L’usura sopravvenuta non esiste davvero più?

Federico Corti 14/02/18
di Federico Corti, Cecilia Longoni, Gian Carlo Sessa e Claudia Chavvaria Mendoza

Introduzione. L’ambito di indagine

Con la sentenza n. 24675 del 19 ottobre 2017, le Sezioni Unite della Suprema Corte prendono posizione sul contrasto, sorto tra le sezioni semplici, concernente l’ammissibilità e la rilevanza della c.d. “usura sopravvenuta”, ossia l’ipotesi in cui il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello svolgimento del rapporto, la soglia dell’usura come determinata in base alle disposizioni della Legge del 7 marzo 1996, n. 108. Il Supremo Collegio si è interrogato sulla sorte, in termini di validità e di efficacia, della clausola determinativa degli interessi in due ipotesi: quella in cui tale clausola è contenuta in contratti anteriori all’entrata in vigore della L. 108; e quella – equiparata alla precedente – in cui il tasso di interesse, determinato dalle parti nel vigore della legge anti-usura e originariamente pattuito nel limite del tasso-soglia, superi tale soglia nel corso del rapporto.

In quest’ultimo caso, osservano le Sezioni Unite, il superamento del tasso soglia è l’effetto della caduta dei tassi medi di mercato che sono alla base del meccanismo legale di determinazione dei tassi usurari: meccanismo basato, appunto, secondo l’art. 2 della L. 108, sulla rilevazione trimestrale dei tassi medi praticati per le varie categorie di operazioni creditizie, sui quali viene applicata una determinata maggiorazione. In entrambi i casi – e in ciò concretizza la differenza tra usura originaria e sopravvenuta – l’usurarietà dell’interesse e, dunque l’illeceità del medesimo, non deriva da una patologia di cui il regolamento contrattuale è affetto ab origine, ma è il risultato di una sopravvenienza (normativa nel primo caso e dovuta all’andamento del mercato nel secondo) indipendente dalla volontà delle parti contrattuali.

Il caso

La sentenza qui in commento ha ad oggetto una controversia riguardante un contratto di mutuo (di durata decennale) sottoscritto nel 1990, nel quale gli interessi pattuiti erano risultati usurari solo a seguito dell’entrata in vigore della L. 108 del 1996. Più nel dettaglio, la società attrice aveva instaurato il giudizio di primo grado chiedendo, oltre alla pronuncia di una sentenza dichiarativa della nullità della previsione del tasso di interesse, la restituzione di tutti gli interessi versati, o comunque, di quelli eccedenti il tasso soglia, nonché la condanna al risarcimento dei danni (patrimoniali e non) conseguenti al reato di usura commesso dalla Banca  che – secondo la ricostruzione dei fatti fornita dell’attrice – si era, altresì, rifiutata di rinegoziare il tasso di interesse (divenuto usurario) dopo l’entrata in vigora della L. 108.

La pronuncia del Tribunale di Milano di condanna dell’Istituto Bancario veniva riformata dalla competente Corte d’appello la quale – condividendo la tesi dell’appellante secondo cui il carattere “fondiario” del mutuo fosse sufficiente a dispensare dall’osservanza delle disposizioni della richiamata L. 108 – concludeva per la piena validità della clausola determinativa degli interessi. La Corte di Cassazione – dopo avere preliminarmente stabilito l’applicabilità, in astratto e in via generale, della normativa anti-usura contenuta nella citata L. 108 anche ai contratti di “mutuo fondiario” – rimetteva gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite della questione relativa da un lato all’incidenza della disciplina contenuta nella legge anti-usura rispetto ai contratti stipulati prima della sua entrata in vigore, e, dall’altro lato, all’incidenza della disciplina rispetto ai contratti che hanno superato tale soglia nel corso dello svolgimento del rapporto.

La querelle interpretativa: usura sopravvenuta “sì” o usura sopravvenuta “no”

La pronuncia che si commenta tende a dirimere un contrasto, risalente all’indomani della L. 108, sorto nelle sezioni semplici della Corte di legittimità: a un primo orientamento (cfr. da ultimo, Cass. n. 801 del 29 gennaio 2016) che –  sostenendo la piena validità ed efficacia del tasso di interesse che, benché legittimo al tempo della pattuizione, avesse superato il tasso soglia vigente in corso di rapporto – dava alla questione della configurabilità dell’usura risposta negativa, si è contrapposta una seconda opzione ermeneutica del tutto speculare (cfr. da ultimo, Cass. n. 17150 del 17 agosto 2016) che affermava, nella descritta ipotesi, la radicale inefficacia delle clausole determinative di interessi affetti da usura solo “sopravvenuta” e, dunque, dava alla questione della configurabilità dell’usura sopravvenuta risposta positiva.

