(Ricorso accolto mediante annullamento con rinvio)
Orientamento confermato.
(Normativa di riferimento: L. 22-04-2005, n. 69, art. 18, c. 1, lett. h)).
Il fatto
La Corte di appello di Napoli, in esecuzione di mandato di arresto Europeo processuale emesso in data 25/13/2017 dal Tribunale di Primo Grado di Hainaut (Belgio) e relativo a ordinanza di custodia cautelare in pari data emessa dal medesimo Tribunale in relazione a quattro rapine consumate ed una tentata commesse in diverse località belghe in periodo compreso tra il (OMISSIS) e il (OMISSIS), disponeva la consegna dell’autore di questi reati alle autorità giudiziarie belghe per il titolo e i reati sopra indicati, alla condizione che costui, dopo essere stato ascoltato, fosse rinviato in Italia per scontarvi la pena eventualmente pronunciata nei suoi confronti.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso questa decisione ricorreva il destinatario di questo provvedimento per il tramite del suo difensore.
In particolare, il ricorrente deduceva i seguenti motivi di ricorso: a) inosservanza o erronea applicazione della legge penale con riferimento all’art. 18, comma 1, lett. h) della legge n. 69/2005 e vizi di motivazione, avendo la Corte territoriale omesso ogni dovuta verifica circa le condizioni carcerarie nello Stato di emissione e la loro compatibilità con i diritti fondamentali dell’individuo nonostante il ricorrente avesse concretamente allegato il rischio di trattamento inumano o degradante in caso di consegna, desumibile dalla sentenza della Corte e.d.u. Vasilescu c. Belgio in data 25/11/2014 e dalla dichiarazione pubblica del Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio di Europa (CPT) in data 13/7/2107; b) violazione della L. n. 69 del 2005, artt. 20 e 24, e vizi di motivazione circa la ritenuta insussistenza dei presupposti per il rinvio della consegna a giustizia italiana soddisfatta, non avendo la Corte territoriale tenuto conto a tale proposito che il ricorrente, il quale all’epoca dei fatti era detenuto in espiazione della pena pari a un anno di reclusione a lui inflitta per il delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, (fine pena massimo 14/4/2018), avrebbe dovuto altresì scontare condanna, anch’essa irrevocabile, alla pena di otto mesi di reclusione per il reato di evasione essendo altresì sottoposto a processo per il reato di insolvenza fraudolenta mentre invece la sentenza impugnata si era limitata a valutare l’esistenza del solo provvedimento relativo alla violazione della normativa sugli stupefacenti, ora passato in giudicato, sicchè viziato avrebbe dovuto ritenersi il giudizio in base al quale la Corte territoriale aveva ritenuto connotati da maggiore gravità i reati ipotizzati nel mandato di arresto Europeo rispetto a quelli oggetto delle condanne riportate dal ricorrente e del processo al quale egli risultava essere sottoposto in Italia.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione accoglieva il suddetto ricorso, e in particolar modo il primo motivo summenzionato prima, rilevando come la Corte territoriale aveva respinto la doglianza riguardante il rischio di sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti correlati alla situazione carceraria in Belgio senza disporre l’acquisizione di informazioni e accertamenti integrativi ai sensi della L. n. 69 del 2005, art. 16 avendo essa ritenuto come: a) la sentenza della Corte e.d.u. del 25/11/2014, Vasilescu contro Belgio si riferisse a condizioni rilevate nel 2011 in due specifici penitenziari (Anversa e Merksplas) e che quelle condizioni negative devono ritenersi allo stato bonificate, stante l’assenza di ulteriori indicazioni in proposito provenienti da organismi Europei o internazionali, ovvero da qualificate organizzazioni non governative; b) fossero inidonee a dimostrare l’esistenza del suddetto rischio le allegazioni del ricorrente in ordine a situazioni conseguenti a scioperi del personale addetto alla custodia dei detenuti in Belgio, poichè risultanti da fonti giornalistiche non attendibili e non controllabili nel loro contenuto.
Oltre a ciò, gli ermellini giungevano a siffatto esito decisorio sulla scorta di plurime argomentazioni.
