Minaccia, in cosa consiste l’atto intimidatorio e da cosa può essere desunto

(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 612)

Indice:

  1. Il fatto
  2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
  3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
  4. Conclusioni

Il fatto

Il Tribunale di Avellino, in accoglimento dell’appello proposto dalla costituita parte civile avverso la sentenza con cui il giudice di pace di Avellino aveva assolto una persona accusata dal reato di cui all’art. 612, c.p., con la formula perché il fatto non costituisce reato, condannava quest’ultima al risarcimento dei danni derivanti dal reato in favore della vittima, che liquidava in euro 350,00.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il provvedimento emesso dal Tribunale avellinese proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato che deduceva i seguenti motivi:

1) violazione di legge e vizio di motivazione in quanto, ad avviso del ricorrente, il giudice di seconde cure aveva omesso di verificare se l’effettivo contesto, in cui la frase incriminata fosse stata profferita, consentiva di affermarne l’effettiva portata intimidatoria, derivante dalla concreta realizzabilità del male minacciato;

2) vizio di motivazione in ordine al giudizio di attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa e alla valutazione di inconferenza delle prove a discarico operate dal tribunale;

3) violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla mancata verifica della sussistenza di un caso di minaccia condizionata, non punibile;

4) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato contestato.

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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso era accolto ritenendosi fondato il primo motivo di impugnazione, in esso rimandendo assorbita ogni ulteriore censura.

Si osservava a tal proposito, in via preliminare, come non potessero essere presi in considerazione in Cassazione i denunciati vizi di motivazione in quanto, trattandosi di impugnazione avverso sentenza di appello pronunciata in relazione a reato rientrante nella competenza del giudice di pace, il ricorso non può essere fondato sui vizi di motivazione contemplati dall’art. 606, co. 1, lett. e), c.p.p., ma solo sui diversi vizi, di cui all’art. 606, co. 1, lett. a); b) e c), c.p.p., conformemente a quanto previsto dall’art. 606, co. 2 bis, c.p.p., inserito dall’art. 5, co. 1, d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11.

Ciò posto, la Corte di legittimità riteneva come fosse integrato, nel caso in esame, il vizio di cui all’art. 606, co. 1, lett. b), c.p.p., in punto di erronea applicazione della legge penale, essendo stata ritenuta sussistente, sia pure agli effetti civili, la responsabilità del ricorrente in relazione alla fattispecie prevista dall’art. 612, co. 1, c.p., senza una (ritenuta non) accurata analisi dei presupposti cui la giurisprudenza di legittimità, in sede di interpretazione della menzionata disposizione normativa, ritiene configurabile il delitto di minaccia, dato che, ad avviso del Supremo Consesso, il Tribunale, nel riformare la decisione assolutoria di primo grado, fondata sulla mancata dimostrazione, in relazione alle concrete circostanze del fatto, di un effettivo turbamento psichico patito dalla persona offesa, in conseguenza delle frasi rivolte al suo indirizzo dall’imputato, che il giudice di primo grado aveva ritenuto espressione di uno stato di concitazione d’animo, derivante da uno stress emotivo, era giunto a conclusioni diverse affermando il consolidato principio di diritto secondo cui, ai fini dell’integrazione del delitto di minaccia, non è necessario che il soggetto passivo del reato si sia sentito effettivamente intimidito.

Detto questo, a fronte di tale iter argomentativo, per i giudici di piazza Cavour, se è senz’altro vero che, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, nel delitto di minaccia l’atto intimidatorio è fine a se stesso e per la sussistenza del reato si richiede solo che l’agente ponga in essere la condotta minatoria in senso generico, trattandosi di reato formale con evento di pericolo, immanente nella stessa condotta, essendo sufficiente la sola attitudine della condotta stessa ad intimorire e irrilevante l’indeterminatezza del male minacciato purché questo sia ingiusto e possa essere dedotto dalla situazione contingente, senza che sia necessario, dunque, il verificarsi di un reale stato di intimidazione della vittima (cfr., ex plurimis, Cass., sez. V, 2.3.1989, n. 9082; Cass., sez. I, 28.5.1987, n. 11525; Cass. sez. V, 23.1.2012, n. 11621), tuttavia, è altrettanto vero che, per la sussistenza in concreto del reato di cui si discute, sia necessario dedurre l’attitudine a intimorire della condotta posta in essere dal soggetto attivo, come indicato dalla giurisprudenza di legittimità, dalla situazione contingente, vale a dire dal contesto in cui si inserisce la condotta in questione e, in particolare, quando essa consiste in espressioni verbali, dal momento in cui le frasi sono state profferite, avuto riguardo ai toni e alla cornice di riferimento, vale a dire a tutte le circostanze di fatto rilevanti (cfr. Cass., Sez. 5, n. 9392 del 16/12/2019; Cass., Sez. 5, n. 11708 del 15/10/2019).

Orbene, declinando tale (secondo) approdo ermeneutico rispetto alla fattispecie in esame, la Cassazione riteneva come siffatto profilo non fosse stato minimamente considerato dal giudice di secondo grado, avendo costui concentrato la sua attenzione solo sul significato letterale delle parole pronunciate dall’imputato all’indirizzo della parte offesa.

In tal modo, quindi, si stimava integrato il vizio di violazione di legge in punto di erronea ricostruzione del significato della fattispecie normativa di cui all’art. 612, c.p. che, per gli Ermellini, giustificava l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio al giudice civile competente in grado di appello per nuovo esame sul punto, fermo restando che, al riconoscimento e alla liquidazione delle spese sostenute in questo grado di giudizio, si sarebbe dovuto procedere all’esito della definitiva definizione del procedimento in sede civile.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante essendo ivi chiarito, in materia di minaccia, in cosa consiste l’atto intimidatorio e da cosa può essere desunto.

Difatti, in tale pronuncia, sulla scorta di un pregresso orientamento nomofilattico, si afferma, per un verso, che, nel delitto di minaccia, l’atto intimidatorio è fine a se stesso e per la sussistenza del reato si richiede solo che l’agente ponga in essere la condotta minatoria in senso generico, trattandosi di reato formale con evento di pericolo, immanente nella stessa condotta, essendo sufficiente la sola attitudine della condotta stessa ad intimorire e irrilevante l’indeterminatezza del male minacciato purché questo sia ingiusto e possa essere dedotto dalla situazione contingente, senza che sia necessario, dunque, il verificarsi di un reale stato di intimidazione della vittima, per altro verso, che è comunque necessario dedurre l’attitudine a intimorire della condotta posta in essere dal soggetto attivo dalla situazione contingente, vale a dire dal contesto in cui si inserisce la condotta in questione e, in particolare, quando essa consiste in espressioni verbali, dal momento in cui le frasi sono state profferite, avuto riguardo ai toni e alla cornice di riferimento, vale a dire a tutte le circostanze di fatto rilevanti.

Tale provvedimento, pertanto, deve essere preso nella dovuta considerazione ogni volta di debba verificare la sussistenza di questo elemento costitutivo del reato di cui all’art. 612 cod. pen..

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, di conseguenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su tale tematica giuridica, non può che essere positivo.

 

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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