 La decisione, in sintesi, della Suprema Corte: usura sopravvenuta “no”

Le Sezioni Unite hanno aderito al primo degli orientamenti esposti, così negando la configurabilità dell’usura sopravvenuta. La Suprema Corte ha, infatti, ritenuto che l’unico momento rilevante ai fini della qualificazione del tasso come usurario fosse quello della pattuizione dello stesso, mentre sarebbe a tal fine irrilevante il momento della “dazione”: o il tasso di interesse è ab origine usurario, oppure tale non potrà più divenire e, per l’effetto, non potrà essere sanzionato con la nullità ai sensi dell’art. 1815 c.c.

 Il percorso argomentativo: manca una norma imperativa che vieti la dazione di interessi divenuti usurari.

L’intero percorso argomentativo compiuto dal Supremo Collegio, nonché il relativo epilogo, riflette l’(analogo) esito di una preliminare indagine: stabilire se vi sia, o meno, una norma imperativa che vieti la dazione di interessi divenuti usurari nelle more del rapporto e, dunque, l’usura sopravvenuta. Solo nel primo caso, infatti, potrebbe ipotizzarsi – giusta l’art. 1418, comma 1 c.c. – l’illiceità della pretesa del pagamento di interessi divenuti in executivis ultra legali.

Ad avviso della Corte, tuttavia, di una norma imperativa siffatta non vi è traccia o, almeno, non vi è più traccia nel sistema: l’equazione “assenza di norma imperativa – non configurabilità dell’usura sopravvenuta” diviene, così, l’unica opzione interpretativa percorribile. Come osserva, infatti, il Supremo Collegio, la lettura dell’art. 644 c.p. (ossia l’unica disposizione che contiene [rectius: conteneva] un esplicito divieto di farsi corrispondere interessi usurari e non solo di pattuire gli stessi) non può prescindere dall’interpretazione autentica che, della medesima, ha fornito l’art. 1 d.l. n. 394/2000. Siffatta norma – introdotta dal legislatore per contrastare quell’orientamento giurisprudenziale che, all’indomani dell’entrata in vigore della legga L. 108 iniziò ad orientarsi nel senso dell’applicabilità della legge anche ai rapporti pendenti alla data della sua entrata in vigore – ha, infatti, limitato l’operatività dell’art. 644 c.p. al solo “momento in cui [gli interessi usurari] sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento.

Del resto, ulteriori e diversi divieti non sono rinvenibili nel sistema. Non, certamente, nell’art. 2, comma 4 della L. 108 che – definendo il limite oltre al quali gli interessi sono usurari – assume una funzione di mera integrazione del divieto posto dall’art. 644 c.p.c. (del quale condivide i limiti riferiti e riferibili all’ambito di applicazione), mentre non contiene alcuna autonoma funzione precettiva capace di giustificare l’applicabilità di un’autonoma sanzione. Non, ancora, nell’art. 1815 c.c. – peraltro anch’esso oggetto di interpretazione autentica dell’art. 1 d.l. n. 394/2000 – presupponendo tale norma una nozione di interessi usurari definita altrove, ossia nell’art. 644 c.p., integrato dal meccanismo previsto dalla L. 108.

Alla luce delle considerazioni svolte, una prima conclusione può considerarsi definitivamente raggiunta: una clausola contenente interessi divenuti usurari non è censurabile sul piano della validità.

Il ricorso al criterio della buona fede come possibile rimedio all’usura sopravvenuta

Le Sezioni Unite hanno, poi, preso posizione su un’ulteriore, benché minoritaria tesi, secondo la quale la pretesa di un interesse divenuto usurario in executivis costituirebbe una violazione dei principi di correttezza e buona fede in senso oggettivo. Analoga la conclusione alla quale anche i fautori della descritta tesi sono giunti –  gli interessi usurari devono essere ricondotti entro il tasso limite del corrispondente periodo temporale – ma diverse le ragioni a sostegno della medesima: la dazione degli interessi (superiori al tasso soglia) sarebbe una prestazione contraria, in generale, al dovere di solidarietà posto dall’art. 2 della Costituzione e, in particolare, al principio di buona fede oggettiva che ne è corollario.

