V. Rubino, Avvocato, Dottore di ricerca in Diritto dell’Unione europea, Università del Piemonte Orientale (AL).
Sommario: 1) introduzione; 2) la vicenda; 3) il quadro normativo di riferimento; 3.1) l’etichettatura dei prodotti a base di cacao e cioccolato con particolare riferimento al problema dell’origine; 3.2) l’ambigua formulazione dell’art. 3 co. 1 n. 8 della direttiva 2000/13 CE ed i suoi criteri interpretativi; 4) conclusioni.
1. La sentenza del Tar Friuli Venezia Giulia del 23 Maggio 2006 n. 351
[1] torna ad occuparsi in sede di giustizia amministrativa di uno degli aspetti più importanti e discussi dell’etichettatura degli alimenti, affrontando il “nodo” della obbligatorietà dell’indicazione di provenienza del prodotto alimentare industriale.
L’argomento è oggi al centro di una complessa elaborazione teorica, normativa e giurisprudenziale
[2], anche per il fatto che la trasparenza commerciale e l’identificabilità del prodotto in tutti i suoi elementi (compresa l’origine) a torto o a ragione è percepito come uno dei pochi rimedi ancora disponibili per arginare l’iperproduttivismo a basso costo dell’Est del mondo, e difendere i livelli occupazionali del nostro continente in attesa dell’individuazione di strategie economiche capaci di reggere il confronto nel mercato globale del nuovo millennio.
L’argomento presenta indubitabili spunti di interesse tanto sul piano comunitaristico che interno, anche per la stretta relazione che l’indicazione di provenienza ha con la disciplina generale sulla libera circolazione delle merci, e richiede, dunque, un breve approfondimento tanto sul versante normativo che su quello giurisprudenziale.
2. La vicenda per cui è stato radicato il giudizio è, nelle sue linee essenziali, piuttosto semplice.
Una nota industria dolciaria italiana nel mese di maggio 2004 commissionava ad un fabbricante Turco una partita di ovetti di plastica contenenti confetti di cioccolato ricoperti di zucchero
[3].
Il contratto prevedeva che il prodotto fosse confezionato direttamente all’origine, con il nome della committente italiana, che, in quanto venditore comunitario, poteva figurare in etichetta quale unico soggetto giuridicamente responsabile dell’alimento.
Nelle singole confezioni, tuttavia, non veniva apposta alcuna indicazione circa il luogo di materiale fabbricazione dei confetti, risultando così quale unico riferimento “geografico” la sede legale della committente.
All’arrivo della partita presso la dogana a Trieste il locale Ufficio Sanità Marittima, Aerea e di Frontiera (USMAF), organo periferico del Ministero della Salute, rilevando l’omissione contestava all’importatrice la violazione della normativa generale in materia di etichettatura degli alimenti, ed emetteva un provvedimento di “vincolo sanitario” con cui veniva concesso “nulla osta” allo sdoganamento condizionato alla rietichettatura ovetto per ovetto dell’intera partita di prodotto, mediante apposizione della dicitura “fabbricato in Turchia”.
Avverso il provvedimento ricorreva l’importatrice, contestandone l’illegittimità tanto sul piano comunitario, quanto strettamente interno, e chiedendo, oltre all’annullamento del provvedimento “
in parte qua”
[4], anche il risarcimento dei danni patiti per l’attività imposta ed il ritardo nelle consegne.
3. La problematica che ha dato origine al giudizio deve essere inquadrata nell’ambito delle disposizioni generali in materia di etichettatura degli alimenti, e delle parallele disposizioni specifiche dedicate ai prodotti a base di cacao e cioccolato, per verificare quali obblighi incombano sul produttore e/o sul venditore/importatore di derrate alimentari in tema di provenienza di alimenti fabbricati con metodo “industriale”.
3.1. L’etichettatura degli alimenti a base di cacao e cioccolato è da lungo tempo stata armonizzata a livello comunitario, sia verticalmente, con la direttiva 1973/241 CEE
[5], oggi 2000/36 CE
[6], sia, per quanto ivi non espressamente previsto
[7], con le direttive generali in materia di etichettatura degli alimenti 1979/112 CEE
[8], oggi 2000/13 CE
[9].
La questione dell’origine di questi particolari prodotti non è affrontata dalla normativa verticale, sicché occorre rifarsi al combinato disposto degli artt. 2 e 3 co. 1 n. 8) della direttiva 2000/13 CE.
