Il caso
La fattispecie scrutinata dalla Suprema Corte muove da un ricorso proposto avverso la sentenza di appello con la quale, a conferma della decisione di primo grado, il ricorrente era stato condannato per il reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p., in danno della moglie, costituitasi parte civile.
La condotta dell’imputato era stata scandita da innumerevoli episodi vessatori verso la consorte, dopo che la stessa gli aveva manifestato l’intenzione di separarsi.
Il comportamento criminoso si era sostanziato in continue minacce e intimidazioni, perpetrate per telefono e sul luogo di lavoro della persona offesa (esercente la professione di avvocato); percosse; gesti simulati di autolesionismo (quali apparenti tentativi di suicidio) volti a colpevolizzare la donna per la rottura della convivenza; episodi di grave danneggiamento della casa coniugale e della nuova abitazione della moglie.
Tra i motivi di gravame proposti (da cui l’analitica disamina dei due delitti in epigrafe) : la carenza degli elementi strutturali (abitualità e sistematicità) e dell’elemento psicologico (dolo), così come richiesti dall’ascritto reato di maltrattamenti; la mancata sussunzione giudiziale del contegno incriminato sub art. 612-bis.
Tale ultima doglianza traeva origine dalle modalità con cui si era realizzata la condotta, rivolta esclusivamente verso la moglie e non anche verso il figlio della coppia; di qui, l’invocata declaratoria di assoluzione dell’imputato, vertendosi, a parere della difesa, in una fattispecie (quale, appunto, quella di stalking) “che non era ancora reato al momento dei fatti de quibus” (verificatisi tra il marzo 2004 ed il luglio 2005) .
La Cassazione, con la pronuncia in commento, coglie l’occasione per tracciare la linea di demarcazione tra il delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) e quello di atti persecutori (art. 612-bis c.p.), comunemente noto come “stalking”.
Il reato di maltrattamenti in famiglia
Nel dichiarare l’inammissibilità del ricorso per indeducibilità e manifesta infondatezza dei motivi di gravame, la Corte adita ha evidenziato, con riferimento alla prospettata inconfigurabilità del delitto ex art. 572 c.p., la sussistenza dei caratteri strutturali di sistematicità e ripetitività degli atti vessatori, con conseguente sottoposizione della vittima “ad un regime di perdurante ansia, preoccupazione e allarme a causa dei ripetuti atteggiamenti violenti, prevaricatori e simulatamente autolesivi dell’imputato”.
Per il perfezionamento del reato in parola, il Collegio specifica, altresì, che non è necessaria una relazione simmetrica tra lo stato di sofferenza e mortificazione inflitto alla persona offesa e specifici contegni prepotenti e vessatori attuati nei suoi confronti dal soggetto agente, “potendo quello stato derivare anche dal diffuso clima di afflizione, sofferenza e paura indotto nella vittima dall’imputato”.
Nonostante l’incipit pronominale della norma (“Chiunque”) induca a ritenere il delitto in esame di tipo “comune” è evidente che lo stesso vada correttamente ricondotto nell’alveo dei cc.dd. “reati propri”, potendo essere commesso unicamente da persone legate al soggetto passivo da rapporti di familiarità o da coloro che rivestano “una posizione di autorità o peculiare affidamento nelle aggregazioni comunitarie assimilate alla famiglia dall’art. 572 c.p. (organismi di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, professione o arte)”.
Per famiglia, secondo il consolidato orientamento, deve intendersi non solo il tradizionale consorzio di persone avvinte da vincoli di parentela naturale o civile, ma anche un’unione di persone (quale la c.d. famiglia di fatto) tra le quali, per intime relazioni e consuetudini di vita, siano sorti legami di reciproca assistenza, protezione e solidarietà (vedasi, ex multis, Cass. n. 24688/10).
L’oggetto giuridico del reato de quo è rappresentato, congiuntamente, dall’interesse dello Stato alla tutela della famiglia da comportamenti vessatori e da quello delle persone, legate da vincoli familiari, alla difesa della propria incolumità fisica e psichica (in tal senso, Cass. n. 46196/11).
