Mansioni lavorative, ius variandi e novità introdotte dal decreto legislativo n. 81/2015

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Indice:

  1. Profili generali dell’art. 2103 del codice civile
  2. La novella legislativa del 2015 e lo ius variandi del datore di lavoro
  3. Il patto di dequalificazione
  4. Quali guarentigie per il lavoratore illegittimamente assegnato a mansioni di livello inferiore?
  5. La mobilità verticale verso l’alto e la deroga alla cosiddetta promozione automatica

 1. Profili generali dell’articolo 2103 del codice civile

Le mansioni, stante la formulazione dell’articolo 2103 del codice civile, rappresentano – nel contratto di lavoro – l’oggetto contrattuale. Quest’ultimo, al pari di tutti gli altri contratti di natura sinallagmatica, ai sensi dell’art. 1345 c.c., deve essere determinato o determinabile.

Il datore di lavoro, invero, in ossequio a quanto previsto dalla disciplina dello ius variandi, può modificare il summenzionato oggetto contrattuale. Tuttavia, è bene – sin da subito – significare che la normativa di riferimento dello ius variandi ha subito una mutazione, determinata dagli interventi normativi succedutisi nel corso degli ultimi 50 anni e, in particolare, nell’ultimo lustro.

La disciplina legale dello ius variandi è molto importante, giacché si appresta ad enucleare le ipotesi nelle quali il datore di lavoro può esercitare la “mobilità orizzontale”, oltreché la “mobilità verticale”. Ciò, tradotto in altri termini, permette al datore di disporre, soprattutto alla luce dell’attuale assetto normativo, di maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro. Tuttavia, le maglie entro le quali il capo dell’impresa può esercitare lo ius variandi, sono sottoposte a limiti di natura imperativa per la salvaguardia della posizione professionale[1] del lavoratore, in primis, e per la tutela della situazione economica, in secundis.

2. La novella legislativa del 2015 e lo ius variandi del datore di lavoro

Prima degli anni ’70, il datore di lavoro poteva, senza alcun limite, disporre anche – e non solo – lo arretramento della posizione professionale del lavoratore. In tal guisa, il prestatore poteva essere destinatario di un pregiudizio, in virtù – giustappunto – dell’assenza di alcuna linea di confine entro la quale il datore poteva assegnare mansioni peggiorative al lavoratore. Sennonché, nel 1970, lo statuto dei lavoratori interviene in punto, cancellando con un frego la normativa codicistica.

Successivamente, l’art. 3 del d.lgs. 15.06.2015 n. 81 ha ulteriormente modificato la disciplina legale delle mansioni. In proposito, partendo dalla mobilità orizzontale, vediamo come sia stato espunto dalla norma di riferimento il criterio dell’equivalenza.[2] Invero, detto criterio viene soppiantato dal legislatore delegato con la possibilità del datore di far svolgere al lavoratore, ai sensi del comma 1 dell’art. 2103 c.c., mansioni per le quali è stato assunto o  riconducibili al livello professionale di appartenenza, purché rientranti nella medesima categoria legale.[3] In tal senso, autorevole dottrina[4] ha asserito che la nuova previsione normativa ha causato un ampliamento dell’area del debito del lavoratore. La contrattazione collettiva, dunque, ha assunto un ruolo determinante, poiché la nuova formulazione dell’articolo 2103 c.c. affida ad essa il compito di definire gli inquadramenti professionali dei lavoratori, il tutto in linea con l’attuale impianto normativo.

Tema più controverso è quello dedicato alla mobilità verticale verso il basso, in virtù della quale l’imprenditore può, in considerazione di quanto previsto dai commi 2 e 4 dell’articolo 2103 c.c., adibire a mansioni riconducibili a livello inferiore il lavoratore. Le ipotesi dianzi richiamate sono espressione del potere di modifica unilaterale delle mansioni da parte del datore di lavoro. Pur tuttavia, un quesito sorge spontaneo: quali sono le condizioni secondo le quali il datore può variare -in pejus – la posizione professionale del lavoratore? Al fine di fornire un riscontro a questo interrogativo, è opportuno riportare, integralmente, il comma 2 dell’articolo 2103 c.c., il quale recita: “in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale”. Orbene, le condizioni risultano essere sostanzialmente tre, ovverosia: la modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, l’inquadramento immediatamente inferiore e il rispetto della categoria legale di appartenenza. Tralasciando gli aspetti che interessano l’inquadramento immediatamente inferiore e la categoria legale di appartenenza, chi scrive crede sia il caso di esaminare – in maniera oculata – l’inciso “incide”, sia in considerazione dalla sua portata, sia in riferimento alla valutazione che il giudice può operare in sede giudiziale nelle ipotesi di demansionamento. L’utilizzo del verbo incidere allude, in definitiva, alla possibilità del datore di lavoro “di retrocedere il lavoratore a una mansione inferiore se adotta una riorganizzazione (di più ampio respiro oppure anche circoscritta, al limite, al lavoratore interessato) che incide in modo diretto sulla posizione del lavoratore. L’indagine che può svolgere, in tale circostanza, il giudice, ha ad oggetto la veridicità della scelta aziendale a monte e l’esistenza di un nesso di causalità fra tale scelta e il demansionamento del lavoratore”.[5]

Palese, dunque, risultano essere i profili sui quali è possibile, per mezzo del potere direttivo, fondare un atto legittimo di variazione in pejus delle mansioni, ovvero: la veridicità della scelta aziendale e il nesso di causalità fra la tale scelta e il demansionamento del prestatore di lavoro.

Infine, sempre in tema di mobilità verticale verso il basso, possiamo individuare un ulteriore spazio dedicato al demansionamento, enunciato dal comma 4 dell’art. 2103 c.c., secondo il quale: “ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi”.

“Quanto ai limiti che la contrattazione collettiva incontra nell’individuazione delle ipotesi aggiuntive, sembra più coerente con la ratio della previsione, ritenere che le “ulteriori ipotesi” debbano comunque essere tali da contemperare l’interesse dell’impresa con l’interesse del lavoratore alla professionalità, la cui lesione ha un rilievo che trascende quello meramente economico, come risulta anche dalla giurisprudenza in tema di danno alla professionalità”.[6]

Per quanto attiene, inoltre, al livello di contrattazione collettiva, non sembra in discussione il fatto che per essa di debba intendere i tre livelli di contrattazione, ovvero quella nazionale, quella aziendale o territoriale, in linea con quanto previsto dall’articolo 51 del d.lgs. n. 81 del 2015.

In ogni caso, le previsioni di cui ai commi 2 e 4 dell’art. 2103, devono essere comunicate per iscritto al lavoratore, pena la nullità dell’atto di assegnazione a mansione di livello inferiore del lavoratore. Inoltre, in un’ottica garantista, al lavoratore deve essere corrisposto il trattamento retributivo d’origine, fatta eccezione per quegli elementi strettamente connessi alla mansione di provenienza. Ad esempio: una guardia particolare giurata adibita al servizio antirapina che percepisce un’indennità collegata alla predetta funziona, qualora fosse adibito ad una mansione di livello inferiore (rimane fermo il rispetto della categoria legale), avrà diritto a percepire l’emolumento della posizione professionale di provenienza, ma perderà la voce retributiva riferita alla funzione di antirapina.

Pertanto, a valle di quanto sopra indicato, è possibile attestare che gli atti posti in essere in spregio a quanto disposto dai commi 2 e 4 dell’art. 2103 c.c., debbono considerarsi atti di demansionamento (id est atti datoriali illegittimi).

3. Il patto di dequalificazione

Nei precedenti paragrafi si è ampiamente discettato dello ius variandi del datore di lavoro, il cui esercizio costituisce una conseguenza della prerogativa del potere direttivo di cui dispone l’anzidetto datore (ex art. 2104 c.c.), ovvero della flessibilità ad egli concessa dal dettame di cui all’art. 2103 del codice civile.

Tuttavia, tutte le ipotesi appena passate in rivista, non accennano – in alcun modo – alla possibilità dell’imprenditore di cambiare (ovviamente in senso peggiorativo) il livello di inquadramento, la categoria legale, la mansione e il trattamento retributivo. Questa eventualità, trova riscontro nel comma 6 dell’articolo 2103 c.c., secondo cui: “nelle sedi di cui all’articolo 2113, quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro”.

Pertanto, primo aspetto fondamentale, acché detti accordi individuali siano legittimi, e non nulli, è quello della stipulazione degli stessi davanti al giudice istruttore nell’udienza di conciliazione, o d’avanti all’ispettorato del lavoro, o nella sede sindacale, o davanti al collegio di conciliazione ed arbitrato individuato dalla contrattazione collettiva, o nella sede del collegio di conciliazione di ed arbitrato irrituale, nonché davanti alle commissioni di certificazione. Chi scrive, altresì, crede che il legislatore – nella individuazione delle sedi di cui all’articolo 2113 comma 4 del codice civile, abbia omesso di indicare la sede di cui all’articolo 420 del codice di procedura civile (udienza di discussione della causa nel processo del lavoro). Le sedi protette sopra trascritte, nelle quali viene manifestata la volontà individuale assistita del lavoratore, costituiscono presidi ineludibili di tutela del prestatore. Esse, invero, sono deputate alla verifica della genuinità del consenso del prestatore, sicché un accertamento negativo in tal senso preclude la condizione di addivenire alla stipulazione dei patti di demansionamento.   

Tuttavia, il pedissequo rispetto della sede, non è sufficiente a legittimare l’accordo individuale, in quanto la norma richiede la sussistenza di una delle tre ragioni giustificatrici. Prima tra esse vi è quella dell’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro. La giurisprudenza più recente[7] annovera in questa previsione l’inidoneità sopravvenuta del lavoratore allo svolgimento di mansioni precedenti. Di talché, il patto di demansionamento eviterebbe il licenziamento del lavoratore qualora questi non possa essere ricollocato in mansione equivalenti o di livello inferiore secondo la prescrizione normativa dell’art. 42 del d.lgs. n. 81/2008.

Ancora: l’accordo di demansionamento di cui al comma 6 dell’articolo in commento, costituisce un formidabile strumento, finalizzato alla conservazione del posto di lavoro, nelle ipotesi di licenziamento oggettivo. [8]

L’acquisizione di diversa professionalità o la conciliazione dei tempi vita-lavoro rappresentano gli ultimi due strumenti in virtù dei quali l’accordo individuale risulta essere giustificato dalla norma di riferimento.

4. Quali guarentigie per il lavoratore illegittimamente assegnato a mansioni di livello inferiore?

Quali sono, dunque, gli atti datoriali di assegnazione delle mansioni illegittimi? La risposta è segnatamente riportata nel comma 9 dell’articolo 2103 c.c., secondo il quale: “salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e al quarto comma e fermo quanto disposto al sesto comma, ogni patto contrario è nullo”. È chiaro, pertanto, che la non osservanza delle disposizioni di cui ai commi 2, 4 e 6 dell’articolo 2103 c.c., di cui si è effettuata un’attenta analisi, comporta la nullità dei relativi atti, impugnabili nella sede di cui all’art. 409 c.p.c. . Parimenti, gli accordi individuali possono essere impugnati, innanzi al medesimo giudice, anche nelle ipotesi nelle quali vi è spazio per i vizi del consenso.[9]  La giurisprudenza[10] include nella fattispecie di atto nullo, tra l’altro, tutte quei casi nei quali il datore svuota di contenuto le mansioni del prestatore, ovvero rende quest’ultimo inattivo, poiché il prestatore ha il diritto di svolgere effettivamente la prestazione.

L’eccezione d’inadempimento, di cui all’art. 1460 c.c., rappresenta un insuperabile strumento di tutela del lavoratore vittima di un atto in violazione dell’articolo 2103 del codice civile. L’eccezione d’inadempimento – attesa la buona fede del prestatore – consente allo stesso di rifiutare lo svolgimento della prestazione. Tuttavia, la giurisprudenza più recente ritiene che detto rifiuto sia legittimo allorquando l’inadempimento del datore di lavoro sia totale o così grave  “da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore”.[11] Pertanto, considerando la letteratura giurisprudenziale così stringente in punto, pare non vi sia altra strada in presenza di un demansionamento illegittimo, se non quella del risarcimento del danno che comprende anche la perdita patrimoniale subita dal lavoratore.

5. La mobilità verticale verso l’alto e la deroga alla cosiddetta promozione automatica

Ultimo aspetto sul quale è doveroso soffermarsi, al fine di definire il quadro normativo attinente allo ius variandi, è la mobilità verticale verso l’alto di cui al comma 7 dell’art. 2103 c.c., secondo cui: “nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva, salva diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi”.

Quindi, il datore di lavoro, qualora volesse incaricare il lavoratore subordinato a mansioni superiori, potrà perseguire due strade. La prima è quella dell’assegnazione di fatto con relativo riconoscimento retributivo della mansione espletata al livello superiore. La seconda, per contro, è quella del riconoscimento formale immediato del livello superiore al lavoratore al quale, in analogia con quanto previsto per l’assegnazione di fatto, andrà corrisposto il trattamento economico corrispondente al livello superiore di inquadramento.

La disciplina dello ius variandi in melius, inoltre, svolge una funzione suppletiva, giacché nell’inerzia delle parti collettive, ovvero in assenza di una previsione contrattuale, prevede che l’assegnazione alla mansione superiore divenga definitiva dopo 6 mesi. La giurisprudenza afferma che nel computo (contrattuale o legale), necessario per l’assegnazione definitiva delle mansioni, non deve tenersi conto né del periodo di ferie, né del periodo di sospensione dell’attività lavorativa a causa di malattia.[12] Tuttavia, detti periodi non hanno effetto interruttivo e consentono la sommatoria dei periodi utili al computo per l’assegnazione definitiva della mansione. [13] Di converso, nell’anzidetto computo vi rientrano i periodi di riposo settimanali. [14]

In ogni caso, il prestatore di lavoro non ha diritto all’assegnazione definitiva della mansione, allorché la sua prestazione a mansione di livello superiore sia stata disposta per sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto di lavoro. Ma quali sono, dunque, le fattispecie in ragione delle quali il lavoratore, chiamato in sostituzione di un collega assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro, non può rivendicare il diritto al riconoscimento del livello corrispondente alla mansione espletata? Autorevole dottrina, [15] partendo dall’assunto della norma secondo cui il lavoratore sostituito deve essere “in servizio”, fa sì che la promozione automatica possa verificarsi anche in caso di sostituzione di lavoratori chiamati a cariche pubbliche elettive o che svolgono incarichi sindacali. Di converso, altra non meno autorevole dottrina,[16] esclude la configurabilità della promozione automatica qualora il dipendente sostituisca altro lavoratore in missione o assente per un periodo di formazione. [17]

Infine, degno di nota, pare essere il disposto normativo, novativo della disciplina dello ius variandi, che prevede la possibilità di deroga alla promozione automatica. Essa, di fatti, consente al lavoratore di rifiutare[18] – legittimamente e senza conseguenze di sorta – la promozione automatica.[19]

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Note:

[1] Per posizione professionale deve intendersi l’insieme delle conoscenze, capacità ed esperienze, acquisite attraverso il lavoro e il ruolo professionale.

[2] Esso consentiva al datore di adibire il prestatore di lavoro a “mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza diminuzione della retribuzione”.

[3] L’art. 2095 del codice civile, così come modificato dalla legge n. 190 del 1985, passa in rassegna le seguenti categorie legali: dirigente, quadro, impiegato e operario. La categoria legale può essere definita come livello d’inquadramento direttamente individuato dalla legge.

[4] Cfr. M. Brollo, Le mansioni: la rivoluzione promessa nel jobs act, Labor, 2017, 619 ss; B. Caruso, Strategie di flessibilità funzionale dopo il jobs act: fordismo, post-fordismo e industria 4.0, GDRLI, 81; C. Zoli, La disciplina delle mansioni, in FIORILLO-PERULLI (a cura di), Tipologie contrattuali e disciplina delle mansioni, Torino 2015, 333.

[5] R. Del Punta, Diritto del lavoro, Giuffrè Francis Lefebvre, XII edizione, 2020, pag. 505, cit.

[6] R. Del Punta, F. Scarpelli (a cura di), con la collaborazione di M. Marrucci e P. Rausei, Codice commentato del lavoro, Commentari Ipsoa, I edizione, 2019, pag. 445, cit.

[7] C. 6.12.2017, n. 29250; C. 16.5.2016, n. 10018, Leggi d’Italia

[8] In proposito la più recente sentenza del giudice delle Leggi, la n. 59 del 2021, ha confermato l’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, allorché il datore di lavoro non dimostri di aver rispettato l’obbligo di “repechage”

[9] Tra essi vi rientrano l’errore, la violenza e il dolo

[10] C. 9.2.2007, n. 2878; C. 22.2.2003, n. 2763; C. 14.11.2001, n. 14199,  Leggi d’Italia

[11] C. 16.1.2018, n. 836; C. 21.5.2015, n. 10468; C. 26.4.2011, n. 9351; C. 2008, n. 29832,  Leggi d’Italia

[12] C. 1983/2004, Leggi d’Italia

[13] C. 6839/1996; C. 11494/1992, Leggi d’Italia

[14] C. 1983/2004; C. 15766/2002, Leggi d’Italia

[15] Cfr. M. Brollo, Disciplina delle mansioni (art. 3), in CARINCI F. (a cura di), Commento al d. lgs. 15 giugno 2015, n. 81: le tipologie contrattuali e lo jus variandi, e-Book ADAPT 2015

[16] Cfr. C. Zoli, La disciplina delle mansioni, in FIORILLO-PERULLI (a cura di), Tipologie contrattuali e disciplina delle mansioni, Torino 2015

[17] Si pensi al lavoratore al quale viene concessa l’aspettativa per motivi di studio secondo quanto previsto dalla legge n. 53 del 2000

[18] Emblematico sarebbe il caso nel quale il lavoratore fosse “obbligato” a non accettare la promozione automatica. Pertanto, in analogia a quanto previsto dal comma 6 dell’articolo 2103 c.c., e coerentemente con la ratio della norma, non sarebbe stato più opportuno richiedere la stipulazione della deroga innanzi alle sedi protette di cui all’articolo 2113 co. 4, ovvero innanzi alle commissioni di certificazione? L’interrogativo rimane aperto.

[19] Ad esempio si pensi al lavoratore adibito a mansioni superiori, che comportano una variazione dell’articolazione oraria della prestazione. Ciò potrebbe inficiare il c.d. work-life balance e, dunque, seriamente compromettere la serenità famigliare del prestatore. Questo potrebbe essere uno dei motivi per il quale il dipendente potrebbe ricusare la promozione automatica. 

Dott. Domenico Giardino

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