In materia di esecuzione penale, l’inammissibilità dell’istanza originaria induce a dichiarare inammissibile anche il ricorso.
(Ricorso dichiarato inammissibile)
(Normativa di riferimento: C.p.p. art. 666)
Il fatto e i motivi addotti nel ricorso per Cassazione
G. A. proponeva incidente di esecuzione al fine di ottenere l’applicazione del beneficio dell’indulto ai sensi dell’art. 1 della legge 31 luglio 2006, n. 241.
Premetteva di essere stato condannato con: a)la sentenza della Corte di appello di Reggio Calabria del 4 giugno 1996, irrevocabile il 15 novembre 1996, alla pena di anni due e mesi quattro di reclusione per ricettazione e violazioni della disciplina su armi e munizioni; b) la sentenza della Corte di assise di appello di Reggio Calabria del 28 aprile 1997, irrevocabile il 12 gennaio 1998, alla pena di anni quindici di reclusione per i reati di omicidio continuato in concorso, lesioni personali, detenzione illegali di armi e munizioni in concorso; c) la sentenza della Corte di Assise di appello di Reggio Calabria del 5 marzo 2002, irrevocabile il 26 febbraio 2004, alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno per mesi venti per i reati di omicidio volontario e tentato omicidio, partecipazione ad associazione di stampo mafioso e violazione della disciplina sulle armi, ridotta alla pena dell’ergastolo ai sensi dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen..
Esponeva altresì come, con ordinanza del 15 giugno 2004, il giudice dell’esecuzione avesse accordato l’unificazione delle pene detentive temporanee, rispettivamente di anni due e mesi quattro di reclusione e di anni quindici di reclusione, irrogategli con le prime due sentenze, e disposto la loro conversione ai sensi dell’art. 72, comma 2, cod. pen. nell’ergastolo con l’isolamento diurno per la durata di mesi due, già interamente espiato dal 3 agosto 2004 al 4 ottobre 2004.
Aggiungeva oltre a ciò che, intervenuta la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 7, comma 1, del decreto legge 24 novembre 2000, n. 341, convertito dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, giusta pronuncia della Corte costituzionale n. 210 del 3 luglio 2013, la Corte di assise di appello di Reggio Calabria con ordinanza del 20 novembre 2013 aveva sostituito l’ergastolo con la pena di anni trenta di reclusione, tuttora in corso di espiazione anche a seguito del decreto di unificazione di pene concorrenti, emesso dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Reggio Calabria in data 21 gennaio 2014, che, indicata in anni quarantasette e mesi quattro di reclusione la pena complessiva risultante dal cumulo materiale delle pene inflitte con i titoli giudiziali di condanna, in applicazione del criterio moderatore di cui all’art. 78, comma 1, cod. pen., ritenuto più favorevole, aveva confermato la pena residua complessiva da espiare in anni trenta di reclusione.
Tanto premesso, l’istante chiedeva che l’indulto gli fosse applicato sul già eseguito isolamento diurno per mesi due e, nella misura residua di anni due e mesi dieci, sulla pena di trenta anni di reclusione.
Con ordinanza in data 19 novembre 2014, la Corte di assise di appello di Reggio Calabria, pronunciando in funzione di giudice dell’esecuzione, respingeva a sua volta l’istanza avanzata dall’A..
Posto ciò, l’interessato proponeva ricorso per cassazione, qualificato dalla Corte di cassazione con ordinanza n. 31917 dell’8 giugno 2016 quale opposizione ai sensi degli artt. 666 e 667, comma 4, cod. proc. pen. e la Corte di assise di appello di Reggio Calabria, cui erano stati trasmessi gli atti, confermava dal canto suo il provvedimento opposto con ordinanza del 6 ottobre 2016 osservando che l’applicazione dell’indulto dovesse operare, previa scissione del cumulo giuridico, sulle pene temporanee che accedono all’ergastolo e hanno determinato l’irrogazione dell’isolamento diurno e non già soltanto su tale sanzione.