La convivenza e la coabitazione non rappresentano presupposti indefettibili del reato in oggetto.
In caso di separazione legale (oltre che di fatto), la giurisprudenza di legittimità ha ravvisato la sussistenza del reato di maltrattamenti allorquando la condotta criminosa vada ad incidere su quei vincoli derivanti dai doveri di reciproco rispetto, assistenza morale e materiale che, contrariamente a quelli di convivenza e fedeltà, rimangono integri anche dopo il provvedimento giudiziario (Cass. n. 3570/99, Valente; Cass.n. 26571/08).
Il dolo dell’illecito in esame è, oltre che generico, unitario e programmatico, nel senso che funge da elemento unificatore della pluralità dei vari atti vessatori e si concretizza nella inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatoria che, reiterata nel tempo, induce il maltrattatore ad assumere una “colpevolezza di persistere in un’attività illecita, posta in essere già altre volte”(Cass. n. 6541/04).
Il reato di atti persecutori
Si tratta di un reato abituale di evento contro la persona ed in particolare contro la libertà morale, che non presuppone l’esistenza di interrelazioni soggettive specifiche.
La tipicità della fattispecie in discorso è rappresentata dalla reiterazione delle condotte di minaccia e molestia.
A parere della giurisprudenza più recente, la condotta può ritenersi reiterata anche alla presenza di due condotte ritenute “sufficienti a concretare quella reiterazione cui la norma subordina la configurazione della materialità del fatto”(Cass. n. 6417/10).
Tale interpretazione appare distonica rispetto all’orientamento tradizionale che, rifuggendo da visioni di tipo “quantitativo”, indentifica l’abitualità in quel disvalore ulteriore rispetto a quello espresso dalle singole condotte.
In riferimento ad altro reato abituale, quale quello di maltrattamenti ex art. 572 c.p., la Cassazione ha, da tempo, sottolineato la necessità per l’interprete di accertare, a tal fine, se i singoli atti rientrino in un cornice unitaria, risultando, così, collegati da un nesso di abitualità oltre che avvinti, nel loro svolgimento, da un’unica intenzione criminosa di ledere, abitualmente, l’integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo (in tal senso, Cass. n. 26235/06).
Il delitto di stalking richiede, oltre alla reiterazione come sopra descritta, anche la verificazione, in via alternativa, dei seguenti eventi : un perdurante stato di ansia e di paura; il fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva; la costrizione della vittima ad alterare le proprie abitudini di vita.
Quanto alla valutazione dei suddetti eventi, la giurisprudenza di merito ha escluso una loro deduzione presuntiva, imponendo, invece, una rigorosa verifica probatoria (nell’ambito di una prospettiva causale di accertamento del nesso eziologico), al pari di qualsiasi altro elemento costitutivo della fattispecie.
Così, ad esempio, per l’insorgenza di un fondato timore l’organo giudicante dovrà operare una “ponderata valutazione della gravità delle condotte, della loro idoneità a rappresentare una minaccia credibile di un pericolo incombente. Pur trattandosi di un evento, l’indagine sarà incentrata sulla idoneità del comportamento tenuto dall’imputato a cagionare il fondato timore”(Corte di Appello di Milano sent. 14.12.2011- dep. 13.01.2012).
Stesso approccio metodologico per l’altro evento rappresentato dal perdurante e grave stato di ansia e paura che – non potendosi identificare nell’accertamento di uno stato patologico, pena un’inammissibile ripetizione del reato di maltrattamenti ex art. 582 c.p. (Cass. n. 16864/11) – s’identifica in quell’”effetto destabilizzante della serenità, dell’equilibrio psicologico della vittima” (Cass. n. 8832/11).
Al fine di evitare pericolose derive soggettivistiche occorrerà obiettivizzare l’effetto destabilizzante (della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima) che qualifica la condotta persecutoria, in modo che “non rimanga confinato nella mera percezione soggettiva della vittima del reato” (Cass. 24135/12); d’ausilio, in tal senso, potrà risultare l’adozione di parametri medico-psicologici.
