- Il fatto
- I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
- Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
- Conclusioni
Il fatto
Il Tribunale di Cremona disponeva la sospensione di un procedimento penale pendente a carico di due imputati, con messa alla prova da eseguirsi con le modalità e le prescrizioni stabilite per la durata di due anni e un totale di seicento ore, dando ulteriori disposizioni accessorie.
Sull’argomento, vedasi:
- La sospensione del procedimento con messa alla prova
- Sospensione del procedimento con messa alla prova
- Ammissibilità della messa alla prova per gli enti alla luce delle recenti pronunce
- La richiesta di messa alla prova è ammissibile anche per più reati
- Basta un precedente per negare la messa alla prova?
- All’inammissibilità dell’istanza di messa alla prova presentata in sede di opposizione a decreto penale non consegue, tout court, l’inammissibilità dell’opposizione a decreto penale
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso il provvedimento summenzionato proponevano ricorso per Cassazione, con unico atto a firma del comune difensore, ambedue gli imputati.
In particolare, con il primo motivo, limitatamente alla posizione di uno degli accusati, si censurava il fatto che il giudice di merito avesse modificato il contenuto del programma di trattamento al quale l’imputato aveva prestato consenso, nel quale era stabilito un impegno nell’esecuzione di lavori di pubblica utilità per quattro ore settimanali, nella giornata del sabato.
Orbene, a fronte di ciò, per contro, tale giudice, stabilendo un ammontare di seicento ore in due anni, aveva determinato in almeno sei ore settimanali la durata del lavoro di pubblica utilità al quale doveva attendere l’imputato, risultando con ciò violata la previsione codicistica; violazione che, osservava il ricorrente, è stata dalla giurisprudenza di legittimità ricondotta al novero delle nullità generali a regime intermedio di cui all’art. 178, lett. c) cod. proc. pen..
Con un secondo motivo, invece, relativo alla posizione di entrambi gli imputati, era denunciata l’assenza di motivazione in merito alla durata della sospensione del procedimento con messa alla prova avendo il Tribunale fissato tale durata nel massimo possibile senza una reale motivazione, tanto più necessaria in relazione alla mancata determinazione nel programma di trattamento della durata del lavoro di pubblica utilità.
Ciò posto, a sua volta il terzo motivo era articolato in favore di entrambi gli imputati, lamentandosi con esso la violazione degli artt. 168-bis e 133 cod. pen., perché il Tribunale, nel determinare la durata del lavoro di pubblica utilità, secondo la difesa, non aveva tenuto conto dei criteri individuati dalle menzionate disposizioni; in particolare delle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute degli imputati, che risultano pregiudicate da un impegno che pregiudica il regolare svolgimento dell’attività lavorativa, le esigenze familiari e di riposo, così come neppure era stato rispettato l’art. 133 cod. pen. perché il Tribunale aveva disposto la massima durata senza tener conto della gravità concreta del reato, senza considerare che il legislatore ha previsto la sospensione con messa alla prova anche per reati puniti più gravemente di quello ascritto agli imputati e senza considerare tutti i fattori favorevoli agli stessi, che avrebbero dovuto incidere sulla determinazione di tale periodo.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il ricorso era ritenuto fondato in relazione al primo motivo.
Gli Ermellini, difatti, osservavano prima di tutto che l’art. 464-quater, comma 3, cod. proc. pen., stabilisce che la sospensione del procedimento con messa alla prova è disposta quando il giudice, in base ai parametri di cui all’art. 133 il codice penale, reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati mentre l’art. 168-bis, terzo comma, cod. pen. prevede quanto segue: la concessione della messa alla prova deve essere subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità, il quale consiste in una prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell’imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. La prestazione è svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore.
Orbene, alla luce di tale quadro normativo, i giudici di piazza Cavour facevano presente come il legislatore non abbia però espresso i criteri cui il giudice deve attenersi nel vaglio di congruità della durata complessiva e della intensità del lavoro di pubblica utilità, all’interno della forbice edittale che va da dieci giorni a uno o due anni, a seconda della natura della pena edittale, con un’intensità minima non indicata ed una massima di otto ore giornaliere e, per tale motivo, la giurisprudenza, da un lato, ha fatto riferimento agli indici dettati dall’art. 133 cod. pen., tuttavia precisando che ove il programma di trattamento elaborato dal UEPE di intesa indichi la durata del lavoro di pubblica utilità, la motivazione del provvedimento del giudice potrà limitarsi a un richiamo alla congruità di quanto già previsto di intesa fra l’imputato e l’UEPE; diversamente sarà necessaria una motivazione più pregnante (Sez. 3, Sentenza n. 55511 del 19/09/2017), dall’altro, ha postulato che il Giudice, impregiudicata la valutazione di inidoneità, può sì integrare o modificare il programma elaborato con il consenso dell’imputato ma non può introdurre prescrizioni più gravose, senza il consenso dell’imputato (Sez. 6, Sentenza n. 44646 del 01/10/2019).
Ebbene, declinando tale criterio ermeneutico rispetto al caso di specie, la Suprema Corte notava come fosse agevole rilevare nel caso di specie che il programma di trattamento, al quale l’imputato aveva prestato il consenso, stabiliva un impegno nell’esecuzione di lavori di pubblica utilità per quattro ore settimanali, nella giornata del sabato mentre, a fronte di ciò, il giudice aveva stabilito un ammontare di seicento ore del lavoro di pubblica utilità in due anni affermando che il programma non ne prevede la durata ma, determinandola in due anni e in seicento ore complessive, egli aveva modificato il contenuto del programma assentito dall’imputato elevando a poco più di cinque ore la durata settimanale del lavoro di pubblica utilità e tanto avrebbe richiesto il consenso dell’imputato, nella specie mancato.
Il provvedimento impugnato era pertanto annullato, con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Cremona, così come analoga statuizione era adottata in accoglimento del ricorso dell’altro imputato giacché per questi il giudice aveva determinato la durata del lavoro di pubblica utilità senza alcuna esplicazione della valutazione operata al riguardo, pur avendola fissata nella misura massima prevista. Emergeva quindi, per il Supremo Consesso, con nettezza, la totale omissione della motivazione sul punto.
Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante nella parte in cui è ivi chiarito, citandosi un precedente conforme, che, in materia di messa alla prova, il giudice non può adottare prescrizione più gravose, rispetto a quelle previste nel programma di trattamento elaborato dal UEPE, senza il consenso dell’imputato.
Ove invece si verifichi una situazione di questo genere, ben si potrà quindi contestare un provvedimento di questo tipo impugnandolo nei modi e nelle forme consentite dal codice di rito penale.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta pronuncia, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su codesta tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.
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