Secondo la Corte territoriale, anche in riferimento alla pena detentiva di anni trenta di reclusione in cui era stata convertita quella perpetua, originariamente inflitta, il condannato non poteva infatti beneficiare dell’indulto perché doveva aversi riguardo alla pena complessiva di anni quarantasette e mesi quattro di reclusione, come risultante dal cumulo materiale prima di applicare il criterio moderatore di cui all’art. 78 cod. pen., come del resto già statuito con la precedente ordinanza del 3 dicembre 2015.
A fronte di ciò, l’A., per il tramite del proprio difensore, avv.to G. C., proponeva ricorso per cassazione, col quale ha dedotto un unico motivo, articolato in due distinte argomentazioni, per lamentare ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. violazione di legge in relazione agli artt. 72 e 174 cod. pen., 125, comma 3, e 672 cod. proc. pen., 1 e ss. della legge n. 241 del 2006 ed assenza di motivazione.
Sotto un primo profilo si deduceva come anche l’isolamento diurno, in sé sanzione detentiva autonoma e specifica rispetto all’ergastolo cui accede, fosse suscettibile di essere estinto per effetto dell’indulto a condizione che le pene detentive temporanee originarie e concorrenti con quella perpetua e che ne avevano determinato l’applicazione secondo la disposizione di cui all’art. 72, comma 2, cod. pen., non siano state inflitte per reati ostativi alla concessione del beneficio, impedimento nel caso insussistente.
Per altro verso si rappresentava come l’esecuzione dell’isolamento diurno avesse definitivamente eliminato le pene detentive concorrenti con l’ergastolo, inflitte prima della conversione, sicché ad esse non poteva farsi riferimento per applicare la causa estintiva di cui si era chiesto di poter beneficiare, mancando giustificazione legale per rimaneggiare in senso sfavorevole al condannato la pena dell’isolamento diurno già espiata e per far rivivere quelle in essa convertite con l’effetto di duplicare il trattamento sanzionatorio, non essendo consentito che il condannato, per gli stessi fatti di reato, venga punito due volte, sia con pena detentiva temporanea, sia con l’isolamento diurno. Ebbene, tale ritenuto vulnus di legge avrebbe determinato la violazione dell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dell’art. 4, protocollo n. 7, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali atteso che entrambe le fonti sanciscono il diritto di non essere giudicato o punito due volte per il medesimo fatto.
Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
La Prima Sezione penale, cui il procedimento era stato assegnato, con ordinanza n. 991 dell’Il dicembre 2017-12 gennaio 2018, aveva rimesso la decisione alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 618 cod. proc. pen., avendo riscontrato un potenziale contrasto interpretativo con precedenti pronunce di legittimità.
La Sezione rimettente aveva prima di tutto premesso di condividere il principio di diritto affermato dalla giurisprudenza di legittimità per il quale, in caso d’incidenza dell’indulto su pene detentive concorrenti, assoggettate a cumulo giuridico, quest’ultimo, che rappresenta un temperamento legale alla pluralità di titoli di condanna a pene temporanee da eseguirsi effettivamente, deve essere sciolto col ripristino del cumulo materiale, dal quale va scorporata la parte estinta per effetto dell’indulto che sia in concreto applicabile e sulla pena così ottenuta devono essere eventualmente applicati, se ne ricorrano le altre condizioni, i criteri moderatori previsti dalla legge penale (Sez. 1, n. 4893 del 04/05/2016, dep. 2017, omissis, Rv. 269410; Sez. 1, n. 32017 del 17/05/2013, omissis, Rv. 256296; Sez. 1, n. 8552 del 23/01/2013, omissis, Rv. 254929; Sez. F, n. 32955 del 29/07/2008, omissis, Rv. 240610; Sez. 1, n. 12709 del 06/03/2008, omissis, Rv. 239377).