In altre parole,  il menzionato dovere di solidarietà – per il quale ciascuna delle parti del rapporto è tenuta ad agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o da quanto stabilito da specifiche norme di legge – imporrebbe al mutuante di astenersi dal pretendere il pagamento di interessi divenuti “usurari” e, specularmente, “giustificherebbe” l’inadempimento del debitore per essere la relativa prestazione “inesigibile”.

Anche di tale principio, tuttavia, la Corte esclude l’applicabilità del caso in questione. Il Supremo Consesso osserva, infatti, che “la violazione del canone di buona fede non è riscontrabile nell’esercizio in sé considerato dei diritti scaturenti dal contratto, bensì nelle particolari modalità di tale esercizio in caso”. Detto altrimenti – ed escluso che sia da qualificare scorretta la pretesa in sé degli interessi (ultra soglia) in quanto corrispondente a un diritto validamente riconosciuto dal contratto –  sarà il Giudice del merito a dovere verificare se le circostanze concrete o, comunque, le modalità attraverso le quali il diritto è esercitato da parte del mutuatario consentano di qualificare la pretesa come contraria a buona fede essendo solo in tale caso accessibili i rimedi che, tradizionalmente, vengono fatti discendere da tale violazione.

Un possibile rimedio di natura contrattuale

In questo contesto, caratterizzato dall’assenza di disposizioni che sanciscono la nullità del tasso “divenuto usurario” e nel quale non è praticabile il ricorso ai rimedi posti a tutali della violazione della buona fede oggettiva, l’unico rimedio (preventivo) di cui le parti posso disporre ha natura contrattuale. Ci si riferisce, in particolare, alla cosiddetta clausola di salvaguardia: clausola, quest’ultima, che vincolando l’andamento dei tassi di interesse convenuti dalle parti alle soglie pro tempore vigenti potrebbe impedire ex ante la stessa configurabilità della fattispecie di usura al vaglio della Suprema Corte.

La conseguenza della non configurabilità dell’usura sopravvenuta sulla questione della “usurarietà” dei tassi di mora

Il principio affermato dalla Suprema Corte – secondo il quale l’unico momento rilevante ai fini della qualificazione del tasso come usurario è quello della pattuizione dello stesso, mentre è a tal fine irrilevante il momento della “dazione” –  potrebbe influenzare (e forse condurre a termine) l’esito del dibattito, sorto in giurisprudenza, e attinente al se anche gli interessi di mora rilevino ai fini dell’applicazione dell’art. 1815 c.c.

A ben vedere, infatti, la sentenza in commento parrebbe essere coerente solo con quell’opzione ermeneutica che esclude lapidariamente che anche il tasso di mora possa essere sottoposto al vaglio di usurarietà con la stessa modalità prevista per gli interessi corrispettivi. L’usurarietà del tasso di mora al momento della pattuizione è – a differenza di quanto accade per gli interessi corrispettivi –  esclusa dalla natura meramente eventuale che del tasso di mora è propria: la sorte di questo interesse è, infatti, legata imprescindibilmente al comportamento del debitore che certamente non è prevedibile al momento della pattuizione.

Con la conseguenza, che non sarebbe ipotizzabile (né realizzabile) il superamento, al momento della pattuizione, del tasso soglia da parte dell’interesse moratorio, il quale, essendo dovuto nel solo caso in cui il debitore ritardi nel pagamento, avrebbe indubitabilmente una “natura sopravvenuta”; la sua applicazione non soltanto è futura, ma anche eventuale e sottratta alla volontà di entrambe le parti.

Anche l’applicazione di quest’ultimo sarebbe, in altre parole, risultato di una sopravvenienza – in questo caso, non normativa, né dovuta all’andamento del mercato – bensì dovuta al comportamento del debitore, ed inidonea, quindi, a configurare usura ab origine, l’unica rilevante alla luce della Sentenza delle Sezioni Unite.

Se così è, dunque, la portata della pronuncia delle Sezioni Unite risulterebbe essere ben più ampia di quella che parrebbe prima facie: il principio di diritto enunciato dal Supremo Collegio determinerebbe, a stretto rigore, il tramonto non solo dell’usura sopravvenuta, ma anche della possibilità di sottoporre il tasso di mora, a causa della sua natura, al vaglio usurario.

Federico Corti

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