Con le sentenze n. 13 del 05/01/2012 e n. 2075 dell’11/04/2012 il Consiglio di Stato continua a parlare di retribuibilità delle mansioni superiori, rispetto alla qualifica di appartenenza, svolte dal dipendente pubblico nel settore sanitario.
La questione della retribuibilità o meno delle mansioni superiori svolte dal dipendente pubblico ha dato luogo ad orientamenti giurisprudenziali non sempre univoci, ma ormai può ritenersi consolidato l’indirizzo secondo cui per la retribuibilità occorrono non solo un’espressa previsione normativa ma anche altri presupposti:
– la presenza di un preventivo provvedimento di incarico
– la vacanza del posto in pianta organica
– l’incarico concerna mansioni della qualifica immediatamente superiore.
La disciplina delle mansioni superiori nel pubblico impiego, ad oggi, è dettata da un insieme di norme statali che, peraltro, hanno subito una rapida evoluzione a partire dal D.Lgs. n.29/1993 in poi.
In principio, la posizione del pubblico impiegato era caratterizzata dall’assioma delle priorità dell’inquadramento formale rispetto alle mansioni effettivamente svolte. Tale situazione può essere fatta risalire all’art. 31, comma 1, del T.U. sugli impiegati civili dello Stato (D.P.R. n.3/1957) che garantisce al lavoratore il “diritto all’esercizio delle funzioni inerenti alla sua qualifica” affermando addirittura l’esistenza di un valore morale e di “immagine”. Sicché la qualifica nel settore pubblico è stata considerata non tanto come uno strumento descrittivo della mansione, quanto come l’oggetto del rapporto di servizio fissato in una tipologia inderogabile. Su questo concetto di qualifica formale si innerva, oltretutto, il c.d. regime delle carriere che nulla ha a che vedere con l’idea che dello stesso proviene dal settore privato e che corrisponde ad una scala gerarchico-formale che ingabbia la posizione del dipendente e lo stesso jus variadi del datore di lavoro pubblico entro schemi definiti.
Il potere discrezionale dell’amministrazione nell’attribuire al pubblico impiegato le mansioni era fortemente limitato dall’obbligo di rispettare la qualifica (2° comma, art. 31 cit.) e la carriera (3° comma, art. 31 cit.). Quest’ultima non poteva essere disattesa neppure nell’assegnazione temporanea a mansioni superiori. Vigeva, dunque, il principio del divieto generale di attribuzioni di mansioni superiori e, pertanto, della non retribuibilità delle stesse con una netta chiusura del sistema al principio secondo cui l’inquadramento deve corrispondere alle mansioni effettivamente svolte.
L’art. 31, comma 1, del T.U. del 1957 sancisce il diritto del pubblico impiegato all’esercizio delle funzioni inerenti alla sua qualifica. Così, la giurisprudenza amministrativa ha fatto discendere dal diritto alla qualifica una duplice conseguenza: da un lato, quella della impossibilità di lasciare il dipendente privo di effettive mansioni e dall’altro, quella del mancato riconoscimento sul piano giuridico ed economico dello svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica dal medesimo rivestita.
L’irrilevanza delle mansioni di fatto svolte dal dipendente pubblico è giustificata dai vincoli costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione ed del passaggio obbligato del concorso (art. 97 Cost.); principi che hanno costituito gli ostacoli principali alla concreta omologazione tra lavoro privato e pubblico, da contemperare, comunque, con il principio, di pari rilevanza, di corrispondenza della retribuzione dei lavoratori alla qualità e quantità di lavoro prestato sancito all’art. 36 Cost.
Alla luce di quanto esposto, inevitabile è stato il susseguirsi di interventi di riforma con l’obiettivo di garantire al datore di lavoro pubblico una maggiore flessibilità nell’utilizzo della forza lavoro e, sul versante opposto, di creare un sistema meritocratico per incentivare, anche economicamente, i prestatori di lavoro più attivi e capaci.
Ed infatti, la possibilità di conferire al dipendente pubblico, in via temporanea e in presenza dei relativi presupposti, mansioni superiori, con conseguente spettanza del relativo trattamento economico, è stata disciplinata in termini generali prima dall’art. 57, d.lgs. n.29/1993, ma in concreto la sua applicazione è stata di volta in volta procrastinata, anche sulla scia di aspre polemiche circa il senso “antiriformista” della stessa, in seguito il suo contenuto è confluito nell’art.56, d.lgs. n. 29/1993, introdotto dal d.lgs. n. 387/1998, successivamente trasformato dal d.lgs. 165/2001 in art. 52.
L’art. 52 del testo unico del pubblico impiego, ha così riordinato la disciplina delle mansioni superiori nel pubblico impiego, affermando in maniera netta un principio: “l’esercizio di mansioni superiori da parte del pubblico impiegato non attribuisce il diritto alla “promozione automatica”, ma il diritto alla retribuzione corrispondente, a prescindere dalla legittimità o meno dell’atto di assegnazione”.
