Mancata esecuzione dolosa dei provvedimenti del giudice

Già nel dicembre del 2007 la Corte d’Appello di Bologna aveva comminato la reclusione di quattro mesi alla moglie del ravennate, E.S., per la mancata esecuzione dolosa del provvedimento del giudice (l’esercizio del diritto di visita) e a tremila euro di risarcimento all’ex coniuge per aver ostacolato i rapporti con la figlia. La donna ha presentato ricorso in Cassazione per rendere nulla la sentenza d’Appello motivandolo che l’entità del danno era da stabilirsi in sede civile.

Ma la Sesta sezione penale con la sentenza 32562 ha bocciato il ricorso della donna che continuava a sostenere la mancanza di prove tangibili per “il danno effettivo”. Gli Ermellini hanno ribadito che il risarcimento del danno è legittimo perché si era “reso difficoltoso il rapporto” tra padre e figlio. La ex moglie oltre a versare il risarcimento all’ex marito è stata condannata anche a pagare 2mila euro per le spese processuali da lui affrontate per il giudizio di Cassazione.

In effetti, per la sentenza in questione, si configura nel reato previsto dal Cod. pen., art. 388; cod. civ., art. 155 la mancata esecuzione dolosa del provvedimento di affidamento dei figli – Ostacoli frapposti dall’altro genitore per limitare o eliminare la frequentazione tra genitore non affidatario e figli –

Art. 388 Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice

“Chiunque, per sottrarsi all’adempimento degli obblighi civili nascenti da una sentenza di condanna, o dei quali e’ in corso l’accertamento dinanzi l’Autorità giudiziaria, compie, sui propri o sugli altrui beni, atti simulati o fraudolenti, o commette allo stesso scopo altri fatti fraudolenti, e’ punito, qualora non ottemperi alla ingiunzione di eseguire la sentenza, con la reclusione fino a tre anni o con la multa da lire duecentomila a due milioni.

La stessa pena si applica a chi elude l’esecuzione di un provvedimento del giudice civile, che concerna l’affidamento di minori o di altre persone incapaci, ovvero prescriva misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito.

Chiunque sottrae, sopprime, distrugge, disperde o deteriora una cosa di sua proprietà sottoposta a pignoramento ovvero a sequestro giudiziario o conservativo e’ punito con la reclusione fino a un anno e con la multa fino a lire seicentomila (1) .

Si applicano la reclusione da due mesi a due anni e la multa da lire sessantamila a lire seicentomila se il fatto e’ commesso dal proprietario su una cosa affidata alla sua custodia e la reclusione da quattro mesi a tre anni e la multa da lire centomila a un milione se il fatto e’ commesso dal custode al solo scopo di favorire il proprietario della cosa (1).

Il custode di una cosa sottoposta a pignoramento ovvero a sequestro giudiziario o conservativo che indebitamente rifiuta, omette o ritarda un atto dell’ufficio e’ punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a un milione (1) .

Il colpevole e’ punito a querela della persona offesa (1)” .

(1)I quattro commi finali hanno sostituito l’originario terzo comma (art. 87, L. 24 novembre 1981, n. 689).

