Non vi è dubbio che il dibattito sulle c.d. “ronde” si stia svolgendo più su un terreno politico che giuridico.
Schieramenti ideologicamente contrapposti, infatti, si ritrovano divisi sull’opportunità di una previsione, quale quella contenuta nell’art. 6 del recente decreto-legge n. 11 del 23 febbraio 2009, volta a dare riconoscimento formale a strumenti (in talune realtà locali già operativi, ma pur sempre ab origine) concepiti come sussidiari alle forze di polizia.
Eppure, ad esaminare la questione in termini squisitamente giuridici – e, dunque, assolutamente neutrali – ci si potrebbe stupire non poco del divampare delle polemiche e, perfino, delle posizioni assunte in campo dalle opposte “fazioni”.
Invero, i pionieri delle ronde (e primi fautori della normativa in commento) esultano per l’esplicito riconoscimento, gettandosi alle spalle inconfessati timori legati al giudizio di liceità penale dell’attività posta in essere; gli oppositori più critici, lamentano, al contrario, l’avvilimento delle forze dell’ordine e il pericolo di disordini che potrebbe derivare dalla normativa di recente introdotta, interrogandosi, al contempo, sulla legittimità costituzionale della novella disciplina.
Ma se – come detto – si osserva il fenomeno da un punto di vista prettamente giuridico, ci si avvede allora che gli uni non possono certamente ritenersi soddisfatti dal provvedimento d’urgenza emanato; gli altri non hanno motivo di paventare illegittimità di sorta.
Proviamo a spiegarne in breve le ragioni.
***
L’art. 18 della nostra costituzione sancisce la libertà di associazione “per fini che non siano vietati ai singoli dalla legge penale”.
Ciò significa che quello che non è vietato dalla legge penale di fare ad uno solo, deve ritenersi – per ciò stesso – consentito di essere fatto liberamente (“senza autorizzazione”) da più persone, in forma associata.
Da tale punto di vista, non pare allora possibile rinvenire alcun divieto di costituire associazioni che abbiano come scopo quello della vigilanza del territorio.
Se si guarda all’ordinamento penale, si rinvengono, anzi, disposizioni che consentono ai singoli la legittima difesa (art. 52 c.p.), concedendo, altresì, in taluni casi, ai privati la facoltà di arresto di coloro che vengano colti nella flagranza di reati particolarmente gravi (art. 383 c.p.p.).
Poiché la legge penale non vieta ai singoli di vigilare (e di svolgere, sostanzialmente con la propria semplice presenza una funzione deterrente nei confronti della delinquenza), tanto deve parimenti ritenersi consentito di fare ai cittadini riuniti in libere associazioni, salva solo la necessità che tale attività resti confinata entro i limiti determinati dal monopolio dello Stato nell’uso della forza e dalle prerogative assegnate alle forze dell’ordine in materia di polizia giudiziaria, ordine e sicurezza pubblica.
A tale proposito, giova evidenziare che le predette associazioni, pur ponendosi finalità di sicurezza pubblica (in ambito locale), certamente non usurpano le funzioni in materia di sicurezza pubblica spettanti alle competenti autorità di polizia, in quanto, come sopra detto, esse si limitano a svolgere un’attività di mera sorveglianza, in relazione alla quale non è ravvisabile, dunque, alcun dovere né alcun potere autoritativo d’intervento (salvi i casi eccezionali di cui all’art. 383 c.p.p.).
***
Tale essendo la cornice costituzionale in cui si inscrive la vicenda, appare agevole osservare, da un lato, che della legittimità delle c.d. “ronde” non vi è mai stato – né vi è – motivo di dubitare; e dall’altro, che neppure pare esservi particolare motivo di esultanza – come, pure, da taluni manifestata – per la regolamentazione del fenomeno in commento.
E ciò non solo perché la normativa in commento, in effetti, non concede nulla di più di quanto già doveva ritenersi in precedenza consentito; bensì, al contrario, perché la medesima, come in termini formulata, appare semmai sottrarre libertà e spazi di intervento ai cittadini più che allargarne il raggio di azione.
E’ forse qui opportuno previamente richiamare quanto stabilito nei commi da 3 a 5 dell’art. 6 d.l. n. 11/2009:
“I sindaci, previa intesa con il prefetto, possono avvalersi della collaborazione di associazioni tra cittadini non armati al fine di segnalare alle Forze di Polizia dello Stato o locali, eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale”.
Le associazioni sono iscritte in apposito elenco tenuto a cura del prefetto, previa verifica da parte dello stesso, sentito il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, dei requisiti necessari previsti dal decreto di cui al comma 6. Il prefetto, provvede, altresì, al loro periodico monitoraggio, informando dei risultati il Comitati”.
