Il matrimonio celebrato a mezzo Skype secondo le forme e le modalità previste da un ordinamento straniero non contrasta con l’ordine pubblico italiano.
È quanto stabilito dalla prima sezione civile della Corte di Cassazione con la sentenza 15343 del 25 luglio 2016.
La singolare pronuncia nasce dal rifiuto opposto dall’Ufficiale dello Stato civile del Comune di San Giovanni in Persiceto, nel Bolognese, di trascrivere l’atto di matrimonio tra una donna italiana e un uomo pakistano in considerazione della presunta contrarietà con l’ordine pubblico delle modalità di celebrazione dello stesso, avvenute alla sola presenza dello sposo, mentre la sposa aveva partecipato in collegamento Skype. Sottesa al suddetto diniego la presunzione in forza della quale costituirebbe principio fondamentale dell’ordinamento giuridico italiano – derogabile solo in casi eccezionali – la presenza contestuale dei nubendi dinanzi a chi officia il matrimonio, anche al fine di assicurare la loro libertà nell’esprimere la volontà di sposarsi.
Instauratosi il contraddittorio con il ministero dell’interno e il comune, sia il tribunale di Bologna che la Corte d’appello ritenevano il matrimonio validamente celebrato secondo le modalità e nelle forme previste dalla legge pakistana e, quindi, anche per l’ordinamento italiano, indipendentemente dalla modalità con la quale era stato celebrato, e in ogni caso alla presenza dello sposo e dei suoi testimoni. Pertanto, il rifiuto di trascriverlo da parte dell’ufficiale di stato civile era illegittimo, non sussistendo alcuna violazione dell’ordine pubblico internazionale «atteso che la contestuale presenza dei nubendi dinanzi all’autorità officiante, a norma dell’art. 107 c.c., non costituisce un principio irrinunciabile per la stessa legge italiana», essendo irrinunciabile il solo principio – rispettato nella fattispecie, anche se “a distanza” – della libera, genuina e consapevole espressione del consenso alla formazione del vincolo matrimoniale.
La vicenda è approdata innanzi alla Corte di Cassazione che ha rigettato le ragioni del Viminale.
Più in particolare, nell’unico motivo di ricorso il Ministero dell’Interno denunciava la violazione o falsa applicazione degli artt. 16 e 65 del d.lgs. 31 maggio 1995, n. 218 e 18 del dPR 3 novembre 2000, n. 396 per l’accoglimento di una richiesta di riconoscimento di un atto matrimoniale contrario all’ordine pubblico italiano – inteso come «nucleo essenziale delle regole inderogabili e immanenti all’istituto matrimoniale» – in una situazione in cui, per le modalità in cui il matrimonio era stato celebrato, senza la presenza fisica dei nubendi e grazie all’ausilio del mezzo di comunicazione via Internet, non vi era alcuna garanzia che i nubendi avessero espresso liberamente e reciprocamente un consenso consapevole.
La doglianza suddetta non ha, tuttavia, trovato accoglimento.
Ed invero, secondo gli Ermellini i giudici di merito hanno correttamente ritenuto che «il matrimonio celebrato all’estero è valido nel nostro ordinamento, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo di celebrazione, o dalla legge nazionale di almeno uno dei nubendi al momento della celebrazione, o dalla legge dello Stato di comune residenza in tale momento». Pertanto, l’unione celebrata validamente secondo le leggi del Pakistan è da ritenersi valida per l’ordinamento italiano, non ostandovi alcun principio di ordine pubblico.
Parimenti, la tesi del ministero secondo cui la celebrazione del matrimonio via internet con la sola presenza dello sposo (avendo la sposa partecipato telematicamente) non garantirebbe la genuinità dell’espressione del consenso, è da ritenersi «errata in diritto» per due fondamentali ragioni.
In primo luogo, perché pretende di «ravvisare una violazione dell’ordine pubblico tutte le volte che la legge straniera, in base alla quale sia stato emanato l’atto di cui si chiede il riconoscimento, contenga una disciplina di contenuto diverso da quella dettata in materia dalla legge italiana». Tuttavia – ricordano i supremi giudici – ravvisando l’ordine pubblico nelle norme, seppure inderogabili, presenti nell’ordinamento interno, sarebbero cancellate le diversità tra i sistemi giuridici e le regole di diritto internazionale privato risulterebbero inutilter datae. Il giudizio di compatibilità con l’ordine pubblico dev’essere riferito, invece, al «nucleo essenziale dei valori del nostro ordinamento che non sarebbe consentito nemmeno al legislatore ordinario interno di modificare o alterare, ostandovi principi costituzionali inderogabili».
Inoltre, a giudizio della Cassazione, «il rispetto dell’ordine pubblico dev’essere garantito, in sede di delibazione, avendo esclusivo riguardo “agli effetti” dell’atto straniero (come ribadito da Cass. n. 9483 del 2013), senza possibilità di sottoporlo ad un sindacato di tipo contenutistico o di merito né di correttezza della soluzione adottata alla luce dell’ordinamento straniero o di quello italiano». Pertanto, «se l’atto matrimoniale è valido per l’ordinamento straniero, in quanto da esso considerato idoneo a rappresentare il consenso dei nubendi in modo consapevole, esso non può ritenersi contrastante con l’ordine pubblico solo perché celebrato in una forma non prevista dall’ordinamento italiano».
Dall’applicazione dei principi summenzionati al caso de quo, ne è scaturito, dunque, il rigetto del ricorso con compensazione delle spese del giudizio stante la «novità della questione esaminata».
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