Veniva prima di tutto osservato in via preliminare che, secondo quanto chiarito dalla medesima Corte di legittimità sulla scorta delle indicazioni della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella sentenza 5 aprile 2016, C404/15, Aaranyosi e C659/15, Caldararu, il motivo di rifiuto della consegna correlato al “serio pericolo” che la persona venga sottoposta alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti, impone di verificare, dopo aver accertato l’esistenza di un generale rischio di trattamento inumano da parte dello Stato membro (basandosi su “elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati” sulle condizioni di detenzione vigenti nello Stato membro emittente e comprovanti la presenza di carenze sia sistemiche o comunque generalizzate, sia limitate ad alcuni gruppi di persone o a determinati centri di detenzione), se, in concreto, la persona oggetto del M.A.E. potrà essere sottoposta ad un trattamento inumano, sicchè a tal fine può essere richiesta allo Stato emittente qualsiasi informazione complementare necessaria (Sez. 6, n. 23277 del 01/06/2016, omissis, Rv. 267296).
Chiarito il modo attraverso il quale può essere addotto il motivo di rifiuto a norma dell’art. 18, c. 1, lett. h), legge n. 69/2005, valutando nello specifico la situazione delle carceri del Belgio, si osservava come la stessa Cassazione avesse già affermato nel passato che, in tema di mandato di arresto Europeo emesso dall’Autorità Giudiziaria belga, la condizione di rischio connessa a problemi di tipo strutturale che possono tradursi nella sottoposizione dei detenuti a trattamenti inumani o degradanti, evidenziata dalla sentenza Vasilescu c. Belgio del 25/11/2014 della Corte Europea dei diritti dell’uomo, impone all’autorità giudiziaria richiesta della consegna di verificare in concreto la sussistenza di tale rischio, correlata alla condizione degli istituti carcerari dello Stato di emissione, attraverso la richiesta di informazioni individualizzate allo Stato richiedente relative al tipo di trattamento carcerario cui sarebbe, specificamente, sottoposto il soggetto interessato (Sez. 6, n. 22249 del 03/05/2017, omissis, Rv. 269920).
Posto ciò, la Corte, nel ribadire il principio summenzionato prima ossia che, a fronte di informazioni provenienti da fonti autorevoli e accreditate e prima di tutto alla luce di quanto rilevato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo in sentenze riguardanti lo Stato di emissione del M.A.E., deve essere verificato e ponderato il concreto rischio che il soggetto, di cui è chiesta la consegna, possa trovarsi esposto all’eventualità della sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti, correlati alle condizioni degli istituti carcerari del Paese di emissione, in ragione del sovraffollamento o di altri strutturali e non puramente contingenti problemi, evidenziava altresì che, in presenza di una situazione di allarme, originato dall’accertata esistenza di condizioni di rischio, la necessaria verifica implica che siano acquisite specifiche assicurazioni dallo Stato di emissione le quali a loro volta non possono solo concernere profili di carattere generale, ma devono essere individualizzate in relazione alla situazione riguardante il soggetto interessato alla procedura di consegna.
In sostanza, secondo i giudici di legittimità ordinaria, un onere di questo tipo incombe allo Stato emittente e non a carico di colui nei cui confronti viene emesso il mandato di arresto europeo.
Chiarito ciò, si stigmatizzava l’operato dei giudici di merito non avendo essi dato il giusto rilievo alla sentenza della CEDU succitata, vale a dire la sentenza Vasilescu contro Belgio che, secondo la Corte, pur non avendo assunto la forma della sentenza c.d. pilota, aveva tuttavia posto in luce, tanto più con riguardo a taluni stabilimenti penitenziari, problemi che definiva di tipo strutturale, cui sono riconducibili situazioni che possono tradursi nella sottoposizione dei detenuti a trattamenti inumani e degradanti.