Il primo stabilisce che l’etichettatura e le relative modalità di realizzazione non devono essere tali da indurre in errore l’acquirente, con particolare riferimento, fra l’altro, all’origine o la provenienza del prodotto.
Il secondo individua l’origine fra le indicazioni obbligatorie in etichetta solo quando “l’omissione di tale indicazione possa indurre in errore il consumatore circa l’origine o la provenienza effettiva del prodotto alimentare”.
Il confronto fra le due disposizioni ne evidenzia il differente campo d’applicazione: l’articolo 2 si riferisce, infatti, a tutte le espressioni o indicazioni “positive”, nonché alle modalità di realizzazione grafica dell’etichetta, che il produttore abbia utilizzato volontariamente, ove queste possano in qualche misura generare confusione sul luogo di materiale fabbricazione dell’alimento.
L’articolo 3 co. 1 n. 8), al contrario, detta criteri “in negativo”, specificando quando il produttore o il confezionatore finale non possano fare a meno di indicare dove il prodotto è stato realizzato onde evitare di trarre in inganno il consumatore
[10].
Ai fini della vicenda che qui interessa, dunque, è a questa seconda norma che occorre guardare, trattandosi di una contestazione relativa alla omissione dell’indicazione, ritenuta dall’Autorità Amministrativa di frontiera indispensabile.
3.2. La particolare formulazione dell’art. 3 co. 1 n. 8) della direttiva 2000/13 CE crea non pochi problemi interpretativi.
La norma, infatti, non fornisce criteri positivi assoluti per giudicare quando sussista il pericolo di confusione per l’acquirente, limitandosi a dettare un principio generale, e rimettendo all’apprezzamento del valutatore il compito di dedurli in relazione al tipo di prodotto ed al particolare bene giuridico protetto dalla disposizione: la lealtà commerciale e la tutela della buona fede consumeristica.
Appare quindi essenziale per l’interprete rifarsi alla presumibile “ratio legis” ispiratrice della disposizione, onde poterne ricavare utili criteri da impiegare caso per caso.
La questione dell’indicazione dell’origine dei prodotti circolanti nel mercato unico europeo è stata oggetto in passato di diversi approfondimenti giurisprudenziali da parte della Corte di giustizia CE, sia pur sotto il profilo della compatibilità di disposizioni nazionali
[11] che ne imponevano l’obbligo a tutti i prodotti di un determinato settore o anche solo a quelli provenienti da altri Paesi membri.
In linea generale il Giudice comunitario si è mostrato tendenzialmente contrario a simili imposizioni, in relazione alla possibilità che la marchiatura d’origine possa scatenare in sede di acquisto dinamiche nazionalistiche contrarie alla creazione di un mercato unico europeo.
Così nella sentenza 25 Aprile 1985, Commissione c. Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda
[12], la Corte ha ritenuto che “
le indicazioni o la marchiatura d’origine mirano a consentire al consumatore di effettuare una distinzione fra le merci nazionali e quelle importate e daranno quindi loro la possibilità di far valere gli eventuali pregiudizi contro prodotti stranieri. Ciò è evidentemente contrario alle finalità stesse del Trattato CE, che, attraverso l’instaurazione di un mercato comune e grazie al ravvicinamento delle politiche economiche degli Stati membri ha progressivamente fuso i mercati nazionali in uno spazio economico unitario con le caratteristiche di un mercato interno”
[13].
La preoccupazione di evitare l’instaurazione di dinamiche concorrenziali fondate sull’emotività o sull’irrazionalità dei consumatori è presente in maniera costante nelle valutazioni della Corte, severe anche in relazione a possibili “varianti” sul tema dell’origine. Con la sentenza 24.11.1982 Commissione c. Irlanda
[14] il Giudice europeo ha ritenuto contrarie all’art. 28 TCE anche semplici campagne promozionali riferite ai prodotti “nazionali”, sia che queste vengano promosse da Enti pubblici, sia, con alcuni importanti distinguo, che provengano da organizzazioni di produttori inquadrabili nel diritto privato
[15].
La regola enunciata incontra tuttavia, com’è noto, alcuni limiti ed alcune eccezioni, che possono mutare i termini del giudizio nel senso di far ritenere necessaria- e quindi legittima la relativa imposizione- l’indicazione del “made in…” per salvaguardare particolari interessi ritenuti “essenziali”.