Si osservava però al contempo come, nel caso specifico, le pene temporanee di cui alle sentenze indicate ai punti a) e b) dell’istanza, incluse nel cumulo giuridico, fossero state già convertite a ragione del loro concorso con la pena perpetua, poi caducata, nella sanzione dell’isolamento diurno, interamente scontata prima del provvedimento di sostituzione dell’ergastolo con la sanzione di anni trenta di reclusione e pertanto si riteneva come non potesse essere consentito, se non pervenendo ad esiti irragionevoli e contra legem, ignorare l’avvenuta espiazione dell’isolamento diurno ed ammettere il pieno ed incondizionato “recupero” delle pene già in esso assorbite, perché tanto sortirebbe l’effetto di duplicare il trattamento sanzionatorio in violazione del diritto di non essere giudicato o punito due volte, sancito dall’art. 4 del Protocollo 7 della Convenzione EDU.
Nell’ordinanza di rimessione in questione, veniva altresì esaminata la praticabilità dell’opzione interpretativa, elaborata dalla giurisprudenza di legittimità in riferimento alla diversa questione della verifica, ai fini della concessione dei benefici penitenziari, dell’eventuale intervenuta espiazione della pena temporanea inflitta per reato ostativo e commutata in isolamento diurno.
In particolare si escludeva sia la correttezza della soluzione che comporta l’addizione dell’intera durata della pena inflitta per il reato ostativo prima della conversione in isolamento diurno a ragione della sua ingiusta duplice afflittività, sia la possibilità di utilizzare il parametro di computo stabilito dall’art. 184 cod. pen., secondo il quale, quando la pena dell’ergastolo si sia estinta in forza di provvedimenti clemenziali, la pena detentiva temporanea inflitta per il reato concorrente è eseguita per intero, salvo che il condannato abbia già subito l’isolamento diurno applicato a norma del comma 2 dell’art. 72 cod. pen. ed in questo caso la pena per il reato concorrente va considerata ridotta alla metà, ovvero definitivamente estinta dopo trent’anni di detenzione (Sez. 1, n. 18119 del 02/03/2010, omissis, Rv. 24706; Sez. 1, n. 38462 del 19/09/2012, omissis, Rv. 253453; Sez. 1, n. 22090 del 07/05/2013, omissis, Rv. 256541).
Più nel dettaglio, la Prima Sezione penale aveva motivato il proprio dissenso a questa seconda linea interpretativa, evidenziando che: 1) l’applicazione analogica di una disposizione di legge presuppone l’identità di ratio tra il caso regolato dalla norma e quello privo di disciplina espressa, identità assente nel caso di scissione del cumulo per effetto di un atto di clemenza, quale l’amnistia, l’indulto o la grazia, che abbia determinato l’estinzione del solo ergastolo, mantenendo in vita le pene detentive con esso originariamente concorrenti, rispetto alla medesima operazione di scissione del cumulo che si compia per valutare la permanenza dell’ostatività alla fruizione dei permessi premio e delle misure alternative in senso lato secondo il divieto sancito dall’art. 4-bis ord. pen.; in questa seconda situazione la scissione del cumulo è priva di carattere clemenziale e trae origine dall’esigenza di offrire un’interpretazione conforme ai principi fondamentali dell’istituto dell’ergastolo mediante il consentito accesso alla liberazione condizionale, così come non ha quel carattere la scissione del cumulo giuridico quando, come nel caso in esame, la caducazione della pena perpetua dipenda dalla sua originaria illegalità, secondo quanto riconosciuto nella nota sentenza della Corte EDU, Grande Camera, 17/09/2009, Scoppola contro Italia, e comporti la sua sostituzione con quella temporanea nella massima durata possibile; 2) il ricorso all’analogia nel caso specifico, quand’anche ritenuto possibile, comporterebbe effettivi pregiudizievoli per il condannato in contrasto col divieto di cui all’art. 25, comma 2, Cost. ed all’art. 14 disp. prel. cod. civ., perché escluderebbe l’estinzione definitiva, prodotta con l’espiazione dell’isolamento, delle pene temporanee riferite ai reati concorrenti a quello punito con l’ergastolo.