Infatti la Corte di Cassazione censurava quella parte dell’ordinanza sottoposta al suo scrutinio di legittimità proprio perché la Corte territoriale aveva svalutato tale sentenza ritenendo in maniera del tutto congetturale e indimostrata – e senza procedere ai necessari accertamenti integrativi previsti dalla L. n. 69 del 2005, art. 16 – che i problemi strutturali rilevati dalla Corte e.d.u. fossero stati risolti.
Proseguendo ad esaminare il ragionamento decisorio che connota la sentenza qui in commento, veniva censurata la decisione impugnata anche sotto un altro profilo avendo stimato come illogica e infondata la svalutazione da parte della Corte territoriale in ordine all’allegazione del ricorrente circa il concreto rischio di sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti derivante dalle gravi conseguenze prodotte nelle carceri belghe a seguito di scioperi o altre azioni collettive degli agenti penitenziari trattandosi di situazioni più volte segnalate dal Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa e che avevano recentemente condotto il Comitato, in mancanza dell’adozione di misure idonee, a emettere in data 13/7/2017, ai sensi dell’art. 10(2) della Convenzione istitutiva di detto Comitato, una Dichiarazione Pubblica con la quale si denuncia il rischio di assoggettamento di un gran numero di detenuti a trattamenti inumani e degradanti, ovvero all’aggravamento di condizioni detentive già intollerabili e all’esposizione dei detenuti a pericolo per la loro salute e la loro stessa vita.
I giudici di Piazza Cavour, alla luce di queste considerazioni, pertanto, stimavano sussistente la violazione della L. n. 69 del 2005, art. 16, in relazione all’art. 18, lett. h) della stessa legge e del denunciato vizio di motivazione della sentenza impugnata e di conseguenza, consideravano necessario l’annullamento della sentenza in esame con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Napoli perchè procedesse a nuovo giudizio circa l’eventuale sussistenza del motivo di rifiuto di cui al citato art. 18, lett. h) in relazione al tipo di trattamento carcerario cui sarebbe specificamente sottoposto il ricorrente e e alle misure adottate dal Belgio per eliminare i rischi segnalati dal Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa con Dichiarazione Pubblica emessa in data 13/7/2017 ai sensi dell’art. 10(2) della Convenzione istitutiva di detto Comitato.
Per quanto invece concerne l’altro motivo, questo si riteneva assorbito dall’altro dovendo la valutazione delle condizioni per l’eventuale rinvio della consegna ai sensi della L. n. 69 del 2005, art. 24, essere svolta alla stregua della concreta situazione esistente al momento del giudizio di rinvio, anche, eventualmente, sulla base della documentazione di cui si rendesse necessaria l’acquisizione (Sez. 6, n. 14764 del 27/03/2013, omissis, Rv. 257020) dato che la facoltà riconosciuta alla Corte d’appello di rinviare la consegna per consentire alla persona richiesta di essere sottoposta a procedimento penale in Italia per un reato diverso da quello oggetto del mandato d’arresto, implica una valutazione di opportunità che deve tener conto non solo dei criteri desumibili dalla L. n. 69 del 2005, art. 20, (ossia, la gravità dei reati e la loro data di consumazione), ma anche di altri parametri, quali, ad esempio, lo stato di restrizione della libertà, la complessità dei procedimenti, la fase o il grado in cui essi si trovano, l’eventuale definizione con sentenza passata in giudicato, l’entità della pena da scontare e le prevedibili modalità della sua esecuzione (Sez. 6, n. 26877 del 25/05/2017, P.G. in proc. omissis, Rv. 270164; Sez. 6, n. 10892 del 05/03/2014, B., Rv. 259340).
Conclusioni
La sentenza impugnata è giuridicamente ineccepibile in quanto si pone nell’ottica di una corretta applicazione dell’art. 18, c. 1, lett. h) della legge n. 65 del 2009.
Soltanto infatti la garanzia di specifiche assicurazioni da parte dello Stato richiedente che faccia chiarezza sul tipo di trattamento carcerario cui sarebbe specificamente sottoposta la ricorrente (così: Cass. pen., sez. VI, n. 22249/2017) consente di accertare concretamente se vi sia o meno un serio pericolo che la persona ricercata venga sottoposta alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti.
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