Nel caso dell’etichettatura degli alimenti, attesa la sua funzione eminentemente commerciale, emergono in particolare le esigenze imperative della salvaguardia della lealtà nella competizione commerciale fra imprese, della trasparenza del mercato, e della tutela degli interessi dei consumatori, racchiuse nella già citata espressione dell’art. 3 co. 1 n. 8) dir. 2000/13 CE “qualora l’omissione possa indurre in errore (…) circa l’origine o la provenienza effettiva (…)”.
L’applicazione dei criteri interpretativi ispirati all’art. 28 TCE rende evidente l’errore dell’Amministrazione nel caso di specie: la norma in oggetto, infatti, non chiede di valutare genericamente se l’etichettatura nel suo complesso possa ingenerale dubbi sul luogo di preparazione dell’alimento, bensì di accertare se questi dubbi possano avere una qualche rilevanza nella formazione delle scelte consumeristiche meritevole di tutela sul piano giuridico.
In proposito occorre ancora stabilire se la meritevolezza di tutela debba essere identificata solo con riferimento ad aspetti obiettivi, rintracciabili e “misurabili” nel prodotto, ovvero se anche le mere aspettative del consumatore, ossia l’aspetto puramente “soggettivo”, possa svolgere un qualche ruolo.
La legislazione comunitaria verticale sembrerebbe confermare, sia pur con qualche divagazione, il primo aspetto.
Nei casi in cui il Legislatore europeo ha dettato specifici obblighi relativi alla indicazione dell’origine per determinati prodotti
[16], infatti, è possibile rintracciare la necessità di evidenziare differenze qualitative fra i diversi prodotti dello stesso genere presenti sul mercato
[17], ovvero particolari finalità sanitarie legate essenzialmente al problema della rintracciabilità
[18], elementi comunque legati alla natura stessa dell’alimento.
Più complesso appare il caso delle aspettative “soggettive” del consumatore, che in alcuni casi possono prescindere dai contenuti del prodotto e riferirsi a particolari tradizioni culturali o produttive.
In dottrina
[19] è stato evidenziato come nel caso del formaggio provolone
[20], tipico della nostra tradizione, il consumatore potrebbe avere interesse ad acquistare il prodotto “originale”, ancorché le caratteristiche di questo possano facilmente essere riprodotte anche all’estero. Stesso ragionamento potrebbe valere, al contrario, per un formaggio “Brie” prodotto in Italia, ove il consumatore potrebbe avere interesse ad identificarne l’origine per poter scegliere il prodotto originale francese
[21] e così via.
Con riferimento a questi casi, in cui ad essere in gioco non sono le caratteristiche intrinseche dell’alimento, ma il diritto dell’acquirente ad una comunicazione trasparente che gli consenta scelte consapevoli motivate da concrete aspettative commerciali, la Corte di giustizia ha ritenuto la sussistenza del limite portato dall’esigenza imperativa della tutela del consumatore.
Nelle sentenze 20.02.1975 Commissione c. Repubblica Federale di Germania
[22], e 17.6.1981, Commissione c. Irlanda
[23], il Giudice europeo ha infatti chiarito che sussiste l’interesse prioritario del consumatore a conoscere l’origine del prodotto qualora questo implichi “
una determinata qualità, particolari materie prime di base o un determinato procedimento di fabbricazione, o, ancora, un certo ruolo nel folclore o nella tradizione della Regione di cui trattasi (…)”.
Risulterebbe, quindi, confermata secondo questo orientamento giurisprudenziale la possibilità di estendere la valutazione anche ad elementi “soggettivi” quali le aspettative circa l’originalità del prodotto, purché queste siano comunque legate ad un dato oggettivo, come la tradizionalità dello stesso o la tipicità della lavorazione che lo caratterizza.
4. L’excursus normativo e giurisprudenziale richiamato nei paragrafi precedenti evidenzia l’importanza di una analisi accurata delle diverse situazioni che possano presentarsi all’interprete chiamato ad attuare la disciplina comunitaria sull’etichettatura dei prodotti alimentari industriali.
La giurisprudenza della Corte di giustizia valorizza gli elementi obiettivi su cui è possibile ancorare ogni valutazione al riguardo, partendo dal presupposto che dietro ogni scelta applicativa può nascondersi il pericolo di una restrizione alla libertà dei commerci intracomunitari.
L’attuale elaborazione si fonda tuttavia ancora sulla segmentazione delle scelte in funzione dei prodotti o delle circostanze genetiche di questi, creando inevitabilmente una certa insicurezza interpretativa e vicende, quali quella che ha occasionato la sentenza in commento, contraddittorie ed economicamente controproducenti.