Si concludeva dunque il ragionamento giuridico sin qui esposto nel senso che, rifiutandosi la possibilità di fare ricorso al criterio dettato dall’art. 184 cod. pen., l’indulto andrebbe applicato sulla sola pena di trent’anni di reclusione, inflitta per titoli di reato non ostativi con la sentenza 5 marzo 2002 della Corte di assise di appello di Reggio Calabria, esito che prospetta un potenziale contrasto interpretativo con le precedenti pronunce della stessa Prima Sezione penale.
Le argomentazioni prospettate dalla Procura generale
Premesso che, con decreto in data 28 febbraio 2018, il Primo Presidente aveva assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione in camera di consiglio l’odierna udienza, con requisitoria scritta, depositata in data 30 marzo 2018, il sostituto Procuratore Generale presso la Corte di cassazione aveva illustrato le proprie conclusioni, chiedendo il rigetto del ricorso e precisamente: a) osservando in senso critico rispetto alle argomentazioni contenute nell’ordinanza di rimessione che, secondo consolidata interpretazione, l’indulto va applicato sul cumulo materiale delle pene e soltanto per quelle condonabili, quindi prima di operare la riduzione stabilita dall’art. 78 cod. pen.; b) facendo presente che, nel caso di specie, il ricorrente avesse già beneficiato dell’indulto grazie all’ordinanza della Corte di assise di appello di Reggio Calabria dell’Il luglio 2008 con riferimento alla pena pecuniaria inflitta e che le pene cumulate ai sensi dell’art. 72 cod. pen., commutate nell’isolamento diurno, sono superiori ai cinque anni, cosicchè la pretesa di fruire, sia del cumulo giuridico, che dell’indulto sull’isolamento diurno espiato nonchè, per la parte residua, sulla pena oggetto di cumulo ex art. 78 cod. pen., determina una doppia fruizione del beneficio, che non può essere consentita; c) segnalando che, tra le pene temporanee inflitte al ricorrente, è compresa anche quella per il delitto di partecipazione ad associazione a delinquere di stampo mafioso, che è oggettivamente escluso dall’ambito di applicazione dell’indulto, sicchè l’opzione interpretativa prospettata dalla Prima Sezione penale, più che evitare la duplicazione delle sanzioni applicabili per i medesimi fatti, gli consente di avvantaggiarsi dell’estinzione di sanzione inflitta anche per reati ostativi.
Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite delimitavano innanzitutto il tema sottoposto al suo scrutinio giudiziale nei seguenti termini: «Se quando la pena dell’ergastolo è revocata in sede esecutiva e sostituita con la pena di anni trenta di reclusione, ai fini dell’eventuale scissione del cumulo giuridico delle pene la pena detentiva temporanea inflitta per reati concorrenti, in relazione alla quale è stato applicato l’isolamento diurno già interamente subito, debba considerarsi espiata per intero ovvero – in applicazione analogica dell’art. 184 cod. pen. – nella misura della metà».
Detto questo, si metteva altresì in risalto come la decisione del procedimento fosse condizionata da un dirimente rilievo preliminare atteso che la Prima sezione penale della Suprema Corte, già prima di pronunciarsi con l’ordinanza di rimessione, era stata investita della decisione sulla medesima questione esecutiva, sollevata da G. A., in riferimento alla possibilità di applicazione dell’indulto sulle pene irrogategli con gli stessi titoli di condanna, per i quali aveva investito il giudice dell’esecuzione del tema all’odierno esame; difatti, come evidenziato in questa stessa pronuncia, si faceva presente che, su istanza presentata dall’A., con la quale si era chiesto di poter fruire dell’indulto introdotto dalla legge n. 241 del 2006, la Corte di assise di appello di Reggio Calabria, pronunciando quale giudice della esecuzione con ordinanza del 21 maggio 2014, aveva applicato il beneficio invocato sulle pene inflittegli con le sentenze di condanna, indicate ai punti 1) e 2) del decreto di unificazione di pene concorrenti del 21 gennaio 2014, e confermato in anni trenta di reclusione la pena da espiare e, premessa l’adesione al principio ormai consolidato, per il quale l’indulto va applicato sulle pene cumulate prima di operare il temperamento di cui all’art. 78 cod. pen., aveva rilevato che, compiuta tale operazione, la pena residua da eseguire era pari ad anni quarantaquattro e mesi quattro di reclusione, sicchè il criterio moderatore dell’art. 78 cod. pen. conduceva a determinare la pena finale sempre in misura pari a trenta anni di reclusione.
A questo punto della disamina, si ripercorreva l’iter giudiziario conseguente (e già visto in precedenza) nei seguenti termini: 1) proposta opposizione da parte dell’A., la decisione iniziale era stata confermata dalla Corte di assise di appello di Reggio Calabria con ordinanza del 3 dicembre 2015, avverso la quale l’interessato aveva proposto ricorso, segnalando che l’isolamento diurno espiato aveva già definitivamente eliminato le pene detentive temporanee, confluite nel cumulo materiale ed inflitte per reati non ostativi alla fruizione del provvedimento indulgenziale, mentre la ritenuta reviviscenza di queste vanifica l’espiazione già patita in condizioni particolarmente afflittive di isolamento e si traduce nella duplicazione del trattamento sanzionatorio e che l’indulto, a norma dell’art. 174 cod. pen., va applicato sulle pene eseguibili in concreto con esclusione di quelle già sofferte o estinte per altra causa; b) la Prima Sezione penale, con sentenza n. 42818 del 25 ottobre 2017, respingendo il ricorso in quanto, una volta premessa la diversità strutturale tra reclusione ed isolamento diurno e la funzione di quest’ultima sanzione, applicata previa commutazione delle pene detentive di lunga durata già irrogate per reati concorrenti con quello per il quale è inflitto l’ergastolo, diversamente non punibili trattamento accessorio alla pena perpetua, immediatamente eseguibile non appena divenuta irrevocabile la pronuncia di condanna, si esprimeva adesione alla soluzione proposta dal giudice dell’esecuzione ed affermato che, nel caso dell’A., l’esecuzione dell’isolamento diurno non ha determinato l’estinzione delle pene detentive temporanee in esso commutate e che una volta convertito l’ergastolo in pena temporanea pari ad anni trenta di reclusione, «i titoli eccedenti la pena perpetua, rimasti sostanzialmente ineseguiti, hanno idoneamente agito sul cumulo materiale in esecuzione, sul quale ha operato, poi, il criterio moderatore di cui all’art. 78, comma 1, cod. pen.» fermo restando che, con la medesima sentenza, la Prima Sezione penale aveva esaminato anche la possibilità di procedere all’applicazione analogica del criterio di calcolo dettato dall’art. 184 cod. pen., opzione esclusa per la radicale divergenza rispetto alla fattispecie regolata da tale referente normativo della situazione dell’A., nella quale l’ergastolo non era estinto, ma sostituito con la reclusione per trenta anni in corso di espiazione, sicchè, non rinvenendosi nel sistema penale altri positivi criteri di ragguaglio o di conversione, il periodo di isolamento diurno patito resta privo di effetti e non può essere equiparato alla reclusione per la diversa rispettiva afflittività e concludeva per la corretta applicazione dell’indulto alla pene detentive temporanee, originariamente inflitte, cumulate in senso addizionale con quella di trenta anni di reclusione, rispetto alle quali ha ribadito il già affermato principio di diritto per cui, in caso di esecuzione di pene concorrenti inflitte per più reati, l’indulto si applica una sola volta sul cumulo materiale delle pene stesse, prima di operare il temperamento di cui all’art. 78 del codice penale, non già sulla pena risultante dopo l’applicazione del criterio moderatore del cumulo giuridico.
Una volta esaurito questo excursus di questa vicenda giudiziaria, le Sezioni Unite rilevavano come il raffronto tra le istanze introduttive dei due incidenti di esecuzione, proposti dall’A. e tra i provvedimenti che avevano deciso in ordine ad esse, convinceva le medesime sezioni a considerare come nel caso di specie i temi dedotti e delibati fossero identici di conseguenza dell’operatività nel caso di specie della preclusione, derivante dalla precedente decisione della Corte di assise di appello di Reggio Calabria, resa definitiva dalla pronuncia citata n. 42818 del 25 ottobre 2017.
Si osservava al riguardo quanto stabilito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 18228 del 21/01/2010, omissis, Rv. 246651, che aveva offerto una puntuale ricognizione dei presupposti applicativi della preclusione, derivante dalla pronuncia di precedente statuizione giudiziale su un medesimo tema di rilievo nell’esecuzione penale, oggetto di domanda riproposta per una reiterata deliberazione, che rinviene il proprio referente di sistema nel principio generale che vieta il bis in idem e la disciplina positiva nella disposizione dell’art. 666, comma 2, cod. proc. pen., per la quale il giudice dell’esecuzione dichiara inammissibile la richiesta che sia mera riproposizione, in quanto basata sui medesimi elementi, di altra già valutata.
Inoltre, sempre seguendo quanto postulato in questo precedente arresto giurisprudenziale, una volta premessa l’impropria evocazione della nozione di giudicato in riferimento ai provvedimenti del giudice dell’esecuzione, suscettibili di revoca per la natura provvisoria delle determinazioni assunte, espressione di «un accertamento giudiziale a contenuto limitato», e per il perseguimento da parte della relativa disciplina della finalità rieducativa della pena, si era evidenziato come ragioni di economia e di efficienza processuale giustificassero «la stabilizzazione giuridica di siffatto accertamento, (che, n.d.r.) deve essere designata con il termine “preclusione”, proprio al fine di rimarcarne le differenze con il concetto tradizionale di giudicato», più propriamente riferibile al provvedimento emesso nel giudizio di cognizione segnalandosi al contempo la limitata portata dell’effetto «autoconservativo» di siffatto accertamento perché circoscritta alla deduzione dello stesso oggetto in relazione a presupposti di fatto e ragioni di diritto, identici a quelli rappresentati con precedente istanza, già esaminata e decisa.
Per di più, si evidenziava come pure i successivi interventi delle singole Sezioni della Cassazione avessero ulteriormente precisato l’ambito di operatività della preclusione e rilevato che il provvedimento del giudice dell’esecuzione, una volta divenuto formalmente irrevocabile, perché non impugnato o per il rigetto dell’impugnazione proposta, impedisce una nuova pronuncia sul medesimo petitum, non in termini assoluti e definitivi, ma soltanto allo stato delle questioni trattate dato che l’art. 666, comma 2, cod. proc. pen. commina l’inammissibilità della domanda se mera riproposizione di una richiesta “basata sui medesimi elementi” mentre è consentito investire il giudice dell’esecuzione della nuova istanza a condizione che si rappresentino nuove tematiche giuridiche o nuovi dati di fatto, sia sopravvenuti, sia preesistenti, ma non esposti e non presi in considerazione nella decisione antecedente (Sez. 1, n. 9780 del 11/01/2017, omissis, Rv. 269421; Sez. 1, n. 19358 del 05/10/2016, dep. 2017, omissis, Rv. 269841; Sez. 3, n. 6051 del 27/09/2016, dep. 2017, omissis, Rv. 268834; Sez. 3, n. 50005 del 01/07/2014, omissis, Rv. 261394; Sez. 1, n. 29983 del 31/05/2013, omissis, Rv. 256406; Sez. 1, n. 36005 del 14/06/2011, omissis, Rv. 250785; Sez. 1, n. 3736 del 15/01/2009, omissis, Rv. 242533).
Si denotava oltre tutto come i medesimi principi fossero stati affermati in casi analoghi a quello in oggetto, ossia anche in riferimento all’istituto dell’indulto ed all’ipotesi in cui la prima istanza decisa sia stata introdotta per iniziativa di una parte processuale differente dal diretto interessato, risultando dirimente l’identità delle questioni dedotte e trattate, non della parte proponente come si evince dalla Sez. 1, n. 32401 del 21/03/2014, omissis, Rv. 263213, in cui venne stabilito che «è inammissibile la richiesta di applicazione dell’indulto proposta dal condannato dopo che analoga richiesta, formulata dal pubblico ministero, sia stata rigettata dal giudice dell’esecuzione, a nulla rilevando che la stessa provenga da soggetto diverso, laddove si tratti della riproposizione di identiche questioni in assenza di nuovi elementi».