Tra le associazioni iscritte nell’elenco di cui al comma 4 i sindaci si avvalgono, in via prioritaria, di quelle costituite tra gli appartenenti, in congedo, alle Forze dell’ordine, alle Forze armate e agli altri Corpi dello Stato. Le associazioni diverse da quelle di cui al presente comma sono iscritte negli elenchi solo se non siano destinatarie, a nessun titolo, di risorse economiche a carico della finanza pubblica”.
Come deve propriamente intendersi, invero, la portata della normativa de qua?
Parrebbe, infatti, a prima vista, che i gruppi di cittadini e le associazioni non iscritte negli appositi elenchi (e che volessero, ciò nonostante, svolgere attività di controllo del territorio) debbano oggi considerarsi – a differenza che in passato – come in assoluto vietate.
Orbene, non v’è chi non veda come un esito del genere sarebbe, in linea di principio, assai deludente per chi sosteneva la piena ammissibilità delle “ronde” e ne auspicava una rapida e larga diffusione.
Occorre, tuttavia, precisare che una siffatta interpretazione – nonostante sia stata indicata perfino dal Ministro dell’Interno Maroni in alcune dichiarazioni alla stampa
[1]– non appare in alcun modo condivisibile.
Ad essa, in particolare, è d’impedimento il già ricordato principio di libertà sancito dall’art. 18 della Costituzione, secondo cui non può considerarsi vietato di fare ad un’associazione ciò che non può essere vietato di fare ad un singolo.
E non si vede francamente in che modo lo svolgimento di un’attività di mera presenza sul territorio e di mera vigilanza da parte di un singolo possa considerarsi un illecito penale.
Dunque, in proposito, possono avanzarsi le due seguenti ipotesi, tra loro alternative:
1) o la normativa in commento è incostituzionale, per contrasto con l’articolo 18 della Costituzione;
2) o tale normativa disegna unicamente un circuito preferenziale di raccordo tra l’attività dei volontari e le istituzioni, le quali sono autorizzate ad avvalersi e a concordare interventi di monitoraggio del territorio con le sole associazioni iscritte negli appositi elenchi prefettizi; tra queste, inoltre, solo quelle formate da ex appartenenti alle Forze dell’Ordine, alle Forze armate e agli altri Corpi dello Stato possono beneficiare di eventuali finanziamenti pubblici (come si evince, a contrariis, dal secondo periodo del comma 5); ma, tutto ciò, senza, che le associazioni non iscritte negli elenchi debbano ritenersi illegittime.
Quest’ultima interpretazione appare, ad avviso di chi scrive, quella preferibile.
Del resto, la soluzione suggerita non solo appare imposta dall’articolo 18 della Costituzione, bensì, in qualche modo, risulta avallata dal principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’articolo 118, ultimo comma della Costituzione, secondo cui “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
Né vi è ragione alcuna per escludere che tra le attività di interesse generale possa rientrare quella di vigilanza e collaborazione con le Forze dell’Ordine per la sicurezza pubblica.
Ma, a parte l’ombra di illegittimità proiettata sulle associazioni non iscritte dalla lettera dell’art. 6 del citato decreto, vi è ben un altro motivo per il quale i “rondisti” – perlomeno, quelli storici – dovrebbero essere fondamentalmente scontenti del provvedimento in esame.
E si allude, questa volta, ad un interesse di natura prettamente economica, atteso che eventuali provvidenze pubbliche a sostegno delle associazioni in questione potranno tassativamente erogarsi – come sopra evidenziato – ad esclusivo vantaggio di quelle costituite tra ex appartenenti alle Forze dell’ordine, o ai Corpi dello Stato o alle Forze armate.
E pare di capire che le fila dei volontari della prima ora non fossero propriamente nutrite da schiere di ex poliziotti (o ex carabinieri o ex militari, presumibilmente più propensi a godersi la pensione che a tornare “di pattuglia” sul territorio in età avanzata e con strumenti di intervento, oltretutto, limitati).
***
Come si vede, alla luce di valutazioni essenzialmente giuridiche, non si può che rimanere stupiti dalla circostanza che i sostenitori delle c.d. “ronde” si dichiarino appagati da una normativa che – più che riconoscere – sembra quasi voler arginare il peculiare fenomeno associativo in commento.
E – sempre nella prospettiva adottata – suscita, specularmente, genuina sorpresa l’atteggiamento di chi osteggia la medesima normativa, allorquando la stessa, oltre a limitare il fenomeno in esame, offre finanche spunti a sostegno della tesi (non condivisa, tuttavia, da chi scrive) che propugna come illegittime le associazioni che si pongano al di fuori del circuito individuato dal più volte citato decreto.
Cristiano Bruno
[1] Corriere della Sera del 27.02.09
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento