La vicenda
Il caso oggi prospettato riguarda il rigetto del reclamo proposto dinanzi ai Giudici di appello avverso il decreto del Tribunale per i minorenni con il quale veniva disattesa l’istanza del ricorrente di conoscere l’identità dei suoi genitori biologici ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7 e successive modifiche.
La Corte d’appello, nel condividere il giudizio espresso dal primo giudice, rilevava, infatti, come la madre naturale del reclamante nel corso dell’interpello avesse dimostrato una grave compromissione delle facoltà cognitive e volitive, al punto da non essere stata in grado di esprimere la propria volontà e addirittura neppure di ricordare l’evento – nascita del figlio – che le veniva rappresentato, per cui veniva ritenuto che il diritto all’oblio della donna, inteso sia come suo diritto di dimenticare, sia come diritto di essere dimenticata, fosse ancora sussistente e meritevole di protezione, dal momento che la stessa non aveva mai avuto contatti e notizie del figlio per oltre quarant’anni, aveva trovato una sua compensazione attraverso l’oblio dell’evento della nascita del figlio e una rievocazione di quell’evento avrebbe potuto pregiudicare il suo attuale precario stato psichico.
Il primato normativo del diritto all’oblio della madre naturale – Ma è giusto tutelarlo anche quando quest’ultima sia incapace?
La Corte di Appello di Milano, prima, e la Cassazione, di seguito, con la recentissima e significativa ordinanza oggi in commento hanno sostanzialmente sancito il primato normativo, anche e soprattutto sotto il profilo del bilanciamento dei contrapposti interessi tutelati dalla Carta Costituzionale, del diritto all’oblio della madre naturale rispetto a quello alla conoscenza della propria origine del figlio adottato.
Come è noto, infatti, il primo corrisponde al diritto della madre naturale di conservare il proprio anonimato dinanzi alla possibile richiesta di accesso ai suoi dati personali da parte del figlio, regolamentato dall’art. 28 comma 7 della Legge n. 184 del 04 maggio 1983 che ha, testualmente, previsto che “L’accesso alle informazioni non è consentito nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata ai sensi dell’articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396”.
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Si tratta ovviamente di uno dei diritti fondamentali della persona e, segnatamente, uno di quelli che i giuristi come soliti indicare come “nuovi diritti”, in quanto specificazione del diritto fondamentale alla riservatezza e all’identità personale, riconosciuto e garantito dalla Costituzione, la cui esigenza di tutela è emersa prepotentemente a seguito del progresso e dell’evoluzione sociale e tecnologica sempre più spiccati del nostro vivere civile.
Più semplicemente, esso viene generalmente conosciuto come il “diritto ad essere dimenticati” ed una delle sue più delicate e complesse rappresentazioni è data proprio dalla posizione giuridica della madre biologica sopra ricordata[1].
La Cassazione, quindi, ha oggi affermato la perdurante attuale vigenza di detto principio di diritto sebbene lo stesso sia stato modificato da una norma, quella di cui all’art. 177 comma 2 del D. Lgs. n. 196 del 2003, poi abrogata dall’art. 27, comma 1, lett. c, n. 3) del D. Lgs. 10 agosto 2018 n. 101 e considerato altresì, nel più ampio contesto della disciplina delle norme in questione, l’avvenuto intervento additivo apportato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 278 del 22 novembre 2013.
Quest’ultima pronuncia dei Giudici delle leggi, in particolare, rappresenta la pietra miliare della giurisprudenza sul tema, poiché con essa è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del predetto art. 28 della L. n. 184 del 1983, in materia di adozione ed affidamento dei minori, nella parte in cui non prevedeva, originariamente, la possibilità per il giudice di interpellare, con riservatezza, la madre naturale per l’eventuale assunzione di rapporti personali e non giuridici con il figlio.
La Corte Costituzionale, invero, ha riconosciuto all’adottato il diritto a conoscere le proprie origini rilevando i profili di irragionevolezza insiti nel testo normativo di riferimento allorché sancisca una sostanziale irreversibilità dell’anonimato della madre biologica, prevedendo piuttosto la possibilità di un interpello di questa da attuarsi all’interno di un procedimento giudiziale caratterizzato dalla massima riservatezza.