Mariagabriella Corbi

Corte di Cassazione – Sez. Sesta Pen. – Sent. del 01.09.2010, n. 32562

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Bologna riformava parzialmente la sentenza in data 19 giugno 2006 del Tribunale di Ravenna, appellata da E.S., che condannava alla pena di quattro mesi di reclusione in quanto colpevole del solo reato di cui all’art. 388 c.p., perché – ostacolando lo stabilirsi dei rapporti affettivi tra la figlia infra – quattordicenne G.T., negando pretestuosamente al padre l’esercizio del diritto di visita – frustrava l’esecuzione del provvedimento giudiziale relativo all’affidamento dei minori, adottato dal Tribunale dei minori di dell’Emilia Romagna. Mentre la Corte di merito assolveva l’imputata dal delitto di sottrazione di minori, per il quale vi era stata condanna in primo grado, non sussistendone gli elementi richiesti dalla norma incriminatrice per la configurazione anche di tale reato.
La Corte d’appello, inoltre, condannava l’imputata al risarcimento del danno, liquidato in euro 3.000,00.
Rilevava la Corte di appello che la prova della responsabilità dell’imputato derivava, anzitutto, dalla testimonianza del padre della piccola, A.T., il quale, nonostante alcune imprecisioni dovuto al lungo periodo di durata della condotta, ha riferito della violazione delle prescrizioni imposte dal Tribunale dei minori, e poi dalle circostanze riferite dall’assistente sociale M., del maresciallo Ma. e di tale G.I.. In base a tali testimonianze, per il giudice d’appello, è ampiamente provata l’elusione del predetto provvedimento che può concretizzarsi anche in un solo atto. La completezza del quadro probatorio rende, per il giudice d’appello, non necessaria la richiesta di esame di G.T.
2. Ricorre per cassazione l’imputata e deduce:
– La violazione dell’art. 574 c.p. poiché, vivendo la piccola G. stabilmente con la madre non avrebbe potuto configurarsi il reato di cui all’art. 574 c.p.;
– La violazione dell’art. 388 c.p. poiché il reato de quo si configura là dove vi sia una dolosa elusione dei provvedimenti del giudice civile relativi all’affidamento dei minori. Il Tribunale e la Corte d’appello non hanno compiutamente considerato la complessiva vicenda coniugale e si sono limitati a valutare gli eventi successivi all’intervento del Tribunale dei minori. Non sono stati affatto considerati i diversi interventi dei servizi sociali che hanno rivelato una situazione che incideva sul contenuto del provvedimento del giudice per i minori, provvedimento di fatto da ritenersi modificato.
– Mancata applicazione della scriminante dello stato di necessità poiché l’imputata ha agito solo nell’interesse della figlia minore e poco importa se i suoi timori e le sue convinzioni non fossero condivise dai servizi sociali. La situazione concreta non avrebbe potuto essere devoluta al giudice per un’eventuale modifica dei provvedimenti a suo tempo adottati.
– Mancata audizione della minore. La situazione accertata avrebbe imposto, a differenza di quanto ritenuto dal giudice d’appello, la testimonianza della minore. Audizione imposta per accertare la sussistenza del dolo.
– Quanto alla condanna al risarcimento del danno, la ricorrente rileva che non è stata provata la sussistenza di una danno, per giustificare la condanna in favore della costituita parte civile. Il giudice di primo grado avrebbe dovuto rimettere le parti innanzi al giudice civile.
3. Tale è la sintesi ex art. 173, comma 1, disp. att. c.p.p., dei termini delle questioni poste.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è infondato.
Il ricorso ripropone, in realtà, questioni già oggetto dei motivi d’appello, alle quali è stata data ampia e coerente risposta nella sentenza impugnata, anche con riferimento alla circostanza di avere agito in stato di necessità, situazione addotta a giustificazione della mancata richiesta di modifica delle statuizioni del giudice civile.
Del resto, i motivi di ricorso si rivelano solo quale mera contestazione alle scelte di merito effettuate in ordine alla ricostruzione della vicenda effettuata in primo grado e confermata dal giudice d’appello.
Il giudice d’appello, con proprio ragionamento probatorio, ha descritto le prove e in base a esse ha ritenuto che vi fu una consapevole condotta volta a eludere le statuizioni del giudice civile circa il diritto di visita del padre alla figlia minore; condotta, come correttamente rilevato dalla Corte di merito, realizzabile anche con un solo atto che riveli la dolosa elusione del dovere di rispettare le decisioni del giudice civile sull’affidamento e l’esercizio dei diritti inerenti la potestà genitoriale.
Quanto al diniego di esaminare la piccola G.T., la Corte di appello ha osservato che, tenuto conto dei risultati probatori del giudizio di primo grado, non sussisteva alcuna esigenza di integrare con ulteriori prove – una di esse, tra l’altro, costituente mera ripetizione di quella assunta dal Tribunale – il materiale probatorio, non ravvisando alcuna lacuna o incertezza da superare.
Si tratta di motivazione non sindacabile in sede di legittimità, in quanto l’art. 603 comma 2, c.p.p., rimette alla valutazione discrezionale del giudice di appello, legata al parametro della impossibilità di decidere allo stato degli atti, l’accoglimento della istanza di rinnovazione della istruzione dibattimentale che non sia legata all’assunzione di prove sopravvenute o successivamente scoperte ex art. 603 comma 1, c.p.p. (Sez. un., 24 gennaio 1996, dep. 15 marzo 1996, n. 2780).
Il ragionamento probatorio della Corte d’appello, dunque, è articolato con rigore argomentativo dapprima sulle ragioni per le quali la situazione riferita non potesse essere ricostruita nel senso indicato dagli imputati e poi sulle risposte ai punti critici della ricostruzione operata dal giudice di primo grado, motivatamente condivisa.
Pertanto, la vicenda, riassunta nei suoi punti significativi, è stata oggetto di una esauriente motivazione nel rispetto dei canoni di ordine logico.
2. Anche l’ulteriore profilo della liquidazione del danno da parte del giudice penale, anziché rimettere la questione alle valutazioni del giudice civile, è questione di merito non sindacabile in questa sede là dove giustificata da adeguata giustificazione. La Corte d’appello, nel rideterminare il quantum del danno da risarcire, ha ritenuto che lo stesso fosse da ricondurre al danno morale da reato per avere reso difficoltoso il rapporto tra T. e la figlia. In ragione di tale situazione, in via meramente equitativa, ha determinato il danno in euro 3000,00.
3. Il ricorso va, dunque, rigettato.
Al rigetto del ricorso consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e a rimborsare alla parte civile T.A. le spese sostenute per questo giudizio, che liquida in euro 2000,00, oltre IVA e CPA.

Depositata in Cancelleria il 01.09.2010

 

 

***** Mariagabriella

Corbi Mariagabriella

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