Inoltre, concludendo il ragionamento giuridico sin qui enunciato, si precisava infine che l’effetto preclusivo ricollegabile alla decisione esecutiva non opera esclusivamente quando si sia già formato il giudicato formale, ma è riconoscibile anche al provvedimento, seppur impugnato, nel senso che con la decisione il giudice dell’esecuzione esaurisce il proprio potere cognitivo e la propria funzione sicché l’istante, per conseguire il risultato denegato, non può nuovamente interpellarlo tramite proposizione di ulteriore incidente di esecuzione per provocarne una nuova valutazione dei medesimi temi in fatto o in diritto, già oggetto di pronuncia allo stato immodificabile, in assenza di spunti innovativi (Sez. 1, 1, n. 25345 del 19/03/2014, omissis, Rv. 262135; Sez. 3, n. 10224 del 04/02/2010, omissis, Rv. 246346; Sez. 1, n. 5687 del 18/11/1998, dep. 1999, omissis, Rv. 212793), e ciò perchè la ratio della disposizione, finalizzata a comporre e ad impedire l’insorgenza di contrasti tra decisioni diverse, intervenute sulla medesima questione a fronte di presupposti coincidenti, ne impone un’ampia applicazione poiché l’inconveniente che intende evitare può porsi anche soltanto per effetto della contestuale pendenza di giudizi distinti sullo stesso oggetto in presenza di una immutata situazione di fatto o di identiche questioni di diritto così come, per per le medesime considerazioni, si osservava come fosse pacificamente riconosciuta la possibilità di rilevare anche d’ufficio nel giudizio di legittimità l’eventuale inammissibilità di un’istanza di incidente di esecuzione, se manifestamente infondata, oppure reiterativa di una domanda già esaminata in mancanza di profili originali, con la comunicazione della medesima sanzione d’inammissibilità anche al ricorso per cassazione proposto avverso la decisione esecutiva, che, errando, l’abbia esaminata nel merito e l’abbia respinta in luogo di dichiararla inammissibile, come dovuto.
Una volta formulate queste coordinate ermeneutiche, declinandole al caso sottoposto al suo vaglio giudiziale, gli ermellini evidenziavano come il condannato, dopo avere proposto ricorso avverso l’ordinanza della Corte di assise di appello di Reggio Calabria del 3 dicembre 2015, che, per quanto già esposto, gli aveva negato l’applicazione dell’indulto nei termini sollecitati, prima ancora che potesse intervenire la pronuncia della Corte di cassazione, aveva investito nuovamente lo stesso giudice dell’esecuzione di identica richiesta, basata sui medesimi presupposti fattuali e sulle stesse tematiche giuridiche, che la Corte distrettuale aveva respinto, anziché dichiararla inammissibile ai sensi dell’art. 666, comma 2, cod. proc. pen..
Detta condizione di inammissibilità, inoltre, induceva i giudici di Piazza Cavour non solo a dichiarare inammissibile il ricorso, ma anche di non poter affrontare, anche solo in via incidentale, la questione controversa rimessa dall’ordinanza della Prima Sezione penale e di formulare il principio di diritto relativo alla soluzione adottata secondo la prescrizione dell’art. 173, comma 3, disp. att. cod. proc. pen. proprio alla luce di tale inammissibilità.
Conclusioni
La sentenza in questione è condivisibile, ma solo in parte.
Del tutto ineccepibile il fatto che il giudice dell’esecuzione deve dichiarare inammissibile la richiesta che sia mera riproposizione, in quanto basata sui medesimi elementi, di altra già valutata stante sia il tenore letterale dell’art. 666, c. 2, c.p.p., sia quanto affermato dalla stessa Cassazione (sia dalla sentenza n. 18288 emessa dalle Sezioni Unite il 21/01/2010, che in altre decisioni).