Nell’attività di comparazione tra i due illeciti, la Corte nell’evidenziare le diversità strutturali come sopra descritte individua, comunque, un punto di contatto tra gli stessi nelle rispettive condotte materiali “omologabili per modalità esecutive e per tipologia lesiva”.
Tale sovrapponibilità pone non pochi problemi allorquando, come vedremo, il reato di stalking assuma la forma aggravata di cui al 2° comma dell’art. 612-bis c.p. (autore :coniuge legalmente separato o divorziato o soggetto che sia stato legato da relazione affettiva alla persona offesa), così recuperando, come evidenziato dal Collegio adito, “ambiti referenziali latamente legati alla comunità della famiglia e che ne costituiscono – se così può dirsi – postume proiezioni temporali”.
Il rapporto tra le due fattispecie di reato secondo la Cassazione
Tra i due delitti in commento sussiste un rapporto di sussidiarietà, così come espresso nella clausola di riserva di cui all’art. 612-bis c.p., comma 1 (“Salvo che il fatto costituisca più grave reato…”), che rende applicabile, ove ricorrente, il reato di maltrattamenti sanzionato con una pena edittale più grave rispetto a quello di atti persecutori, quantomeno nella sua forma generale di cui al primo comma.
Nella forma aggravata (prevista al secondo comma), l’illecito in questione acquista natura di reato “proprio” allorquando, come già visto, venga realizzato dal coniuge legalmente separato o divorziato o da un soggetto che sia stato legato da relazione affettiva alla persona offesa.
Sostanzialmente, con la norma di nuovo conio i comportamenti sanzionati vengono assunti al di fuori di un contesto familiare o para-familiare.
Tale conclusione ben si attaglia, d’altronde, al novero dei possibili soggetti attivi di cui all’aggravante in discorso in quanto, diversamente opinando, si arriverebbe a concludere per la minore gravità del reato ove perpetrato a danno del coniuge non legalmente separato (come lucidamente osservato dal Tribunale di Termini Imerese con l’ordinanza n. 2090/11).
La pronuncia in commento, nel riconoscere la possibilità di un concorso apparente di norme che renda applicabili (concorrenti) entrambi i reati in discorso, individua nello stalking il reato idoneo a sanzionare con effetti diacronici comportamenti che, sorti in seno alla comunità familiare (o assimilata) ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, non rientrerebbero nella fattispecie di maltrattamenti “per la sopravvenuta cessazione del vincolo o sodalizio familiare e affettivo o comunque della sua attualità e continuità temporale”.
La stessa Corte, peraltro, si premura di circoscrivere l’ambito operativo del suddetto reato aggravato, configurabile unicamente in caso di divorzio o di relazione affettiva definitivamente cessata; risultando, per converso, escluso in caso di separazione legale (e di fatto), essendo tale eventualità riconducibile alla diversa fattispecie del reato di maltrattamenti.
I giudici di legittimità prendono, così, le distanze da quell’orientamento pretorio – oramai recessivo – che individua nella cessazione della convivenza il confine al di là del quale è possibile configurare il reato di stalking (così, ad esempio, è stata ritenuta la concorrenza tra i due delitti in argomento “ravvisandosi maltrattamenti nella condotta tenuta dall’indagato fino al marzo 2009, epoca in cui la persona offesa si è allontanata dall’abitazione e il reato di cui all’art. 612-bis nelle condotte successive a questa data” – Trib. Napoli, Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari, sentenza del 30.06.2009).
In definitiva, ponendosi in linea con quanto già espresso da varie corti di merito, la Cassazione, onde evitare possibili interferenze tra i due illeciti (laddove la forma aggravata del reato prevista dal 2° comma dell’art. 612 c.p. “recupera ambiti referenziali latamente legati alla comunità della famiglia” e che ne costituiscono “postume proiezione temporali”), traccia quale linea divisoria tra gli stessi l’intervenuta sentenza di divorzio o la definitiva cessazione del rapporto familiare o affettivo.
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