In attesa di un auspicato intervento del legislatore sul tema, che la Cassazione ancora oggi tristemente ricorda non essere avvenuto, la Corte Costituzionale ha, dunque, affermato, la necessità di effettuare il bilanciamento tra il diritto della madre all’anonimato, che si fonda “sull’esigenza di salvaguardare madre e neonato da qualsiasi perturbamento, connesso alla più eterogenea gamma di situazioni, personali, ambientali, culturali, sociali, tale da generare l’emergenza di pericoli per la salute psico-fisica o la stessa incolumità di entrambi“, e il diritto del figlio a conoscere le proprie origini – e ad accedere alla propria storia parentale – atteso che tale “bisogno di conoscenza rappresenta uno di quegli aspetti della personalità che possono condizionare l’intimo atteggiamento e la stessa vita di relazione di una persona in quanto tale“.
I Giudici di legittimità peraltro rammentano opportunamente come tale insopprimibile diritto alla conoscenza delle proprie origini biologiche e delle circostanze della propria nascita abbia trovato un sempre più ampio riconoscimento anche a livello internazionale e sovranazionale[2] tramite la valorizzazione del disposto dell’art. 8 CEDU che protegge un diritto all’identità e allo sviluppo personale e il diritto di intessere e sviluppare relazioni con i propri simili e il mondo esterno.
Secondo la Corte Suprema, dunque, in linea con detti orientamenti, i Giudici Costituzionali a suo tempo, tenendo ben ferma la distinzione tra “genitorialità giuridica” e “genitorialità naturale“, hanno giustamente ritenuto “eccessivamente rigida” ed in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost. la disciplina del citato art. 28 comma 7 ed avviato il procedimento di modifica attraverso il ricorso ad uno strumento giurisdizionale che ne assicuri la massima riservatezza.
In effetti, il tema ancora oggi trattato non è di poco conto poiché in esso si racchiude la contrapposizione sussistente tra la ragione del figlio alla ricerca delle proprie origini e della propria identità personale ed il bisogno, del pari rilevante, della madre naturale a conservare il proprio anonimato e lo stesso è reso ancora più complesso e delicato in considerazione degli ulteriori profili costituzionali che vi si intrecciano.
Ci si riferisce, più propriamente, ad esempio alla irragionevole disparità di trattamento che pure si potrebbe rilevare tra la posizione del figlio adottato nato da donna che abbia dichiarato di non voler essere nominata e colui i cui genitori naturali non abbiano reso alcuna dichiarazione o, addirittura, abbiano subìto l’adozione, o ancora alla delicatezza della problematica strettamente connessa alla salute del figlio in ragione dell’impossibilità di ottenere dati relativi all’anamnesi familiare e quindi ad eventuali rischi genetici.
D’altra parte, ci rendiamo conto che la decisione a suo tempo assunta dalla Corte Costituzionale non deve essere stata facile ed indolore, poiché la stessa ha determinato un non usuale coinvolgimento anche di natura etica e morale proprio per le implicazioni di tal genere che detta tematica inevitabilmente comporta, dal momento che il fondamento costituzionale del diritto della madre all’anonimato è stato sempre individuato nella prioritaria esigenza di salvaguardare la stessa ed il neonato da qualsiasi condizionamento di sorta che possa generare pericoli per la loro salute psico-fisica e, quindi, creare, in quel delicato ed importante momento, le premesse perché la nascita avvenga nelle condizioni migliori possibili.
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Ancora una volta, pertanto, la volontà esplicita dei Giudici Costituzionali di tutelare due beni insopprimibili quali la vita e la salute ha comportato una scelta di valori improntata nel senso di favorire, per sé stessa, la genitorialità naturale, come detto comunque distinta e del tutto ininfluente da quella “giuridica” assunta dal figlio con l’adozione.
Certamente, la Corte Costituzionale con il suo deciso intervento ha dimostrato di non avere in alcun modo sottovalutato, né disatteso, le ragioni del figlio a conoscere le proprie origini, e dunque ad accedere alla propria storia parentale, sul chiaro presupposto che ciò rappresenti l’espressione più autentica del bisogno di conoscenza di sé che ognuno di noi ha e costituisca altresì uno di quegli aspetti della personalità che possano condizionare il nostro intimo atteggiamento e la nostra stessa vita di relazione.
Nella dicotomia, quindi, tra queste due apparentemente contrapposte esigenze, i Giudici costituzionali hanno correttamente sottolineato la necessità che fosse il legislatore a stabilire le forme e le modalità più opportune per l’esercizio di tali diritti, giungendo a bocciare la disposizione normativa sottoposta al loro vaglio e quella sorta di “cristallizzazione” o di “immobilizzazione” della scelta dell’anonimato che nella sua primigenia versione la stessa di fatto prescriveva.
Addirittura, la Corte Costituzionale, con una non semplice efficacia espositiva e letterale, ha parlato in proposito di vero e proprio “esproprio” della persona titolare del diritto, rectius della madre biologica, da qualsiasi ulteriore opzione diversa dalla preventiva richiesta di anonimato, quasi che non si trattasse più di diritto ma di autentico “vincolo obbligatorio”.