Ad ogni modo, perlomeno dalla lettura di questa decisione, sembrerebbe emergere che il condannato, dopo avere proposto ricorso avverso l’ordinanza della Corte di assise di appello di Reggio Calabria del 3 dicembre 2015, che, per quanto già esposto, gli aveva negato l’applicazione dell’indulto nei termini sollecitati, prima ancora che potesse intervenire la pronuncia della Corte di cassazione, aveva investito nuovamente lo stesso giudice dell’esecuzione di identica richiesta, basata sui medesimi presupposti fattuali e sulle stesse tematiche giuridiche, che la Corte distrettuale aveva respinto, anziché dichiararla inammissibile ai sensi dell’art. 666, comma 2, cod. proc. pen..
Tuttavia, se è così avvenuto, ciò vuol significare che la seconda istanza è stata depositata quando il procedimento, inerente la prima istanza, non era ancora stato conclusivo in via definitiva e quindi non si era ancora formato un giudicato esecutivo che, come è noto, rappresenta la condizione processuale necessaria affinchè sia applicabile l’art. 666, c. 2, c.p.p..
Infatti, se è vero che “la preclusione del cosiddetto giudicato esecutivo non si estende a tutte le questioni deducibili ma esclusivamente a quelle che sono state dedotte ed effettivamente decise” (Cass. pen., sez. I, 21/01/2015, n. 7877, è altrettanto vero, argomentando a contrario, che affinchè non siano più deducibili questioni già trattate in un precedente procedimento di esecuzione, occorre che quest’ultimo sia stato definito.
Invero se, come emerge in questa stessa pronuncia, il principio generale che vieta il bis in idem è da porsi in stretta correlazione con la disciplina positiva nella disposizione dell’art. 666, comma 2, cod. proc. pen., è palese quindi, come evidenziato dalla stessa Corte di Cassazione in un’altra pronuncia, che il “suddetto principio, sancito normativamente con riferimento alla cosa giudicata formale del giudizio di cognizione dall’art. 649 c.p.p., trova ulteriore ancoraggio, per quanto riguarda la fase della esecuzione (e tutti i procedimenti incidentali, complementari e/o speciali variamente modellati col rinvio alle disposizioni dell’art. 666 c.p.p.) nella comminatoria della inammissibilità, prevista dall’art. 666 c.p.p., comma 2, nel caso di mera riproposizione di una richiesta già rigettata, basata sui medesimi elementi” (Cass. pen., sez. I, 21/01/2015, n. 7877), tanto è vero che, sempre nella pronuncia in commento, si è fatto riferimento a quell’orientamento nomofilattico alla stregua del quale il provvedimento del giudice dell’esecuzione, una volta divenuto formalmente irrevocabile, perché non impugnato o per il rigetto dell’impugnazione proposta, impedisce una nuova pronuncia sul medesimo petitum, non in termini assoluti e definitivi ma soltanto allo stato delle questioni trattate dato che l’art. 666, comma 2, cod. proc. pen. commina l’inammissibilità della domanda se mera riproposizione di una richiesta “basata sui medesimi elementi” mentre è consentito investire il giudice dell’esecuzione della nuova istanza a condizione che si rappresentino nuove tematiche giuridiche o nuovi dati di fatto, sia sopravvenuti, sia preesistenti, ma non esposti e non presi in considerazione nella decisione antecedente.
Va da sé quindi che se non è ancora intervenuto un provvedimento del giudice dell’esecuzione penale irrevocabile, ancora non possono ricorrere, ad avviso di chi scrive, le limitazioni di riproposizione di istanza già in precedenza presentata in materia di esecuzione penale, secondo quanto previsto dall’art. 666, c. 2, c.p.p. come sembra essere avvenuto nel caso di specie.
Il giudizio su questa decisione, quindi, come esposto già prima, è positivo, ma solo in parte.
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