Nel settore sanitario, nel quale, diversamente da quanto accade in generale nel pubblico impiego, il fenomeno dello svolgimento di mansioni superiori è tradizionalmente disciplinato da un’apposita normativa di rango primario, l’art. 29 del D.P.R. n.761/1979 (Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali) e il riconoscimento del trattamento economico per lo svolgimento di funzioni superiori è in via generale condizionato dalla presenza di determinati presupposti.
Con sentenza n. 2920 del 13 maggio 2011 il Consiglio di Stato, infatti, ha affermato che nel comparto sanitario pubblico la possibilità di riconoscere le differenze retributive per l’espletamento di mansioni superiori, ai sensi dell’art. 29, comma 2, del D.P.R. n.761/1979, è subordinata alla contestuale ricorrenza di ineludibili condizioni: le mansioni siano svolte su un posto di ruolo esistente e vacante in pianta organica, non sia stato bandito alcun concorso per la copertura del posto vacante ed il conferimento dell’incarico sia avvenuto a seguito di atto formale idoneo a costituire l’obbligo del dipendente di darvi esecuzione, perciò adottato dall’organo competente il quale nel contempo, dopo aver verificato la sussistenza di tutti i presupposti di legge, si sia assunto la responsabilità della determinazione adottata.
Al contrario, però, nel caso di svolgimento delle funzioni primariali da parte di un aiuto ospedaliero, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha da tempo affermato il principio che, non potendosi configurare l’ipotesi di una struttura sanitaria – la cui direzione competa ad un primario – che rimanga priva dell’organo di vertice responsabile dell’attività esercitata, all’aiuto ospedaliero che svolga mansioni primariali, su un posto vancante di pianta organica, deve essere riconosciuto il trattamento retributivo corrispondente alle superiori mansioni effettivamente svolte, anche a prescindere da qualsiasi atto formale di incarico, essendo sufficiente ai fini in esame, ai sensi dell’art.7, comma 5, del D.P.R. n.128/1969, che il sanitario abbia l’obbligo di esercitare le predette funzioni primariali (C.d.S., sez. III, 5 gennaio 2012, n.13; 11 aprile 2012 n.2075; C.d.S., sez. V, 13 luglio 2010, n.4521; 2 luglio 2010, n.4235; 5 febbraio 2009, n.633).
Occorre evidenziare che l’art. 7, comma 5, del DPR 27 marzo 1969 n.128, prevede che l’aiuto sostituisca il primario in caso di assenza o impedimento di quest’ultimo; sicché “la sostituzione del primario, da parte dell’aiuto, non configura di per sé un’alterazione dell’assetto organizzativo del servizio, ma rappresenta una sorta di intervento di emergenza al fine di non compromettere la funzionalità dell’unità organizzativa nel suo complesso quando faccia difetto la figura primariale. Trattasi, quindi, di situazione peculiare, cui non possono applicarsi i principi generali vigenti in materia di pubblico impiego, circa l’impossibilità di destinare il dipendente allo svolgimento di mansioni superiori e che non necessita neppure di uno specifico atto organizzativo (in questo senso: C.d.S., Sez. V, 9 dicembre 2008 n. 6056). Neppure può applicarsi quanto previsto dall’art. 29, comma 2, D.P.R. 20 dicembre 1979 n.761, secondo cui il dipendente non può essere adibito allo svolgimento di mansioni superiori per oltre sessanta giorni l’anno e senza diritto a variazioni del trattamento economico, poiché trattasi di una disciplina generale, che trova deroga nella specifica norma di cui all’art. 7, comma 5, D.P.R. n.128/1969, sopra richiamata.” C.d.S., Sez. III, n. 2075 del 11 aprile 2012.
Il superiore trattamento retributivo spetta anche quando l’incarico di sostituzione del primario si protragga oltre il termine massimo di sei mesi, previsto dall’art. 121, comma 7, D.P.R. n. 384 del 1990, dal momento che tale previsione normativa si limita a vietare il rinnovo dell’incarico alla scadenza del periodo massimo di sei mesi ma non preclude il riconoscimento della spettanza delle relative differenze retributive quando la P.A., contravvenendo a tale divieto, rinnovi invece l’incarico, o comunque permetta la prosecuzione dell’espletamento delle mansioni superiori anche oltre il tempo massimo previsto.
Sulla base di quanto sopra, il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 2075/2012, ha accolto il ricorso avverso la sentenza del Tar che aveva riconosciuto solo parzialmente fondata la pretesa del ricorrente, medico con qualifica di aiuto, ritenendo dovute le differenze retributive maturate nel semestre successivo al sessantesimo giorno dallo svolgimento delle mansioni di primario. Il Tar, infatti, aveva ritenuto che le funzioni superiori svolte successivamente a tale termine, in quanto originate da atto nullo, fossero improduttive di qualsiasi effetto, anche retributivo.
Il Consiglio di Stato, accogliendo il ricorso, ha riconosciuto il superiore trattamento economico per l’intero periodo di sostituzione del primario (circa sei anni) e non limitatamente ai sei mesi successivi alla scadenza del sessantesimo giorno dall’inizio della sostituzione.
Con la sentenza del n. 13/2012 il Consiglio di Stato ribadisce l’indirizzo consolidato testé esposto e respinge il ricorso per la mancata dimostrazione circa l’effettiva natura primariale delle funzioni svolte dall’appellante.
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