Le pressioni crescenti di quanti vorrebbero utilizzare l’etichettatura quale strumento di “politica economica”, imponendo l’obbligatorietà dell’indicazione di origine per tutti i prodotti industriali, potrebbero non rappresentare la soluzione ottimale: come è stato osservato in precedenza, infatti, questi provvedimenti rischiano di mettere in moto dinamiche conflittuali potenzialmente capaci di distruggere il lungo cammino compiuto in oltre cinquant’anni dal mercato unico europeo senza peraltro ottenere particolari benefici.
La necessità di una difesa commerciale dai prodotti extracomunitari a basso costo potrebbe tuttavia forse trovare una soluzione di compromesso nella valorizzazione dell’origine in termini di provenienza comunitaria o meno dei prodotti industriali.
Si potrebbe, cioè, imporre l’indicazione di origine per tutti i prodotti provenienti da Paesi extraeuropei, ovvero, in termini positivi, premiare le imprese che scelgano di mantenere l’intero ciclo manifatturiero nel “vecchio continente” con la valorizzazione dell’identità “comunitaria” (non nazionale) del prodotto, evitando al contempo di creare ostacoli agli scambi intracomunitari di merci, ormai non più tollerabili anche in relazione alle nuove sfide che la globalizzazione ci pone dinnanzi.
* Il presente articolo è stato pubblicato sul numero 2/07 della rivista Alimenta, cui vanno i ringraziamenti per aver concesso la ripubblicazione nella sezione di diritto alimentare della rivista Diritto & Diritti. La sentenza commentata è pubblicata on line su Diritto & Diritti alla pagina https://www.diritto.it/art.php?file=/archivio/22687.html
[1] Tar Friuli Venezia Giulia, sentenza n. 351/2006 del 23 maggio 2006, L.Z. S.p.a. contro Ministero della Salute, pubblicata su Alimenta nel numero 11-12/2006, p. 240 e ss.
[2] In Dottrina il problema dell’origine degli alimenti è stato variamente affrontato sul piano generale e con riferimento a specifici aspetti verticali di prodotto. Tralasciando l’ambito dei prodotti DOP – IGP, i cui contributi teorici sono troppo numerosi per essere qui esaustivamente richiamati, nello specifico ambito delle indicazioni di provenienza si segnalano
F. Albisinni, L’origine dei prodotti alimentari e la qualità territoriale, in Rivista di Diritto Agrario, nr. 1/2000, pp. 23 e ss.; V. Maglio, La <<trasparenza>> dei prodotti alimentari: la funzione dell’etichettatura nella tutela del consumatore, in Contratto e Impresa/ Europa, nr. 1/2001, pp. 311 e ss.; S. Masini, Dal mistero dell’origine al diritto all’informazione nella presentazione dei prodotti agroalimentari, in Diritto e Giurisprudenza Agraria e dell’Ambiente, n.l 2/2003, pp.72 e ss.; G. Coscia, La via italiana all’etichettatura dei prodotti agroalimentari. Un provvedimento normativo senza futuro, in questa Rivista, nr. 7-8/2004, pp. 151 e ss.; G. De Giovanni, Origine e provenienza dei prodotti alimentari, in questa Rivista, nr. 6/2004, pp. 143 e ss.; dello stesso A., L’origine delle produzioni alimentari, in questa Rivista, nr. 7-8/2004, pp. 155 e ss, e Le etichette dei prodotti alimentari, Bologna, Edagricole,2004; V. Pacileo, Etichettatura nelle produzioni per conto terzi, in Diritto & Diritti, rivista giuridica elettronica pubblicata su internet, on line all’indirizzo www.diritto.it, Marzo 2004; G. Coscia, L’armonizzazione comunitaria delle discipline nazionali sull’etichettatura degli alimenti, in Diritto & Diritti, rivista giuridica elettronica pubblicata su internet, on line all’indirizzo www.diritto.it, Febbraio 2005; F. Albisinni, Dall’etichetta al marchio: origine degli alimenti ed origine della materia prima in un caso di diritto industriale, in Diritto e Giurisprudenza Agraria e dell’Ambiente, nr. 11/2005; C. Quaranta, Concorrenza sleale, appropriazione di pregi e indicazione geografica, in Il Diritto Industriale, n. 1/2006, pp. 57 e ss. Con specifico riferimento alle implicazioni della indicazione “Made in Italy” P. Borghi, Il “made in Italy” nella disciplina italiana e comunitaria, con particolare riferimento agli alimenti, in Diritto & Diritti, rivista giuridica elettronica pubblicata su internet, on line all’indirizzo www.diritto.it, Maggio 2006, e, per