La Corte, invero, ha dedotto ciò anche sulla base del testuale dato normativo di cui all’art. 93, comma 2, del D. Lgs. n. 196 del 2003 che stabilisce “Il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata avvalendosi della facoltà di cui all’articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del documento”.
Ecco dunque perché a suo tempo è emersa in tutta la sua forza dirompente il concetto primario di “genitorialità naturale“, con le implicazioni che lo stesso inevitabilmente comportava per la sfera personale e soggettiva del figlio adottato ed ecco anche perché si rendesse necessario attenuare l’originaria rigidità della norma, e la conseguente irreversibilità del segreto, con una scelta autodeterminata di revocabilità della precedente volontà all’oblio, magari su impulso dello stesso figlio e sia pure nel rispetto di determinate condizioni di legge[3].
Nasce, pertanto, da qui l’introdotto obbligo dell’interpello della madre naturale, quale presupposto giudizialmente seguito e verificato di eventuale revoca della predetta originaria scelta con l’obiettivo precipuo di salvaguardare ancora una volta l’equilibrio psico-fisico della donna al cospetto di una decisione dall’impatto emotivo e personale dirompente e per certi versi irreversibile.
Si tratta, dunque, di un fondamentale esercizio di civiltà giuridica cui la Corte Costituzionale ha costretto la giurisprudenza di merito, nonché di una importante conquista che certamente avrebbe meritato un completamento di questo processo ben più efficace di quello che invece, anche solo leggendo l’ordinanza in commento, siamo tenuti a rilevare.
Nel prendere atto, invero, del freddo, asettico e distaccato primato normativo che la Corte di Cassazione anche oggi riconosce al dato letterale del citato comma 7 dell’art. 28, ci rendiamo agevolmente conto di come tale interpretazione sconti purtroppo, almeno allo stato, una lettura stringente della stessa norma senza alcun plausibile riferimento alla situazione concreta e reale della madre naturale, con la conseguenza che il diritto di accesso del figlio adottato rimane pretermesso per il solo fatto che la donna versi in uno stato di incapacità personale, anche non dichiarata, e non sia pertanto oggettivamente in grado di scegliere se revocare o meno validamente la propria originaria decisione all’oblio.
L’ordinanza in esame, infatti, conferma il mero formalismo giuridico che ha guidato i Giudici di merito e di legittimità che si sono interessati della presente vicenda, poiché con essa si finisce per assecondare una palese compromissione del più volte ricordato diritto alla conoscenza delle proprie origini e del proprio stato parentale in maniera sostanzialmente irrimediabile per il fatto che la madre naturale non possa, oltretutto per una causa di forza maggiore determinata dalla sua condizione di oggettiva incapacità, esprimere una qualsivoglia volontà al riguardo.
In questo modo, che sembrerebbe quasi assurgere ad una aberrazione giuridica, ci appare pregiudicato quel processo evolutivo di cui abbiamo fatto riferimento richiamando la nota sentenza n. 278 del 2013 della Corte Costituzionale, poiché si ha la netta sensazione che quel lodevole ed illuminato intervento di quest’ultima nel cercare di riportare al passo con i tempi una normativa non del tutto rispondente ai dettami costituzionali sia nuovamente posto nel nulla.
Non possiamo, infatti, tralasciare di considerare come qualche fondata e legittima perplessità sorga in ordine alla decisione assunta anche da ultimo dalla Corte di Cassazione, in considerazione del fatto, di per sé emblematico, che dalla lettura degli scarni atti di causa rinvenibili dall’ordinanza in commento emergerebbe addirittura come lo stato di incapacità della madre naturale fosse sussistente al momento della nascita del figlio, e dunque all’atto della sua dichiarazione di volontà all’oblio, dal momento che forse ciò renderebbe ancora più evidente e forte il diritto del figlio a far valere comunque il proprio bisogno di conoscenza.
Se è vero, infatti, che in questa pervicace volontà di applicazione testuale della normativa di riferimento si è radicato il motivato convincimento che il diritto all’oblio della madre naturale, sia pure a distanza di anni, debba essere ancora ritenuto sussistente e sia pertanto meritevole di protezione, è altrettanto vero che la giustificazione addotta secondo la quale “una rievocazione di quell’evento avrebbe potuto pregiudicare il suo attuale stato psichico” striderebbe quanto meno con una più ampia considerazione dei più usuali istituti di tutela giuridica che pure il nostro sistema riconosce a favore delle persone incapaci.
