Appello, sia pur implicitamente, non aveva ritenuto la pena concordata incongrua posto che se fosse stato applicato il criterio indicato, con la riduzione di un terzo, la pena finale sarebbe risultata di 10 giorni più bassa rispetto a quella pattuita tra le parti.
Il rigetto, pertanto, per la Cassazione, era stato dettato esclusivamente da una errata valutazione giuridica, comportando ciò la possibilità di disporre l’annullamento senza rinvio con rideterminazione della pena nella misura indicata dalle parti.
Alla luce di tali considerazioni, dunque, il ricorso era accolto e, non essendo stimato necessario fare ulteriori valutazioni, si procedeva, già in sede di legittimità, alla rideterminazione della pena nella misura concordata dalle parti.
4. Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante essendo ivi chiarito se l’ordinanza di rigetto della richiesta di concordato in appello sia ricorribile per Cassazione.
Difatti, in tale pronuncia, mutuando quanto postulato sempre dagli Ermellini in relazione al similare istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti, si afferma in sostanza che, nel caso in cui la richiesta avanzata ai sensi dell’art. 599-bis, co. 1, cod. proc. pen. sia rigettata, è consentito proporre ricorso per Cassazione avverso siffatto provvedimento.
Tale decisione, dunque, può essere presa nella dovuta considerazione ogni volta si debba valutare se ricorrere per Cassazione in un caso di questo genere.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su tale tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.
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