ulteriori citazioni, mi sia consentito richiamare il mio lavoro La tutela del “Made in Italy” dopo la sentenza nr. 2648/06 della Corte di Cassazione: considerazioni generali e ricadute nell’ambito delle produzioni alimentari alla luce della normativa e della giurisprudenza comunitaria, in questa Rivista, nr. 9/2006, pp. 180 e ss. Quanto agli aspetti normativi, oltre alle disposizioni generali di cui poi si dirà, è d’obbligo richiamare la Legge 24 dicembre 2003, n. 350 "Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2004)", pubblicata nella GURI n. 299 del 27 Dicembre 2003 – Supplemento ordinario n. 196, con particolare riferimento all’art. 4 co. 49 sul Made in Italy, più volte modificato e da ultimo con la la legge finanziaria 2007; la nota legge 10 Agosto 2004 n. 204, che ha convertito con modificazioni il decreto legge 25 giugno 2004 n. 157, pubblicata su GURI n. 186 del 10 agosto 2004. Sul piano giurisprudenziale, infine, si vedano le sentenze della Corte di Cassazione nr. 3352 del 2.2.2005 “Fro”, 13712 del 14.5.2005 “Legea”, nonché la citata sentenza 2648/06 pubblicata in questa Rivista nel numero 3/06, pp. 70 e ss.
[3] Ai fini delle considerazioni che seguiranno occorre ricordare come la Turchia, in virtù degli accordi di preadesione, goda del regime di libero accesso al mercato comunitario senza restrizioni. Ad essa si applicano, dunque, le pertinenti disposizioni del Trattato CE, fra cui gli artt. 28 – 30 TCE. Sul punto si vedano gli artt. da 5 a 7 della decisione 1/95 del Consiglio (in GUCE L 35 del 13.2.1996) prevedono l’eliminazione delle “misure di effetto equivalente alle restrizioni quantitative” all’importazione nei rapporti commerciali UE – TURCHIA.
[4] Veniva, cioè, richiesto l’annullamento del nulla-osta sanitario nella sola parte in cui prevedeva il vincolo sanitario e l’obbligo di rietichettatura.
[5] Direttiva 73/241/CEE del Consiglio, del 24 luglio 1973, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri concernenti i prodotti di cacao e di cioccolato destinati all’alimentazione umana, in
GUCE L 228 del 16.8.1973, pp. 23–35;
[6] Direttiva 2000/36/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 giugno 2000, relativa ai prodotti di cacao e di cioccolato destinati all’alimentazione umana
GUUE L 197 del 3.8.2000, pp. 19–25.
[7] L’ottavo considerando introduttivo della direttiva 2000/36 CE, riprendendo quanto già in precedenza affermato dalla direttiva 1973/241 CEE, espressamente afferma che la norma “rende applicabile la direttiva 79/112 CEE ai prodotti di cacao e cioccolato al fine di informare correttamente il consumatore”, così evidenziando lo stretto e funzionale collegamento delle due disposizioni.
[8] Direttiva 79/112/CEE del Consiglio, del 18 dicembre 1978, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri concernenti l’etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari destinati al consumatore finale, nonché la relativa pubblicità, in GUCE L 33 dell’ 8.2.1979, pp. 1–14.
[9] Direttiva 2000/13/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 marzo 2000, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l’etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, nonché la relativa pubblicità, in GUUE L 109 del 6.5.2000, pp. 29–42.
[10] Si pensi, ad esempio, ad una confezione di provolone realizzato in Slovenia, o di Emmenthal prodotto in Italia.
[11] La disciplina dell’etichettatura degli alimenti è, come detto, armonizzata, sicché il riferimento alla giurisprudenza sull’art. 28 TCE viene operato per ricavare alcuni criteri che indubbiamente hanno influenzato il Legislatore comunitario nel dettare la disposizione in analisi. E’ infatti evidente che, pur non potendosi trattare nel caso di specie di ostacoli nazionali alla libera circolazione delle merci, il Legislatore nel dettare le proprie disposizioni armonizzate ha l’obiettivo prioritario di preservare l’integrità del mercato, evitando il più possibile di dare origine a nuove forme di restrizione alla circolazione dei prodotti. L’art. 28 TCE, dunque, ben può essere individuato quale criterio ispiratore delle scelte operate in sede di stesura della normativa comunitaria sull’etichettatura degli alimenti.
[12] Cfr. Sentenza della Corte di giustizia CE 25 aprile 1985 in causa 207/83, Commissione c. Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda, pubblicata in Raccolta, 1985, pp. 1201 e ss.
[13] cfr. punto 17 delle motivazioni.
[14] Cfr. Sentenza della Corte di giustizia CE 24 novembre 1982, in causa 249/81, Commissione c. Irlanda, pubblicata in Raccolta, 1982, pp. 4005 e ss.
[15] Sul punto di veda la sentenza della Corte di giustizia CE 13.12.1983, in causa 222/82, Apple and Pear development Council c. K. J. Lewis LTD ed altri, pubblicata in Raccolta, 1983, pp. 4083 e ss.
[16] Si pensi, a titolo esemplificativo, al miele (cfr. art. 2 direttiva 2001/110 CE del Consiglio concernente il miele, pubblicata in GUUE L 10 del 12.1.2002 ), ortofrutticoli freschi (cfr. art. 6 Regolamento (CE) n. 2200/96 del Consiglio del 28 ottobre 1996 relativo all’organizzazione comune dei mercati nel settore degli ortofrutticoli, in GUCE L 297 del 21/11/1996 p. 1, come modificato dalRegolamento (CE) n. 907/2004 della Commissione, del 29 aprile 2004, che modifica le norme di commercializzazione applicabili agli ortofrutticoli freschi per quanto riguarda la presentazione e le indicazioni esterne inGUUE L 163 del 30/04/2004 p. 50), pesce (cfr art. 5 co. 1 lett. b del Regolamento (CE) N. 2065/2001 della Commissione del 22 ottobre 2001 che stabilisce le modalità d’applicazione del regolamento (CE) n. 104/2000 del Consiglio per quanto concerne l’informazione dei consumatori nel settore dei prodotti della pesca e dell’acquacoltura in GUCE L 278 del 23.10.2001 p. 6), carni bovine (Regolamento (CE) N. 1760/2000 del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 luglio 2000 che istituisce un sistema di identificazione e di registrazione dei bovini e relativo all’etichettatura delle carni bovine e dei prodotti a base di carni bovine, e che abroga il regolamento (CE) n. 820/97 del Consiglio, in GUCE L 204 dell 11.4.2000).
[17] Con riferimento agli esempi fatti è noto come il miele sia notevolmente diverso in relazione alla particolare composizione dei fiori presenti nell’ambiente ove vivono le api. Le caratteristiche organolettiche del pesce fresco variano moltissimo in funzione delle acque in cui viene pescato. Qualche dubbio in più sorge in relazione agli ortofrutticoli, anche in considerazione del fatto che la norma verticale impone in questo caso di indicare non la particolare regione in cui sono stati coltivati e raccolti, ma il Paese, ossia la Nazione, di provenienza.
[18] Si pensi alla problematica BSE per le carni bovine.
[19] Cfr. G. De Giovanni, Le etichette… cit., p. 110.
[20] Da non confondersi con la nota DOP “Provolone Valpadana” per cui valgono aspetti totalmente diversi essendo il riferimento geografico incorporato nella stessa denominazione di vendita.
[21] La necessità dell’indicazione di origine in questi casi sembrerebbe trovare conferma anche nella normativa internazionalistica. Nel caso dell’Emmenthal, ad esempio, la Convenzione sull’uso delle designazioni d’origine e delle denominazioni dei formaggi, firmata a Stresa il 1° Giugno 1951, ha previsto l’obbligo di indicazione dell’origine qualora il prodotto venga fabbricato fuori dai confini svizzeri. L’Accordo di Madrid del 1891 sulla repressione delle indicazioni di provenienza false o fallaci, poi, sembrerebbe ancor più severo- fin quasi a manifestare un contrasto con la disciplina comunitaria- affermando nell’art. 3 che, pur non potendosi impedire al venditore di indicare in etichetta il suo nome ed indirizzo anche qualora non coincida con il luogo di fabbricazione, “in such case the address or the name must be accompained by an exact indication in clear characters of the country or place of manufacture or production, or by some other indication sufficient to avoid any error as to the true source of the wares”.
[22] Cfr. sentenza della Corte di giustizia CE 20.02.1975, in causa 12/74, Commissione c. Repubblica Federale di Germania, pubblicata in Raccolta, pp. 181 e ss.
[23] Cfr. sentenza della Corte di giustizia CE 17.6.1981, in causa 113/80, Commissione c. Irlanda, pubblicata in Raccolta, pp. 1625 e ss.
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