Queste ragioni pongono, almeno de iure condendo, sotto una luce totalmente differente, e per certi versi condivisibile, la posizione difensiva assunta nel caso in esame dal figlio adottato secondo la quale la accertata impossibilità psichica della madre naturale di esprimere un consenso in sede di interpello circa la volontà di mantenere l’anonimato non possa che essere giuridicamente parificata a quella, fisica per decesso o irreperibilità, prevista dal comma 8 dello stesso art. 28 della Legge n. 184 del 1983[4].
Effettivamente, il dubbio che sorge al riguardo è più che plausibile, perché quand’anche si volesse convenire con l’impostazione, che vediamo essere prevalente in giurisprudenza, del primato del rigido dato testuale normativo, e si volesse pertanto ritenere che la norma appena ricordata, per espressa disposizione legislativa, sia riferita unicamente ai genitori naturali “deceduti“ o “irreperibili” senza alcuna possibilità di diversa applicazione analogica, difficilmente riusciremmo a non conformare questa tesi a quei principi generali di diritto che pure risultano dettati in materia di tutela, curatela, amministrazione di sostegno a garanzia proprio delle persone più deboli e psicologicamente non autosufficienti.
Il non prevedere, infatti, il possibile intervento di organi giurisdizionali “neutri” a tutela delle prerogative della madre naturale, soggetto “debole”, in contrapposizione con diritti soggettivi altrettanto rilevanti ma, si badi bene, non altrimenti esercitabili se non appunto con l’ausilio di strumenti di rappresentanza diretta giudizialmente condotti, ci appare chiaramente come una grave lacuna normativa o, quanto meno, come un miope esercizio del potere giurisdizionale da parte della nostra giurisprudenza di merito e di legittimità che devono essere al più presto colmata, la prima, e correttamente orientato, il secondo.
Peraltro, non sfugga anche alla nostra attenzione il fatto che anche la Corte di Cassazione, con sua sentenza n. 22838 del 2016, abbia sottolineato come la morte della madre naturale, con la conseguente impossibilità per il figlio di azionare la procedura di interpello, non possa tradursi nella definitiva perdita per quest’ultimo di conoscere le proprie origini biologiche, evidenziando, appunto, che “deve perseguirsi un’interpretazione della norma compatibile con il diritto a conoscere le proprie origini che, pur conservando il vincolo temporale, ne attenui la rigidità quando non sia possibile per irreperibilità o morte della madre naturale procedere all’interpello e alla verifica della volontà di revoca dell’anonimato”.
Tale conclusione, in verità, sembrerebbe ugualmente conforme al dettato legislativo, se non fosse che, tra le pieghe di questa stessa sentenza, si legge anche che “l’assolutezza e l’irreversibilità del segreto sulle origini – infatti – sono irrimediabilmente contrastanti con il diritto all’identità personale dell’adottato, nella declinazione costituita dal diritto a conoscere le proprie origini”, dal momento che in tal modo si potrebbe individuare, a nostro parere, uno spiraglio interpretativo per un auspicabile intervento normativo che, in applicazione di tali principi, regolamenti l’esercizio delle prerogative del figlio indistintamente in tutti i casi di impossibilità oggettiva della madre ad assolvere al disposto interpello.
Sarebbe, del resto, questa la chiusura del cerchio di un percorso coraggioso che la Corte Costituzionale ha avviato qualche anno fa e del quale da troppo tempo ormai ci si attende una degna conclusione da parte del nostro Legislatore!
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Note:
[1] Si veda in proposito l’articolata nota “Il procedimento di “interpello” della madre biologica, che abbia dichiarato di non voler essere nominata al momento del parto, ai fini dell’eventuale revoca dell’originaria dichiarazione, e la progressiva espansione del diritto dell’adottato alla conoscenza delle proprie origini biologiche ad opera della recente giurisprudenza”, in questa Rivista, Diritto civile e commerciale, 05 giugno 2020
[2] La stessa Corte riporta nella propria ordinanza il riferimento alle pronunce Corte EDU 25 settembre 2012 n. 33783, Godelli c. Italia; Corte EDU n. 42326/2003 Odièvre c. Francia; Corte EDU n. 53176/2002 Mikulid c. Croazia a conferma della rilevanza del problema in vari Stati europei
[3] Sul punto anche la Cassazione a Sezioni Unite con sentenza n. 1946/2017 si è espressa conformemente e, di seguito, Cass. Civ. sentenza n. 3004 del 2018 e n. 6963 del 2018
[4] La norma testualmente recita “8. Fatto salvo quanto previsto dai commi precedenti, l’autorizzazione non è richiesta per l’adottato maggiore di età quando i genitori adottivi sono deceduti o divenuti irreperibili”
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